Mi chiamo Giorgia, ho diciannove anni, e faccio la barista in un piccolo paese in riva al Mincio. Fin da piccola avevo le idee molto chiare, come si diceva dialettalmente una volta “sono un donnino”, anche se molti sono più propensi a considerarmi un terremoto.
Non ho mai amato andare a scuola e finita quella dell’obbligo ho deciso che non volevo proseguire. Purtroppo, per lo studio coatto e per fortuna, per il mio equilibrio mentale, i miei genitori smettono per un attimo di usarmi come strumento per battibeccare a distanza e mi consegnano alle “superiori”.
Tuttavia, dopo aver constatato che le presenze in classe erano un insignificante corollario appiccicato alle assenze, hanno accettato la mia vocazione, che era quella di lavorare.
E così ho cominciato a fare la barista, un’attività che mi piace perché riesco immediatamente a stabilire una relazione con chi non è solo una persona a cui servire un caffè, una birra, un amaro, ma diventa un mondo da esplorare e da scoprire. Da una parte ci sono coloro con cui è facile dialogare immediatamente, ma esistono anche quelli che considerano il barista un soprammobile robotico, ma io, immodestamente, riesco a sciogliere anche costoro.
Addirittura durante il mio lavoro ho trovato anche l’amore. Si tratta di un ragazzo molto più grande di me, e non mi riferisco alla statura. Taciturno, arrabbiato e intristito per aver smesso di fare il barcaiolo, un lavoro che gli piaceva perché cercava di trasmettere il suo profondo essere nella natura. Purtroppo molto spesso gli capitava di avere un uditorio di sordomuti o di individui che inconsapevolmente violentano i luoghi sui cui piantano la bandierina del primo arrivato.
Quasi senza che ce ne accorgessimo abbiamo cominciato a parlare e da quasi subito mi sono accorta che mi piaceva chiacchierare con lui e aspettavo con ansia la mancanza di persone al banco per potermi appartare in sua compagnia.
Insomma, mi piaceva. Ero intimamente convinta che anche lui fosse particolarmente interessato a me, ma non mi mandava alcun segnale.
Parlavo, ascoltava, parlava, ascoltavo, ma mai un’avance, anche solo a livello di battuta, finché un giorno mi sono stufata e gli ho gettato in faccia un perentorio: “Stasera vengo a dormire a casa tua.”
Mi ha guardato per un attimo, ha fatto una sorta di sospiro liberatorio condito da un laconico: “Va bene.”
E così da alcuni mesi viviamo insieme riempiendo con le nostre vite una storia che non è fatta solo da baci e carezze, ma della capacità di rendere l’amore fecondo, mettendo insieme quell’inestricabile miscuglio di ragione e sentimento, di cuore e di cervello che costituisce l’unico modo di confrontarsi con l’altro attraverso la realizzazione di ciascuno di noi.
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