mercoledì 19 dicembre 2007

Il viale



di Oreste Bonvicini

Poco fuori Alessandria, laddove la regione non è più pianura ma non ancora collina e tra alti ricorrenti si avvia verso il Piemonte fatto di colli e di cime che come naturale riferimento ne determinano la geografia prima che i profili sull’orizzonte delle sue città con quel che di caratteristico e unico ciascuna conserva, in direzione di Asti, verso Felizzano, il viale costeggia la statale 10.
Ai platani si alternano i tigli e arborescenze succedanee a delimitare la carreggiata che accompagna nel viaggio e nella stagione estiva, quando la vegetazione si infittisce e le chiome protendono verso l’asfalto determinando al mattino e al tramonto un’ombra lunga che si proietta sul parabrezza delle auto che veloci e indifferenti passano oltre. Un’intermittenza di luce, un flashback, forse il più vecchio di cui sono consapevole, una domenica della prima infanzia, poche le auto e rari i passanti, noi ad attraversare la regione verso una località ai piedi del Monviso di cui non ricordo il nome e solo l’ausilio di alcune foto ingiallite mi ritrae tra massi erratici poco sotto le sorgenti del Po.
Già, ma quale tra questi aspetti sorregge la memoria, tra viali e luoghi aperti della città, trascorso quasi mezzo secolo?
Il pensiero va al tempo che tace o s’infiamma improvvisamente sul far del tramonto che talvolta accende vivi i colori sul profilo piatto della città.
Potremmo stupirci, camminando sotto un viale di cui non vediamo la fine. Potremmo immaginare ogni albero come un tratto distinguibile del nostro tempo, gli anni violati dalle attese, con le promesse, le illusioni, i sogni, la vanità, la presunzione di scrivere, i tratti dei volti conosciuti o dimenticati..
perché di molti non ricorderemo se, dove e quando il tempo e la condizione, l’istante in cui le strade si incrociarono o presto si divisero. Il viale sarà la sequenza dei nostri giorni, gli inafferrabili istanti vissuti che saldi dentro di noi fuggono e continuamente riappaiono alla mente. Rievocare potrebbe riportarci là dove tutto è accaduto e comprendere perché oggi il ricordo sia sbiadito.
Il passo lesto o dimesso, dipenderà dalle nostre forze. Il passato ci osserva dall’alto degli anni accumulati, misura finita ed irrecuperabile. Lo porteremo sempre con noi.

Alcuni ragazzi percorrono il viale che circonda la città, un anello che ci riporta sempre al punto di partenza, nella realizzazione di un eterno ritorno così come le stagioni della vita terrena.
Il tempo è dalla loro parte e ci piacerebbe gridarlo per far loro comprendere il dolore per quanto trascorso, per quel tempo che loro immaginano infinito e che noi vorremmo ancora possedere, quel bagaglio che Dio destina a ciascuno senza lasciare trasparire per quanto ancora ne disporremo. Vorremmo utilizzare le parole che altri hanno saputo meglio esprimere, invitandoli a non sciupare la vita nel troppo commercio con la gente, con troppe parole in un via vai frenetico. A non sciuparla portandola in giro in balia del quotidiano gioco balordo degli incontri e degli inviti… a non sciupare la vita anche se in un angolo discreto della propria città, tra vie conosciute e amate, o sotto i viali alberati che daranno ombra alla vecchiaia..
E benché altri viali si allontanino dal centro e illudano di un viaggio che non faremo, sarebbe come sciuparla in ogni parte della terra.

Oggi, attraversando piazza Garibaldi, mi meraviglio di scoprirla più piccola di quanto la vedessi nell’infanzia, l’età che fa dei luoghi attraversati la quinta ideale dell’esistenza, rendendoli mitici e sconfinati.
Lo stesso accade ogni volta che transito sotto i portici di piazza Genova, così stretti e cupi, le luci smorte d’inverno o durante una pioggia serale eppure un tempo riconosciuto orizzonte dinanzi al quale si srotolava la mia gioventù ed offriva riparo ai temporali improvvisi, con il suo lastricato sdrucciolevole sotto le scarpe umide o nel percorso verso la scuola al mattino, il primo riparo sotto cui scuotere l’ombrello già gravido di una coltre bianca scesa improvvisa nella notte…
Attraversando dunque piazza Garibaldi, talvolta miracolosamente vuota di auto e carri di un mercato ormai snaturato, mi sovviene il ricordo dei cavalletti di legno altri e grevi, perché nella mia infanzia erano tali e ne delimitavano il contorno allora non asfaltato e sulla sabbia razzolavano colombi e piccioni mentre rotolavano le bocce…
Pensarli oggi, tornei di bocce in piazza, nel cuore della città, assediata da un traffico senza tregua, sembra quasi un sogno.
O un vaneggiare di cui pochi potrebbero comprendere, come se mai tutto ciò fosse accaduto, increduli del mio racconto, mentre io in silenzio stringo tra le dita le fotografie di quelle domeniche lontane e dimenticate, osservando il contrasto del bianco e nero che gli anni hanno sfumato, cosicché presto, molto presto, la mia memoria dovrà essa sola sopportare l’onere di rievocare e forse subirà il destino che già tocca alle fotografie, annullandosi lentamente o lasciando che solo rari particolari riaffiorino qua e là, disgregando l’insieme dei ricordi in mille gocce di pioggia che andrà via via asciugandosi…
Per ora le vecchie foto lasciano emergere il grigio della città che ancora oggi l’avvilisce, perché “il tempo è nebbia e pioggia, che al sorgere delle primavera, benché aprile sia il mese più crudele, ridona senso alle cose.”
Ma in estate, tempo del trionfo delle certezze, i viali erano la meta delle passeggiate serali. Stagioni calde e afose di città che non conoscevano gli esodi di massa, le code ai caselli autostradali, gli affollamenti sulle spiagge.
A sera, sopito il sole che per ore aveva tiranneggiato sui tetti rossi delle palazzine da poco edificate o sui cantieri in opera dei quartieri che nei primi anni Sessanta prendevano forma e vita, fatti di artigiani e impiegati, commercianti, professionisti, una media borghesia emersa più ricca e sicura dal boom economico del dopoguerra e aveva trovato identità in un credo possibile e laico in questa terra martoriata da secoli di contese, le famiglie uscivano in un passeggio che aveva poche ma sicure mete. La campagna rubata alle sua attività si andava trasformando in zona residenziale e la città godeva di una crescita costante che si mutava in certezze.
Storia ormai le residue parti della vecchia cinta muraria, i bastioni un tempo elevati e rinforzati per tenere lontano nemici invisibili mentre il platano di Napoleone, verso Bormida e Marengo, restava una meta dei primi passi dell’infanzia e si identificava nella città che cresceva, che inglobava la campagna in una modernità tutta sua, prosaica ed edonista, priva dell’afflato di sacralità che spetterebbe al nuovo che avanza, rispettoso del passato come un credo a cui rivolgersi per ingraziarsi un futuro comunque ignoto.
Ma la città pareva incapace di scrollarsi di dosso un modus vivendi nebbioso e incerto, inetta a mutare strategia, compressa tra paternalismo di vecchio stampo dei suoi pochi uomini importanti e la cognizione del nulla. Sprofondando nell’illusione dell’immutabilità delle cose si crogiolava in una continuità solo apparentemente serena.

Ricordo che in certi giorni d’estate, le chiome tanto fitte del viale che costeggia l’aeroporto non lasciavano penetrare la luce mentre io volavo tra ombra e ombra, sul mio quattordici rosso con un solo freno ed il manubrio era lo strumento con cui mi aggrappavo per sfidare il vuoto, la prospettiva mi illudeva e vedevo il viale stringersi come in un imbuto da cui non si sarebbe usciti se non in un’altra dimensione..
Volavo tra ombra e ombra e mi figuravo nella mente lontano, già assodate le mie aspirazioni per viaggi e rivelazioni, mentre il nonno seduto con altri anziani sulle panchine prossime alla strada, parlava di un passato ormai vago e di ricordo in ricordo tentava di svellere la paura del domani…
Il nonno morì presto, un sera d’autunno già avanzato.
Le voci, l’ambulanza, al mattino era tutto finito. E c’era una ferita da rimarginare, quel viale nei pomeriggi assolati d’agosto non fu più lo stesso e forse mai lo riattraversai senza ricordare ciò che aveva rappresentato nella mia infanzia. La morte ad ogni sua visita ci ruba una parte del presente. Sarà il passato che poi inseguiremo. Per sempre.
Così mi illudo che il viale sia la realizzazione della volontà umana; che l’uomo cioè abbia messo mano alla natura per necessità, ma con rispetto piegandola al suo volere, liberando dalla selva inestricabile dell’oblio, il razionale senso del tempo, definendolo in uno spazio rettilineo dove la prospettiva spinge e stringe lo sguardo rivolto ad un infinito verso cui sempre protenderemo, ma che mai ci sarà concesso in vita attraversare.
Per questo il viale è qualcosa di più dello spettacolo naturale che ancora può identificare in una realtà fatta di apparenze e vanità, ma anche ciò che non è più e benché coincida con il punto di fuga a cui mira la nostra percezione, spesso diviene strumento attraverso cui inconsapevoli di quanto sta dietro al rimembrare, ci scopriamo ostaggi delle memoria che gelosamente centellina le reminiscenze, ma non le emozioni che improvvise balzano dal cuore alla mente, come se i sentimenti rievocati fossero ancora palesi, in un continuo che non si esaurisce, che non subisce l’evanescenza del quotidiano, ma che incide il nostro volto di cento rughe che come il durame di cento e cento alberi dei viali sotto cui abbiamo camminato o riposato, sono il segno tangibile del tempo compiuto.


Nato da Alessandria nel 1958, dove vive e lavora, Oreste Bonvicini ha pubblicato alcune sillogi poetiche in seguito a premi letterari (Il velo di Chartres, Cecità, La città). Nel corso del 2007 ha conseguito il secondo posto nel concorso Pubblica con noi di Fara Editore con la raccolta La misura quotidiana delle parole, esercizio di prosa poetica. Scrive e collabora con periodici locali e nazionali («Silarus»).

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