martedì 6 novembre 2007

Un altro ricordo


di Raffaele Ibba

L’uomo era vecchio.
“Un vescovo decrepito, un vecchio prete.” Pensò. Ma era un vantaggio,
nessuno lo avrebbe riconosciuto per le strade di Roma, in quell’ora
di notte, nei pressi del Vaticano.
Ricordò qualcosa. «È giunto il momento di sciogliere le vele.»
“E già!” pensò con allegria. Poi sospirò: “Ma spetta a Te decidere
quando e come. Questo vascello mi ha ben servito, Amico mio, ma
adesso risente di tutta la fatica fatta, e comincia a cedere i pezzi
importanti. Fa acqua da tutte le parti e questa passeggiata non
dovevo farla. Ma quant’è bella Roma di notte! ed in quest’aria di
gennaio, poi, così fredda che mi ricorda, da lontano, la mia terra.”
Sospirò di nuovo ed il suo corpo cedette, di schianto.
Seppe, in un istante, che stava crollando lì, a due passi dal
Vaticano, che sarebbe morto, che lo avrebbe trovato chissacchì, dopo
ricerche affannose, in quel vicolo contorto nei pressi delle mura.
Pensò allo scandalo, e mentre il corpo cadeva si sentì sorreggere.
“Si tenga a me, padre.” Tutta la sua forza residua s’aggrappò a
quelle braccia forti e si sentì rinascere. Dopotutto il Signore gli
aveva perdonato la marachella della fuga, pensò contento, e gli aveva
mandato soccorso.
“Non doveva uscire, padre. E da solo, poi. C’è troppo freddo e lei ha
un’età troppo bella per fare ancora di queste birichinate.”
Era una voce maschile, serena e calda, preoccupata, ma con un
inconfondibile tono di ironia cheta e dolce.
“Meno male che c’ero io dietro a lei e l’osservavo.”
Finalmente il vecchio si sentì tranquillo e si volse al suo
accompagnatore.
Il severo abito talare era sostenuto da un volto giovane,
incorniciato da una barba magra, lievemente incolta.
Fu guardato da due occhi densi, taglienti, mediorientali, arabi o
ebrei. Due occhi d’uomo assurdamente materni.
E quelli del vecchio di colpo si riempirono di lacrime, ed iniziò a
piangere di una felicità tenue ed acre, graffiante ed irresistibile.
Le lacrime che scendevano gli impedivano di vedere. S’affidò
totalmente al suo appoggio, che lo reggeva senza sforzo, e la voce
gli uscì ferma, tremante solo per la malattia che lo affliggeva.
“Perché? Sei venuto? Tu? Perché?”
“Avevi bisogno ed ero vicino a te. Ero l’unico che poteva aiutarti e
ti ho aiutato.”
“Così finalmente sciolgo le vele.”
“Non ancora. Dovrai subire un poco di maltrattamenti, è necessario;
dopo ti verrò a prendere. Hai ancora qualcosa da dare. È molto, molto
importante.”
Temendo la risposta che voleva, il vecchio si girò per chiedere, ma
fu preceduto.
“Sì. La tua morte. È questo l’ultimo contributo che ti chiedo, un
grande esempio d’amore nella tua morte. Tu lo sai che lo fanno in
tante e tanti, ed anche tu devi farlo, tu più di tutti questi altri.”
“Ti amo più di costo…”
La voce, dolcissima, troncò di netto la parola al vecchio.
“Silenzio. Ci sono occhi che ascoltano e questa passeggiata deve
rimanere ignota. Ed ho un altro ricordo da regalarti.”
E mentre le lacrime continuavano a sbordare con felicità intensa, e
la calma notte romana stringeva di gelo i suoi polsi, s’abbandonò a
quel trasporto ed a quella voce, senza chiedersi più nulla, né di
doveri né di obblighi, felice dell’amore. La voce che lo sosteneva
era molto chiara, sorridente, ma chiusa nel voler percorrere la
grotta che solo Uno aveva amato.
“A quel punto non sapevo più cosa fare. Non avevo più nulla. Ero
inerme da ore, beninteso. Totalmente indifeso, ero tra le mani di
quei poveri aguzzini e di quella loro morte orrenda. Ed ero così da
troppe, interminabili ore. Ma fino a quel momento avevo sempre saputo
tutto, che cosa sarebbe successo, come dovevo comportarmi, che cosa
dovevo dire, e come dirlo. Fino a quel punto il mio cuore aveva
funzionato perfettamente ed avevo sempre saputo di ciascun battito
del mio amore. Così avevo sempre saputo la mia missione ed i doveri
che comportava. Fino a quel punto.
Perché, arrivato a quel punto mi trovai solo e, quindi, privo di senso.
Lui se ne andò perché era soltanto così che mi amava ancora di più, e
perché lui, somma di ogni somma d’amore, non poteva restare con me
che morivo; e come se ne andò mi seppi perduto.
In più solo in quel momento fui la certezza di essere il Divino, il
Dio creante, il Creatore che moriva per mano delle sue creature.
Seppi che con un breve, invisibile singulto della mia volontà tutto
quello squallore di morte sarebbe finito nel nulla a cui voleva
disperatamente giungere. Ma ero solo, ero Amore totale ed ero solo,
senza nessuno in cui riversare il mio amore e da cui ricevere amore.
Se non quei pochi compagni, timidi e spauriti, i quali erano fuggiti
lontano, e s’erano nascosti dalla mia pena. Se non quelle donne che
s’erano unite a noi, fatte di ferro e petali di rosa, abituate al
dolore dell’offesa ed al gesto d’amore, le sole che m’avevano
accompagnato, con mia madre, fino al supplizio ed erano lì, davanti a
me, senza una lacrima e con il cuore a frantumi. Se non quei miseri
persecutori, ai quali sarebbe bastata la prova sperata di un mio
sorriso, un piccolo luminoso sorriso da lassù, da quella croce su cui
ero appeso, perché credessero e mi strappassero da quel legno a morsi
ed unghie. Ma non potevo dare altri segni, ed ero solo.
Fu lì che vidi il divisore. Davanti a me, ritto e dispiaciuto. Ma con
gli occhi indifferenti. Il divisore lo riconosci perché ha sempre gli
occhi distanti e freddi. Lui è sempre altrove e non è mai con te,
perché è solo una maschera, totalmente priva di cuore. Ed anche se
era dispiaciuto davvero non aveva importanza, perchè era lì per avere
informazioni, per sapere chi ero. Così mi mostrò le sue vittorie, ed
i disastri di una mia comunione con voi. E vidi il mio volto portato
avanti per giustificare massacri ed ignoranza, la croce su cui ero
appeso sollevata in segno di divisione invece che di pietà e
d’ascolto. Così ti vidi ad Auschwitz, a Birkenau, a Nagasaki, in
Siberia, in Africa, in America, in Australia, tu insieme a me,
ovunque detenuti carcerati massacrati. Vidi tutte le volte che mi
avete ucciso, nel mio nome e contro il mio nome. Così gonfiò il mio
strazio con la sua malvagità e mi offrì qualcosa e me ne chiese
altre; ma a quel punto la mia desolazione era completa e non lo
vedevo più.
Il supplizio fisico era allo stremo, perchè l’interesse a non
lasciarmi sulla croce in un giorno di festa solenne aveva fatto sì
che mi flagellassero, sminuzzando il mio corpo in una galassia di
dolori, in una gelida fatica così mortale da accorciare la mia
sopportazione di quella loro ignobile tortura. Ero alla fine, alla
conclusione, e sentivo la morte stringermi. Ed ero solo, senza sapere
cosa sarebbe successo, che cosa dovevo fare. Ed è qui che mi venne in
mente e lo ricordai tutto. Lo rammenti sicuramente anche tu.

Signore, non si inorgoglisce il mio cuore
e non si leva con superbia il mio sguardo;
non vado in cerca di cose grandi,
superiori alle mie forze.

Io sono tranquillo e sereno
come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l’anima mia.

Speri Israele nel Signore,
ora e sempre.

Lo recitai quasi in silenzio, cantando a schegge, e vidi il divisore
cadere a capofitto con un orrore indescrivibile nella sua maschera.
Poi si aprì il mondo… ma qui non voglio anticipare quel che anche tu
vivrai, e non voglio… non voglio neanche pensare a quello che può
essere successo.”
La voce del segretario franò di colpo, vicino al telefonino inutile
nella sua mano. Senza parole e con la bocca aperta guardò il vecchio
seduto sulla poltrona, sorridente, che lo guardava.
Richiuse la bocca e fece per parlare, ma
il vecchio lo precedette. “Chiama il medico, c’è bisogno.” Lo fissò
negli occhi, teneramente. “Poi ti racconto tutto. A te solo. Adesso
chiama, che sto male.” Concluse il vecchio, con aria felice, trasognata.

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