Carteggio d’amore tra il viceré Marco Antonio Colonna e la giovane baronessa del Miserendino nella Palermo del ’500.
Licia Cardillo Di Prima
Dario Flaccovio Editore – 2008
recensione di Marco Scalabrino
“’Nta la vostra biddizza, risedi la vostra rovina… lu vostru cori cu l’amuri è distinatu a canusciri lu duluri.”
Da queste poche parole, la predizione di una magara, si possono arguire almeno tre degli elementi distintivi di questo nuovo lavoro di Licia Cardillo: 1) l’avvenenza della protagonista, 2) la sua sventurata storia d’amore, 3) l’uso del Dialetto.
Atteso che una storia d’amore infelice e tragica che si rispetti esige se non altro un antagonista oltre ai due attori principali, apprendiamo intanto di costoro sin dalla copertina il nome e il titolo nobiliare: quelli di lei, Eufrosina, non certo per caso a caratteri cubitali, baronessa del Miserendino; quelli di lui, Marco Antonio Colonna, per esteso nel sottotitolo, viceré.
Eufrosina Valdaura Siracusa, dalla non comune bellezza “il volto spuma di zucchero, la pelle candida come cera di Venezia”, gli occhi verdi, i denti bianchi, orfana di madre, 17 anni; Marco Antonio Colonna, “sterminatore di Turchi, terror di barbareschi, eroe di Lepanto”, dal 1577 al 1584 viceré di Sicilia, 44 anni.
E malgrado la notevole differenza di età, “potendo voi essermi padre”, malgrado ambedue fossero coniugati, lei con Don Calcerano Corbera barone del Miserendino, lui con Donna Felice, malgrado le convenienze sociali, egli non può esimersi, è l’1 gennaio 1579, dal dichiararle il suo amore, scaturito prepotente sin dall’istante del loro incontro: “Donna Eufrosina… non pensavo che alla mia età il sangue potesse fare scoppiare le vene e il cuore scippato dal petto farsi tamburo e gli occhi fonti di gioia.”
Benché non insensibile alle attenzioni dell’uomo, “Eccellenza, non chiusi occhi stanotte leggendo mille volte quanto mi scriveste” ribatte lesta il giorno seguente 2 gennaio 1579, parimenti ricambiandone il sentimento fino ad esserne travolta, lei lo prega “di non scrivermi più. Fingete che io non vi abbia mai incontrato”, e nel tempo reiteratamente lo inviterà a desistere, “fatemi la grazia di scordarvi di me.” Vedremo che fino all’ultimo non sarà così.
Non intendiamo attardarci sulle vicissitudini sentimentali dei due innamorati, delle quali peraltro a cercarle si reperiscono le testimonianze, quanto piuttosto distinguere i termini nei quali Licia Cardillo ne ha reso il “clima”, delineare i luoghi in cui quelle si sviluppano, rilevare gli altri personaggi e avvenimenti nonché i contorni del costume che strutturano la narrazione, ascoltare le chiacchiare che vi si insinuano come quella che Don Pietro Vivacito “si dilettasse con quelli del suo stesso sesso” e per questo venne condannato a “morire di mannara”; eccetera.
Apprendiamo ben presto, il 20 marzo 1579, che la “posta” di lui sotto la casa di lei, il Palazzo Corbera a Montevergine, è scoperta dal suocero di costei. Eufrosina, perciò, lo sollecita ad essere “più accorto”, a non fidarsi di nessuno e, allorquando alcuni mesi dopo si incontrano nuovamente, mostra di ignorarlo.
“Feci finta di non vedervi …”, così lei il 30 giugno 1580, giacché in casa del duca di Terranova vide questi “ridere e parlare alle orecchie del capitano e di altri gentiluomini dicendo malignità su di voi e su di me … non volendo voi nascondere questo amore, come se io non avessi marito e voi non aveste moglie ed essendo vossignoria così cieco da non avere riguardo per la mia reputazione.”
Ma ecco Don Antonio Corbera, “quel cane … quel vecchio bastardo”, il suocero di Eufrosina, “gravato di molti debiti, avendo dissipato per la sua imprudenza il patrimonio” viene ristretto nel carcere di Castellammare, ove poco dopo tempo muore, secondo quanto riferito alla giovane, di veleno mangiando “la pernice all’agrodolce, le sarde a beccafico con mollica, petrosino, aglio e cacio di primo sale e bevendo il vino rosso”, torcendosi dal dolore e non ricevendo alcun soccorso “né medicamento che si piglia per bocca, né una cucchiarella di elettuario, né un cataplasmo, né fu sagnato o visitato da medico di urina o di piaga”, senza il “conforto dei sagramenti”.
La scenario dell’azione è la Sicilia, “trovai – registra Marco Antonio Colonna al suo arrivo – questa terra piena d’ingiustizie, i poveri oppressi dai potenti, gli spagnoli e i nobili assai insolenti, il patrimonio esausto”, e precipuamente, ne abbiamo cognizione sin dal frontespizio del volume, la città di Palermo. Palermo e i suoi quartieri: Porta Nuova, Casa Professa, Ballarò, Bocceria, Bandiera, dove si vendono “pesci, pollami, lumache, granati, erbe selvatiche”, si ubicano le botteghe dei “cappilleri, pellicceri, aromatari” e tutta la gente “viene ad accattare”. Quella Palermo che “all’alba pareva un paradiso”.
Il libro, non un racconto, non un romanzo, bensì una corrispondenza, un carteggio d’amore, esordisce con l’invio da parte di un anonimo, cui suggestivamente è pervenuto dagli stessi amanti, di un manoscritto “che risale alla fine del Cinquecento, in cattivo stato purtroppo” all’Autrice, certo che lei “farà di tutto per decifrarlo e ricostruirlo nelle parti mancanti, attingendo alle cronache del tempo e, perché no, anche alla sua creatività”, traducendo “in lingua contemporanea il dialetto in voga in quell’epoca.”
Tra le osservazioni immediate: le lettere stese in carattere corsivo, con peculiare annotazione su quella del 10 dicembre 1583, mentre le pagine che pertanto dobbiamo ritenere quelle della “ricostruzione” operata dall’Autrice in carattere normale, la rappresentazione del Palazzo Reale, con scale, cammare, arazzi, delle vesti delle dame ricamate di cremisi, di broccato nero e oro, e ancora la musica, il ballo, i cavalieri mascherati, i piatti d’argento pieni di confetti, frutti, pupi di zucchero … e, allora come oggi, tra maggio e giugno 1580 “impazza lo scirocco” e il solo ristoro al “fuoco e rena (che) piovono sulla città” è bagnarsi “con acqua di rose, fiori d’arancio e zibetto”.
In conformità allo scenario, assume rilevanza il linguaggio (che Licia Cardillo ha) adoperato: lessico, espressioni idiomatiche e sintassi mutuati dal Siciliano si fondono felicemente all’Italiano dell’epoca e a voci spagnole qua e là disseminate. E, come già per TARDARA del 2005, nello specifico del Dialetto, Licia Cardillo se ne serve con diligenza, ne sorveglia accuratamente la trascrizione, ne fa un impiego mirato “alla riappropriazione di una bistrattata identità culturale, alla riaffermazione di un vitale strumento linguistico”. E, in questa sorta di efficacissimo argot, mette in campo delle pregevoli formulazioni: le parole mi si quagghiano in bocca, mi cade la faccia a terra per la vergogna, meglio urvicare tutto, sfardare questa lettera pizzuddi pizzuddi, il fuoco che non mi dà abbento, mi aggarrò le mani, sferza l’aria con la zotta, conosciuto come l’ardicola, vi scantate di vostro suocero, fuggii come un ladro assicutato, raciuppare qualche piastra, forte era lo spinno, sto patendo i guai del lino, può capitare che persone di onesta qualità ’ntuppino nelle mani dei Mori, tanti cristiani arricogghiendosi al porto a spiare, chi mangia fa molliche, fatene una veste e ’nsajatela per me, s’inturciuniava per il dolore, messo nel tabuto di velluto, ‘ngarzarvi con Don Calcerano, un cristiano che tampasia, tanfo di carne abbruciata, allippa la lingua, restai assintumata e senza parole, si abbruciò le ali, se ne fossi stata arrasso, quella mala zippula. E, tra le prerogative del Siciliano, profitta con generosità della ripetizione del sostantivo: Cassaro Cassaro, campagne campagne, strade strade, stanza stanza, Palermo Palermo. “I casi di ripetizione di sostantivo – fissa Luigi Sorrento in NUOVE NOTE DI SINTASSI SICILIANA – sono speciali del Siciliano. Strati strati indica un’idea generale d’estensione nello spazio, un’idea di movimento in un luogo indeterminato, non precisato, tanto che non può questa espressione essere seguita da una specificazione, come strati strati di Palermo. L’idea di estensione viene espressa dalla ripetizione del sostantivo, così originando un caso particolare di complemento di luogo mediante il raddoppiamento di una parola.”
“Per avere avuto unione carnale con voi”, Eufrosina s’avvede, il 30 settembre 1580, di essere gravida. Gravida a dispetto dei suoi propositi di strappare quella creatura “con forza dalle mie viscere”, mediante impiastri e decotti: “il salasso sotto la caviglia, la menta, l’artemisia, il finocchio e il prezzemolo cotti con il miele e nel vino e bevuti, i bagni nell’acqua bollente fino a cuocermi, la nepitella tritata fresca legata sulla pancia e sotto l’ombelico, i vapori sopra la sedia forata, il cuscino pieno di lana cardata bagnata nell’infuso di erbe e messo sul ventre.” Gravida di “un figlio che viene da vossignoria, il quale profittando della partenza di Don Calcerano diventò padrone della mia casa e della mia vita.”
Don Calcerano Corbera, probabilmente, non verrà mai a conoscenza di quella gravidanza. Lei infatti perderà la creatura agli inizi di gennaio 1581, nel mentre che egli soggiorna a Malta, dove da qualche tempo si è recato e dove, per quanto riportato ad Eufrosina “ammazzato come un cane con molte pugnalate”, morirà nell’agosto 1582.
Dei delitti che “insanguinarono casa Corbera” ne parlano, per screditare ed accusare il vicerè, i suoi nemici, che solo “aspettano un passo falso per mandarvi alla rovina.”
In questa vicenda a tinte fosche, “avendo avuto misera fine tutti quelli che ebbero a che fare con voi e con me” e persino Cisneros, il fidato segretario di Marco Antonio Colonna “che del nostro amore è stato minestra e cucchiara”, emergono tuttavia talune chiazze di colore. Spiccano, fra esse, l’episodio, che risale all’1 ottobre 1583, in cui Eufrosina rinviene le sue fattezze, nell’acqua della fontana di Porta Felice, in quelle di una statua di marmo, una sirena, “non vergognandovi dell’amore che avete per la mia persona, ma gridandolo a tutti”, e così esponendola ai commenti a dir poco sboccati dei palermitani; e, da leccarsi le dita, “i dolci di Riposto con la velata e la pasta reale piena di citrata” nonché “i confetti all’anice, la cotognata e i datteri conditi, il marzapane e la cubaita con il cumino dolce e il miele.”
L’ultima lettera della corrispondenza, “perdonatemi se troppo v’amai, oltre i confini segnati dalla ragione. Addio per sempre, Donna Eufrosina”, è del 27 luglio 1584 ed è di Marco Antonio Colonna, il quale di lì a qualche giorno, il primo agosto 1584, sarebbe morto, “attossicato”, a 49 anni, in territorio spagnolo, non senza però riuscire a guadagnare la corte di Madrid, dove era stato richiamato.
Alla sua scomparsa Eufrosina “corse a gettarsi ai piedi di Donna Felice” e presso di lei, superate vecchie ruggini – la stessa giovane attesta, il 27 febbraio 1581, che la viceregina la pescò nella camera del marito “senza la camicia, senza i calzoni che non si vedono e con tutte le mie robbe stanza stanza” – consegue rifugio e protezione.
In appendice al volume, Licia Cardillo enumera rigorosamente i documenti d’archivio che suffragano la veridicità storica di quegli avvenimenti e che ne definiscono l’epilogo.
Ciò detto, assodata l’ammirevole scrittura di Licia Cardillo, la qualità più bella della compita, puntuale, amorevole sua riproposta è che essa ci fa invaghire di quella epopea, ci fa sentire partecipi di quel contesto, a distanza di quattro secoli ci restituisce una vicenda vibrante, attuale, nostra.
Maggio 2009
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