venerdì 21 dicembre 2007
Occhi di fiume
di Camilla Jagna Ugolini Mecca
Viveva sotto un ponte. L’oscurità lo proteggeva e il vecchio non l’abbandonava mai. Non si spostava neppure di pochi passi, neppure per avvicinarsi al ponte a tre archi a poca distanza dal suo. Una trifora sul mondo, che si estendeva lontano, sconosciuto. Il vecchio non desiderava affatto esplorarlo. Forse ne aveva paura, forse la sua curiosità era invecchiata e si era stancata, assieme a lui. Gli alberi che si intravedevano oltre gli argini, poche facciate di palazzi della città, il fiume che scorreva inesorabile, la luce dell’alba e del giorno, e poi quella della sera, e ancora le luci delle strade, al di sopra del fiume, che si riverberavano sulla superficie dell’acqua. Nient’altro che questo era il mondo, per quel vecchio stanco.
Fino a quando accadde una cosa inaspettata, che sentenziò la fine di una vita immobile. Tutto iniziò con una pioggia torrenziale che durò giorni e notti. Il vecchio era abituato ormai al freddo e all’umidità, così continuò a restare fermo, come una statua di sale, limitandosi ad osservare la pioggia che si riversava senza tregua nell’acqua del fiume. Ma in quell’osservazione statica, abitudinaria, non si accorse che il fiume non era più quello che aveva sempre avuto di fronte: stava crescendo, di attimo in attimo, si stava dilatando verso l’alto e ai lati, e si stava facendo sempre più minaccioso. Come sempre, il vecchio non fece una mossa. Ma al fiume impetuoso non importava di lui, né di tutti gli esseri che popolavano le sue sponde o che abitavano le sue acque. Così iniziò a lambire prima il ciglio dei marciapiedi che scorrevano sotto i ponti, e poi a riversarsi copioso su di essi. Fu così che il vecchio si trovò immerso fino alla cintola in un’acqua violenta, scura e maleodorante, che lo paralizzò ancora di più. Quell’acqua saliva, saliva, fino al collo del vecchio e poi alla bocca e al naso. Allora sorse in lui l’istinto acuto e chiaro di voler salvare i propri occhi. Quegli occhi, la parte di lui ancora viva che si era sempre mossa sulle luci e sui colori, che scandiva il tempo dei giorni e delle stagioni, valevano più di ogni cosa. Per la prima volta, dopo un tempo che sembrò infinito, il vecchio prese a camminare e lentamente, senza perdersi d’animo, raggiunse una larga scalinata che scendeva dall’argine fino alla riva. Opponendo resistenza alla forza delle acque, iniziò a salire la scalinata aiutandosi con le mani, che da anni non avevano più toccato, accarezzato, salutato nessuno, che non avevano lavorato né stretto altre mani. E dopo innumerevoli tentativi, riuscì a salire e a mettere in salvo i propri occhi, fissi com’erano sull’argine e sugli alberi che lo costeggiavano, sulle pietre e sulla natura. E pensò allora, per la prima volta, che il fiume non era un essere immobile come lui, ma aveva delle aspirazioni, voleva crescere, uscire nel mondo e farsi sentire. E forse sarebbe cresciuto ancora, si sarebbe mosso sempre più velocemente e con maggior veemenza. Ma allora, oltre agli occhi anche le mani, che lo avevano salvato dall’imprevedibilità delle acque appigliandosi a tutto ciò che avevano trovato davanti a loro, dovevano essere portate in salvo. Concentrandosi sulle proprie mani, il vecchio iniziò a camminare seguendo l’argine, sotto il filare di alberi che lo costeggiava. Al suo fianco scorreva una strada che sembrava interminabile, carica di nuovi colori, di nuove luci e di suoni che il vecchio non aveva mai sentito, e di uomini e donne e bambini e cani e automobili e case e di mille altre cose. Mentre proseguiva, pensò che andavano salvati anche i suoi piedi, che lo stavano portando in un mondo nuovo, e andavano salvate anche le sue orecchie, che riuscivano a udire voci umane e rumori assordanti. Si allontanò quindi dall’argine e si diresse verso la città, fra i palazzi e le strade che s’intersecavano, tra i passanti ed il traffico, in mezzo a tutto ciò a cui un giorno lontano aveva rinunciato, per motivi che non rammentava più. E dopo aver camminato per ore senza tregua, quando l’acqua ormai lontana doveva essersi placata, si sedette su una panchina, nel vialetto di un grande giardino e iniziò a guardarsi le mani e poi le gambe e i piedi, quelli che avevano portato in salvo tutti i suoi pezzi, e gli sembrò di vederli per la prima volta. Mentre stupefatto si osservava, udì un suono che gli sembrò familiare. Proveniva da una fontana immensa, a poca distanza, con un’acqua limpida e fresca, ben diversa da quella che per anni gli aveva tenuto compagnia. Si avvicinò al bordo della fontana e guardò nella vasca. E fu allora che il vecchio, che fino a pochi istanti prima aveva visto le proprie mani nude solcate dalle rughe e segnate dai geloni, con immenso stupore vide riflesso, sulla superficie dell’acqua, il volto di un bambino appena nato. E comprese subito, senza indugio, che non erano stati i suoi piedi a salvarlo, e non erano state le sue mani o le sue orecchie, ma gli occhi e il sorriso di quella creatura.
Camilla Jagna Ugolini Mecca è nata nel 1971 a Verona. Ha collaborato con una rivista culturale della sua città. Nel 2003 ha pubblicato Ambigue stanze – Un itinerario nell’opera di Antonio Possenti con la casa editrice Liberty House di Ferrara. Si tratta della rielaborazione della tesi di laurea in psicologia dell’arte, riguardante la simbologia presente nell’opera del pittore lucchese. Scrive testi di presentazione di giovani artisti, per riviste e cataloghi.
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