venerdì 19 dicembre 2008

[TRILOGIA DEL DOLORE]


di Sebastiano Adernò


[TORMENTO]

Ho un tutto mio studiato disagio da poeta che interpongo alla
vita perché una sottile scorza di felicità difenda la mia intimità
ontologica e con cura, nutra il mio infinito. E questo ogni
giorno, fino a che, perché nessuno la dimentichi, la notte mette
in scena una domanda: e se sul cerchio montassero uno
scambio? E il tempo, andasse a sbattere su un binario morto?
Perché ora che gli alberi indolenziti diramano solitudine
l’inverno chiede ascolto e, approfittando di una parola slogata
compila dei miei sentimenti un foglio bianco E io sosto così
nell’algoritmo di varie stratificazioni, nel tiepido che urta
contro la paura di, e se un giorno la mente per distrazione,
potrebbe perdere le gerarchie del pensiero per assumere
l’ingombro di un giorno piovoso? Un giorno da vecchia
cartolina sgranata dove nelle strade di una città fitta di
ombrelli dalle spalle lo sguardo caschi incapace di far
cambiare direzione ai propri piedi?
Così l’attesa coagula in un vetro su cui niente scivola più, e
tutto è trattenuto, forzato a sostare nel momento, come io e le
gocce di pioggia alla finestra, appesi alla nostra incapacità di
afferrare questo sordo e liscio cielo di latta.
Questo anche nei giorni in cui l’impressione del petto scambia
il pozzo per un sospiro, e dal tuffo in una tazzina sbeccata la
noia mi prende a sorsi la mente, che persa in un calcolo senza
miracolo, mi slega le mani allo scrivere. Perché da suoni
arcani mi tormento di coniare un nome grezzo per il mio
sentimento e voglio che siano le tue labbra a levigarlo. Come
vorrei levigare ogni giorno versato dal sole al di là del mare.
Ogni giorno che può avere una resa, per i nomi con cui lo
sacrifico. Perché per ciò che sento sotto le dita l’arte non si
impara, si subisce. E col silenzio, in comunione, l’aurora fa
sempre da altare al cielo e il mio labbro si contrae in un
apostrofo che d’ora, mentre questo sentire mi parassita, il mio
chiedere pace si versa sul mare come un'immagine su uno
specchio in cui smetto di ricompormi perché gli occhi, mi
sfuggono a loro stessi inciampando in ogni prospettiva che fa
da difetto alla comprensione. Così che distendermi a cogliere
le mie irregolarità, diviene per gli occhi essermi subaffittato
anche il nascosto. Il nascosto della notte. Perché è come dura
ogni volta la luna, a spezzarmi la lingua, sillabando lo sconto
ad ogni stella, un'altra per ancora, un'altra per sempre portare
le labbra al pozzo, levandomi con la voglia, lo sgocciolo,
dell'ora tarda che sempre mi tiene il petto.


[TRADIMENTO]

Fu un altro giro di manovella. Giusto il tempo di imbottigliare
i mie sbagli negli sbadigli. Poco prima di pulirmi le labbra
sporche del bicchiere del miglior vino che era stato versato per
brindare alle lacrime del giorno di festa. Giusto così mi
strofinai la bocca sull'orlo della tua veste.
E non era abbastanza. Mi sentivo già che il cuore non
sopportava che il tuo amore ne richiedesse altrettanto, e
contemplando lo slancio, per la carta che restava da girare alla
tua amica dalle dita unte, giustificavo che il mio destino si
adulterasse di fallimento.
Ma già mi chiedevo, ma prima, prima avevo pesato i tuoi
sentimenti, prima di barattarli con un solo piacere che mi stava
rendendo quest'ora, che restava ora, che nulla è già più, e tutto
è perso?
Adesso che vorrei piovesse sul come ti ho tradita, e renderti
meno leggera la pietra che ti ho messo al collo. Adesso che mi
vergogno anche di chiedere al cielo lo sforzo per cancellare le
tracce di come sarà il tuo piangere.
Il vino mi consiglia ancora di morire. Di lasciare che ti morirò
per il tuo avermi da sistemare dove faccio meno male. Lì dove
il mio peso e la mia vergogna scandiscono silenziose le sillabe
di tutti i rimpianti e tu piangi per stanchezza e non per
perdonarmi.
Che strana sensazione. Mentre là fuori il vento accarezza la
primavera, mi sorprendo a immaginare che passeggerei con le
tasche piene di petali. Ma non mi riesco a liberare dall'errore.
Ripetutamente ripenso ai passi di un continuo sbucciarsi di
ginocchia sempre su quel dove si è appuntata la mia colpa. E
lo slancio di leggerezza diviene come portare meridiani sulla
schiena, che riconducono tutti al principio di un eterno
raccogliere le pietre su cui inciampo, per offrirle alla carestia
della mia anima. Giusto per giovarmi di un'aurea di sacralità,
forse, che per un istante mi allontanerebbe dal quel sentire
come io stesso mi rifiuto, che è un sentire che m'appesta.
La mia pena è il pensare al mio corpo che si ritrae come una
lumaca all'idea viscida che il tuo possa mai essere stato
profanato da un altro. La mia condanna è il dolore che mi ha
investito, di una parola, amore, che per il resto che mi rimane
sentirò vuota da gridarla a piena voce in un pozzo.
Perché ancora quest'oggi che siamo insieme, e tu non sai nulla,
non mi rimane che ripiegare le stelle nella stiva. Per via delle
tante promesse che le mie parole non sarebbero cadute un
agosto. Le promesse di quei giorni in cui cercavo la luna per
stabilire il tempo dei granuli d'argento di un altra foto assieme.
Foto a cui ripensando il cuore mi suona vuoto come la moneta
alla prostituta, e gli occhi mi lacrimano per la naftalina dei
vestiti che mi vergogno già di aver indossato.
Ti lascerò. Almeno quello. Perché il mio essere dai molti
nascondigli, per occhi, ha due feritoie sul mare di tutti gli esili.
E dalle fessure di una verità disonesta ricambio di uno sguardo
ogni abbraccio che già mi sono negato. Perché ora, agli angoli
della bocca, sulla smorfia verso cui mi si ammalano le parole,
la voce mi si fa sporcizia di una cella dove muoio di ogni
voglia. Voglia che non sia mai successo. Voglia di una voglia
che mai fossi schiavo della debolezza di una voglia. Ma
brancolo. E come un cieco leggo già le pareti fredde del
rimpianto per il tuo corpo nell'amore. E lì mi confesso del mio
difetto che dicono peccato, condannato, a tradimento.


[DISPERAZIONE]

È domenica mattina e non ho niente da fare. Tranne che il
pensarmi nato da una preesistenza di colpe. E vivo per la
distrazione di un giudice. E sorpreso di non provare stupore
nel confidare che la morte, almeno, mi sarà assoluzione.
Anche in me è domenica. Lo sento nelle parole che sto
impegnando alla disperazione perché so per certo che non mi
verranno restituite. Mi accendo una sigaretta per chiamare
questo tempo quello del dolore. Guardo il pacchetto quasi
vuoto e accuso come una somma di dolori fanno un'esistenza
a cui mi sono dovuto adattare nel rubare istanti. Sento il
pungere della consapevolezza di scacciare quella poca felicità
che ho sempre usato come esca gettandola negli abissi, per
mantenermi abbastanza illuso da continuare ad aspettare. Un
colpo di tosse mi ricorda essere vivo, passibile di altri dolori.
Ho ancora un cuore. Un cuore dove le cose lo sanno, le cose
conoscono per come si muore abbandonati da ogni giustizia.
E' mattina e sono già stanco. Tornerei a letto, solo per mettere
a decantare il facile entusiasmo delle persone che sento
parlare avvicinandomi alla finestra. Manderei a dormire i loro
sogni e li inietterei degli incubi che mi porto sotto le palpebre
inquiete. Vorrei che tutti loro, per una notte, lasciassero il
calco delle loro teste sulle pietre che si sporgono in quel
pozzo, in quell'abisso che chiamo anima. Mi verso del vino.
Il poco rimasto. E mi diverte l'idea di avere assunto un dio
per leggere i fondi del bicchiere. E trovo allegro il rumore
che mi viene dalle tasche, quello dei quattro spiccioli che
tentennano di solitudine senza lasciarmi, neanche ora,
ubriacare dalla vita. E' domenica e anche le campane ormai
mi infastidiscono per la loro richiesta di pensare in modo
impreciso all'infinito. Per l'invadenza nel pensiero di quel
rintocco che potrebbe toccarmi. Orfano di ogni consolazione,
mi scopro senza stupore vivo per la conseguenza dei miei
pensieri pagati al prezzo delle mie azioni. Incastrato in una
formula che, piegandosi alle lusinghe della mente, dà sempre
il risultato sbagliato.
Chiudo le imposte, non voglio la luce. Cerco la notte, quella
notte che mi chiama padre quando gli incubi mi si appendono
alle tasche. Quando io mi sento il bambino che al buio chiede
l'aiuto di chi alla luce vorrebbe calpestare. Così mi appunto,
imbrattandomi di un altro pensiero, di essere un disordine che
aspetta il vento, la stanza piena di carte su cui hanno sbarrato
le imposte e chiamo la notte sbattendo le palpebre come le ali
di una falena che attratta dalla mia luce, lascia del suo corpo
sulle pareti, il teatro delle ombre di una danza macabra, a cui
la mia mente tiene il ritmo battendo le mani. Perché ormai, di
fronte ad un cielo invalicabile, vivo sapendo smarrito il dono
che mi darà il sereno.


Noto, 18/12/08


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