di Marco Milone
Oggi mi sono messo in ferie. Sono passato a prendere mio figlio Marco, e siamo andati al parco con Houdinì, il nostro cane. Già da qualche giorno avevamo programmato questa breve gita; sarebbe dovuta venire anche mia moglie, ma al risveglio aveva un po’ di nausea.
Avevamo organizzato la gita per Marco: negli ultimi tempi ha sempre un’aria triste e malinconica. Non riesce ad accettare il mio trasferimento.
L’azienda, presso la quale lavoro, mi ha offerto un posto di prestigio presso la sede di Roma. Col nuovo stipendio potrò condurre una vita più tranquilla, ed assicurare un futuro migliore alla mia famiglia. Spero solo che Marco non ne risenta troppo. Vorrei potergli dire con certezza che nella nuova casa si troverà meglio che qui, che se lui non vuole rinuncerò al nuovo incarico; ma, non posso. Un giorno comprenderà anche lui.
Ricordo ancora con tristezza quando da bambino dovetti lasciare la casa dov’ero nato. I miei genitori avevano comprato una casa di modeste dimensioni in campagna. Per convincermi, mi assicurarono che nella nuova abitazione ci sarebbero stati meno rumori, che l’aria sarebbe stata più pura e che avremmo avuto un nostro giardino. Avevano ragione.
Però io persi tutti i miei vecchi amici. Avevo appena conseguito la licenza elementare, quando ci trasferimmo. La mia vecchia casa era a pochi passi sia dalla scuola che dalle abitazioni dei miei vecchi compagni, i quali, da quando mi trasferii, non vennero più a trovarmi. Fu così che mi chiusi in me stesso. Creai un mio piccolo mondo personale, il cui ingresso era osteggiato a tutti.
Osservavo Marco, mente giocava con Houdini e con una bambina, che aveva appena conosciuto al parco. Erano spensierati. Come avrei voluto essere anch’io come loro e tornare all’età dell’innocenza, senza decisioni da prendere, senza delicate questioni da svolgere. La loro vita era avvolta da un alone fantastico, nel quale io non riuscivo più ad immergermi. Mi sentivo quasi a disagio in quel parco, privo del tocco umano. Erano circondati da tappeti viola fatti di petali di tulipani, appena caduti. Gli alberi, imbevuti della luce del sole, apparivano freschi e lucenti. E quel paesaggio, invaso da una splendida luce oro e viola, appariva estranea alla mia visione del mondo.
Guardai l’orologio: erano già le dodici.
“Marco!” chiamai “Dobbiamo andare!”
“Dai!” mi rispose “Restiamo ancora… almeno fino a quando Carla non se ne va!”
Lo accontentai. E li continuai ad osservare; soffermai la mia attenzione su quella bambina, Carla, dai candidi capelli biondi, i cui lineamenti mi sembravano familiari.
Dopo qualche minuto arrivò la madre di Carla. Mi avvicinai, misi il guinzaglio a Houdinì, e presi per mano Marco, mentre ci avviavamo verso l’auto.
“Francesco!” chiamò la madre di Carla.
“Sì!” risposi “Ci conosciamo?”
“Come?” disse lei “Non mi riconosci?”
La osservai meglio; ed i ricordi di una vita passata, ormai dimenticata, si riaccesero uno dopo l’altro.
Era Stefania. Abitava anche lei in campagna, nella villa accanto alla mia.
Io, soffocato dalle strette mura della nuova abitazione, avevo preso l’abitudine di curare il giardino di casa mia. Passavo ore ed ore lì, in mezzo alla natura, disteso per terra a rimirare ora le nuvole, ora il piccolo popolo delle piante. Ogni tanto fissavo l’abitazione dei vicini. E c’era sempre lei, che mi osservava, come se volesse fare amicizia. Ma, io non gliene davo la possibilità. Temevo che anche lei un giorno mi avrebbe abbandonato.
Un giorno il cane dei vicini, un bassotto, s’infilò nel nostro giardino; ed io, ritrovandolo all’improvviso proprio dietro di me, inciampai e caddi sul soffice prato. Mi ruppi la gamba sinistra.
Odiai quel cane ed i vicini; per colpa loro, ero costretto ad osservare la natura dalla finestra della mia camera.
Dopo pochi giorni, Stefania venne a trovarmi: si sentiva in colpa, perché il cane le era scappato, mente lo portava a passeggio. Mi venne a trovare ogni giorno, finché non stetti meglio. Da allora diventammo inseparabili, finché lei non decise di iscriversi all’ateneo di Ravenna. Da allora i nostri rapporti si diradarono sempre più.
“Stefania!” esclamai, fingendomi contento “Quanto tempo!”
“Ne è passato!” rispose “Io mi sono trasferita qui da poco. Tu, invece?”
“Lavoro qui già da qualche anno!”
“Una di queste sere dobbiamo vederci!”
“Senz’altro!” le dissi.
Le diedi il mio biglietto da visita, e la salutai, conscio che non l’avrei più rivista.
“Papà!” mi disse Marco “Domani torniamo a giocare con Carla?”
“Non posso!” gli dissi “Ma vedrai… quando saremo a Roma avrai tanti amici!”
“Ma io voglio giocare con Carla!”
“A Roma avrai tanti amici che non ti ricorderai più di lei!”
“Non è possibile!” esclamò.
“Vedrai, Marco, vedrai… un giorno ti dimenticherai perfino della sua esistenza!”
Marco Milone, poeta e scrittore, ha pubblicato l'antologia di racconti L'eterna condanna e altri racconti e le sillogi poetiche Geometria del silenzio, Sulle orme della speranza (Edizioni Progetto Cultura) e Nel labirinto del delirio (Zona). Ha svolto attività redazionali ed è stato redattore della rivista «Inguine magazine», e ha collaborato con le riviste «L'indice dei libri» e «Succo acido», e con le case editrici Comixcomunity e Coconino. È membro del comitato di lettura di “Il foglio edizioni”, collabora con “Due Punti edizioni” ed è stato caporedattore di «Cagliostro e-press» e delle riviste «Be side» e «Solaris». Ha curato mostre di fumetti e rassegne di cinema d'animazione.
Scrive sull'animazione, sull'arte, sul cinema e sui fumetti su Mellart.
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