mercoledì 25 novembre 2009

Con la testa fra i gomiti





Con la testa fra i gomiti.
Raggomitolato sotto le coperte, le gambe piegate sulle cosce, le cosce flesse sull’addome, con il corpo raccolto in posizione fetale per quanto me lo concede l’artrosi.
Sto.
La sveglia non ha fatto in tempo a suonare.
Come accade quasi ogni giorno mi sono svegliato un attimo prima, esattamente un minuto prima del click.
Da settimane, da mesi ormai, il suono della sveglia è un appuntamento mancato al quale io mi presento in anticipo.
La testa stretta fra i gomiti, c’è già luce, fuori.           
Mi ravvoltolo di più nelle coperte, non è più estate da un bel po’ di tempo, ormai, fra poco non sarà più nemmeno autunno; comincia a fare freddo.
Sto qui.
Gli occhi chiusi come uno che dorme, la testa presa in mezzo ai gomiti, schiacciata sul cuscino come a cercare una profondità, coperto solo da un lenzuolo e da un copriletto leggero (e ormai non è più estate già da un bel po’ di tempo, fra poco non sarà più nemmeno autunno, comincia a fare freddo), le gambe flesse contro il corpo piegato in posizione fetale come uno che dorme.
Fuori c’è già luce, io rimango ancora qui, la testa schiacciata sul cuscino, gli occhi chiusi come uno che dorme, il respiro regolare e profondo di uno che dorme.
Tempo che sto qui.
È il respiro che misura il tempo.
Non è presto, o tardi, non è prima o dopo nessun tipo di ora.
La sveglia non ha suonato, l’appuntamento con qualsiasi tipo di orario è un appuntamento mancato al quale io mi sono presentato in anticipo, non è nessuna ora e nessun tempo, il tempo è solo quello del respiro, profondo e regolare, lento.
Il respiro di uno che dorme.
Lo sento, il mio respiro.
Sento l’andare e il venire dell’aria nei polmoni, l’andare e venire del torace sotto le coperte, l’andare e venire del tempo che fluisce insieme all’aria dentro e fuori dai polmoni, tempo che va e che viene, che finalmente ha cessato di scorrere solo in avanti e che ora è qui con me, dove io sto, tempo che si muove fluente dentro e fuori me, nel ciclo regolare e lento del respiro che è di me mentre rimango qui col corpo flesso in posizione fetale per quello che l’artrosi mi concede, la testa presa stretta in mezzo ai gomiti schiacciata sul cuscino, fuori c’è luce ma io sto qui con gli occhi chiusi come uno che dorme.
Il tempo scorre ciclico dentro il mio tempo, il mio respiro è un rotolare ciclico e infinito mentre io, qui, non dormo.
Sto.

Per primo mi appare l’oblio.
L’oblio è una distesa bianca, un mare di liquido lattescente che occupa tutta la superficie, una distesa uniforme e piatta, uguale a se stessa in ogni parte della sua estensione, solo leggermente increspata, a tratti, da strie più dense e più corpose, ugualmente bianche ma più spesse, quasi materiche, che emergono dalla superficie in strisce disposte obliquamente, se ne riconosce la presenza solo dall’ombra che il loro rilievo disegna sulla superficie piatta e uniforme, immacolata, immobile.
Bianca.
L’oblio appare ai miei occhi chiusi, compare alla mia vista dentro i miei occhi chiusi, e sarebbe un oblio perfetto se non fosse per quegli addensamenti, per le sottili increspature oblique che prendono forma sulla distesa lattiginosa uniforme e infinita, onde tutte uguali a se stesse, perfettamente sincrone fra loro e sincrone con l’andare e venire del mio respiro, così come io lo sento entrare e uscire dal mio petto, dai miei polmoni, dalle narici schiacciate sul cuscino.
Ho la testa presa fra i gomiti sprofondata nella molle profondità del cuscino.
L’oblio non ha tempo, il suo esistere non conosce né prima né dopo, né alcun tipo di ora.
È.
Allo stesso modo non è in nessun modo né dentro né fuori di me, perché è l’oblio totale, unico e assoluto, e non ha nulla con cui mettersi in relazione, niente rispetto cui essere prima o dopo, dentro o fuori perché tutto ciò che è, è solamente oblio, e di ogni altra realtà non rimane più nemmeno il ricordo.

Poi, la Morte.
La Morte è un grande armadio di colore scuro con le ante aperte spalancate e con dentro nulla.
La Morte è un cassettone di colore scuro con i cassetti aperti spalancati e dentro nulla.
La Morte è un comodino da letto con lo sportello aperto spalancato e dentro nulla.
La Morte è tutti questi mobili di colore scuro aperti spalancati che stanno dentro il nulla, perché stanno dentro una stanza senza pareti, dentro un bosco senza alberi, dentro una cascata senza acqua, dentro un mattino senza luce, non appoggiano su un pavimento, non si accostano a un muro, non stanno vicini a niente né sopra o sotto o davanti o dietro a nessuna cosa.
La Morte, solamente, è.
Io la guardo da stare dentro i miei occhi chiusi e lei mi guarda dai suoi cassetti aperti, dalle sue ante spalancate, dal suo colore scuro sospeso in mezzo al nulla, entra ed esce da me col mio respiro, una Morte che è in risonanza perfetta con l’andare e il venire del mio fiato, Morte che finalmente ha cessato di essere solamente alla fine, e che ora è qui con me, fluisce e defluisce da me risuonando armonicamente col mio essere, Morte che è un andare e venire dentro e fuori di me ciclico e pulsante.
Morte che mi accoglie, aperta e spalancata, nei suoi cassetti spalancati in mezzo al nulla allo stesso modo nel quale io accolgo lei dentro il mio essere qui, nel nulla, dove sto con il corpo piegato in posizione fetale per quanto me lo concede l’artrosi.
E con la testa fra i gomiti.

Click.
Il minuto è passato, fra un istante la sveglia si metterà a suonare.
Spegnerla, se voglio farlo, equivale ad un gesto; non farlo, equivale a non muovere un gesto.
Comunque sia qualcosa che accade nel tempo, un gesto o un non gesto che comunque verrà trascinato via dal moto senza fine di un tempo che ha ripreso a scorrere solo in avanti, un tempo che, con tutti i suoi eventi collocati “prima” o “dopo”, non è più qui con me, in nessun modo ed in nessun istante è qui con me.
Il minuto è passato ormai da qualche istante, qualche istante fa c’è stato un click.
La sveglia suona, poco tempo dopo un mio “non gesto”.

Non c’è Morte, né oblio.
Solo “gesti” o “non gesti”, nel tempo.

Buongiorno, Marco.



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