martedì 10 marzo 2020

I passi dell’angelo




Già da diversi giorni ormai ero in viaggio per la Media e, all’approssimarsi di quei luoghi, il cuore mi balzò in petto. Spesso mio padre aveva narrato a me e ai miei fratelli le peripezie di Tobi e di suo figlio Tobia; di come, quest’ultimo, seguendo l’esempio del padre, uomo pio e timorato di Dio, fosse stato accompagnato e guidato nel suo cammino da Raffaele, uno dei sette angeli che stanno alla presenza di Dio. Io ascoltavo incantato quei racconti e, intanto, mi interrogavo sulla veridicità delle parole di mio padre nonché sull’aspetto, semplice e al tempo stesso glorioso, dell’angelo. I miei occhi brillavano rispecchiando il fervore della mia anima.
Proprio la curiosità verso la figura dell’angelo ora mi conduceva alla volta di Ecbàtana. Quantunque il pensiero di fallire nella mia impresa si affacciasse ad ogni istante, a causa del lungo tempo trascorso da quei fatti, ero sorretto da un’incontenibile sete di conoscenza e nulla avrebbe potuto ostacolarmi.
Il caldo, e la necessità di dare un po’ di tregua al mio cammello, mi spinse a concedermi una breve sosta all’ombra di alcuni palmizi, presso i quali s’affacciava un piccolo laghetto. La luce del sole era intensa e mi domandai quanto più intensa dovesse essere la luce dell’angelo; poi andai con la mente alla luminosità delle stelle, che nella notte fonda mi scrutavano dall’alto e mi chiesi se la luce dell’angelo non fosse piuttosto più simile ad esse: una luce capace di sfondare la porta delle tenebre più fitte e dei cieli più inaccessibili.
Perso in questi pensieri, non so, forse mi addormentai e mi parve di cogliere come la melodiosa musica di un flauto in lontananza, poi una donna avanti negli anni, ma dall’aspetto fiero, si avvicinò, si sedette accanto a me e pose delicatamente la sua mano sulla mia.
«Che vai cercando, Adin?»
Colmo di stupore le chiesi: «Come fai a conoscere il mio nome?»
Mi sorrise dal profondo dei suoi occhi neri.
«Vieni da molto lontano, hai abbandonato la tua famiglia e la carovana a cui ti eri aggregato, e tutto ciò per dei sogni che facesti quand’eri bambino. Sai che potresti non riuscire nel tuo intento?»
«Lo riconosco, tuttavia non posso fare a meno di assecondare quella vampata dal calore inestinguibile che mi arde nel petto.»
«Allora continua a confidare nel Signore e prosegui in quella direzione: Egli benedirà i tuoi passi» mi disse, indicando delle masse scure che si stagliavano all’orizzonte, prima di scomparire alla mia vista. Mi stropicciai gli occhi… avevo sognato?
Montai nuovamente sulla mia cavalcatura e proseguii il cammino, e mi parve di sentire ancora quella musica soave dentro di me, a lenire la mia stanchezza e a infondermi fiducia nel buon esito del mio peregrinare. 
Ma proprio quando mi sentii al massimo della forza e della sicurezza, la sterpaglia cominciò a fremere, così come i ciottoli sul terreno e, dal nulla, sorse una tremenda tempesta di vento; con fatica  mi ressi in groppa al mio cammello, che, piegate le zampe, si stese a terra. Quel vento durò a lungo e la sua violenza mi instillò il timore che, pur di fermarmi e sfogando appieno la sua ira, il demonio Asmodeo stesse tentando di strapparmi le carni. Quando però s’avvide che resistevo alla paura e, fermo nel mio convincimento, cominciai a pregare il Signore del cielo affinché sgombrasse il mio cammino, subito il vento cessò e potei riprendere il viaggio.
Passò un giorno, quando ai margini della pista notai un viandante e mi appressai a lui nella speranza di ottenere ulteriori indicazioni sul tragitto da seguire.
Appena lo vidi meglio, rimasi colpito dal suo aspetto: era vestito di pelli ormai lacere e il suo corpo, simile a un giunco, era solcato dagli anni e bruciato dal sole, così da divenire un tutt’uno con l’arido terreno circostante. Ancor più mi colpiva come, la sua pelle bruna, ne mettesse in risalto gli occhi e i capelli, al punto da sembrare fossero fatti di luce.
«O eremita, il mio nome è Adin, della stirpe di Achikar, e sto cercando di raggiungere i luoghi ove vissero Tobia e la moglie Sara, le cui preghiere furono ascoltate dall’angelo Raffaele, che le presentò al cospetto dell’Altissimo. Egli allora lo inviò a guidare, nei panni di Azaria, il giovane Tobia e infuse, sul giovane e sulla sua famiglia, la propria benedizione.»
«Conosco quella storia, prode Adin, e posso esserti d’aiuto; anch’io, come colui di cui cerchi, mi chiamo Tobia. Appartengo alla casa di Anania che, da sempre, ha custodito con gioia il ricordo di quei fatti. Ormai da tempo immemore vivo solitario in questa zona desertica, nutrendomi dei pochi frutti che essa dà e delle elemosine dei viandanti che la percorrono; soprattutto, mio nutrimento è la parola di Dio: Egli mi aveva predetto che un giorno saresti giunto fino a me. Sappi dunque che la meta è ormai prossima» mi rispose il vecchio, confermandomi che mi stavo muovendo nella giusta direzione. Infine mi accomiatai da lui, non prima di aver condiviso con il mio ospite una focaccia, rimediata nell’ultima città da cui ero passato.

Ecco, sono giunto alla mia destinazione. Anche se non so spiegarmene il perché, provo un senso di smarrimento. Forse è colpa dell’aria, che si è fatta ferma, in modo innaturale. Mi guardo intorno: davanti a me le mura in disfacimento di un’antica costruzione e, in fondo al sentiero, la città di Ecbàtana.
Sto per incitare il cammello a proseguire quando, con alte grida, da dietro le rovine scattano verso  di me alcuni briganti armati di spade e pugnali. Mi circondano. Colto di sorpresa, prima di poter tentare una qualche reazione, vengo trascinato giù dal cammello.
Estraggo il pugnale e mi accingo a una difesa disperata, ma sono troppi. Ne ferisco uno, forse due, con l’unico risultato di acuire la loro ferocia.
Li tengo a distanza per un po’, poi uno di loro mi colpisce a un fianco; piegandomi sulle ginocchia, mi ritrovo a terra. Come sciacalli, allora, avvertito l’odore del sangue, gli aguzzini sono sopra di me e le loro mani immonde e impietose mi depredano di tutto, lasciandomi nudo e agonizzante a contemplare un cielo sgombro da nubi. Ormai attendo soltanto l’abbraccio della morte, che venga a spegnere la mia sofferenza.
Come Giobbe sono lì, abbandonato, incapace di comprendere cosa mi stia accadendo, a chiedermi come Dio possa permettere questo, quando non ho commesso ingiustizia e ho sempre operato secondo i suoi precetti. Sono solo, nudo come un verme, e, ancor più, mi sento spogliato della mia umanità, da uomini che uomini non sono. «L’uomo… dov'è? e dov’è Dio?» mi chiedo, eppure, nonostante tutto, qualcosa di indefinibile mi invita a confidare in lui e grido, con tutto il fiato rimastomi in gola:  «Perché?».
Le forze scemano e la vista mi si appanna. Mi giro alla mia destra e scorgo una figura avanzare lentamente verso di me. Non riesco a coglierne che indefiniti contorni. Scende dal suo cammello e, a passi lievi ma decisi, avanza. Poi si ferma, quasi che un muro invisibile gli impedisse di procedere oltre. Perché? Cosa sta facendo? In risposta alle domande che assillano la mia anima, con movimenti aggraziati e sicuri si toglie i sandali e riprende ad avanzare. Si china su di me; la sua semplice ombra, mi dona ristoro. Mette la mano sotto al mio capo e lo solleva con delicatezza. Lo osservo meglio e noto il suo volto: simile a cristallo è attraversato da una luce ineguagliabile e inaccessibile, impossibile da descrivere, che filtra, impedendole di bruciarmi e ridurmi all’istante in polvere.
Il suo sguardo puro è su di me, ed è fisso nella contemplazione eterna di quella luce.

Come può essere concesso a me, piccola creatura, un onore così grande?

Con un filo di voce sussurro: «Fratello Azaria!»
«Eccomi!» risponde con infinita dolcezza, accarezzandomi una guancia, per poi spostare la mano sul mio corpo e posarla là dove sprizzano dolore e sangue, mescolandosi fra loro.
Sorrido, ora non mi importa più di cosa mi accadrà, se renderò il mio spirito fra le braccia dell’angelo o se egli mi guarirà e potrò far ritorno alla mia terra. Non mi importa, perché ho trovato ciò che andavo cercando: ho visto il volto dell’angelo, e so che ogni ferita sarà sanata.

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