giovedì 7 giugno 2018

C'è un perdono per gli “scarti umani”?

Subhaga Gaetano Failla: “Poesia dei sacchi e dei cuori freschi”, in  Perdono: dal rancore al ricordo, a cura di A. Ramberti, Fara 2017 

recensione di Vincenzo D'Alessio


Annualmente “i pellegrini della poesia” si recano all’eremo di Fonte Avellana, caro a Dante Alighieri, ai piedi del Monte Catria, nel cuore dell’Apennino umbro/marchigiano, per rispondere all’invito rivolto dall’aedo Alessandro Ramberti sui temi di attualità e di fede.
I poeti a convegno sono tanti e provengono da diverse regioni della nostra penisola: nord-sud-centro, isole, si ritrovano a dialogare nella stessa lingua, ognuno con il proprio background.
Lo scorso anno il tema trattato, riportato poi in un’Antologia curata dall’Editore (2017), era Perdono: dal rancore al ricordo.
L’intervento dello scrittore Subagha Gaetano Failla è certamente singolare e risponde al tema proposto in modo incisivo.
Si parte dall’introduzione dove sono citati le parole del poeta J.L. Borges: “Io non parlo di vendette né di perdoni: la dimenticanza è l’unica vendetta e l’unico perdono.”
Assunta questa premessa lo svolgimento del l’intervento procede attraverso versi brevi, disposti lungo una verticale come una discesa lungo una scala ripida verso l’esito finale, dove il lettore ritrova la coscienza del letterato che trasmette le sue singolari emozioni: “(…) Leggerò i versi simulando una voce sintetica, da robot, per enfatizzare il nostro vivere inconsapevole e automatizzato” (pag. 260).
Il soggetto è un anonimo “povero” alla ricerca nel sacco nero della spazzatura, di “qualcosa” che appaghi la sua dolorosa ricerca.
La ricerca stessa assume l’identità di un videogioco al quale si partecipa oppure si diviene osservatore partecipante( vedi B. Malinowski).
Il dolore portato avanti nell’indifferenza della società civilissima, che non perdona agli ultimi il diritto di essere lì, di vivere per strada ingombrando della loro presenza il fluire veloce della quotidianità, di essere soggetti da eliminare è riportato in questi versi: “(…) Eliminare gli specchi, / please, / e fare silenzio, / non dire, / dimenticarsi, / dimenticare.” (pag. 262).
Forzatamente il perdonarsi di non volere intervenire a mutare il corso degli eventi osservati si trasforma in rancore verso quei soggetti che li procurano: “(…) Oblio / non / io / né / tu / ed / essere qui.” (pag. 263).
Contrapposto al perdono la maschera ironica della società dei consumi che non ricorda (o non vuol ricordare) i danni procurati dallo sfruttamento inesorabile delle risorse naturali e umane del pianeta.
Il poeta gioca con i versi volutamente, sospinto ad interpretare il vuoto sacro del meccanicismo e dello scientismo assoluto, che nulla cede ai deboli: “(…) Corda / che lega / rilega / riunisce/ un / core / universale, / ricordo / ammore / che unisce / universi / e / le pagine / del libro / rilega.” (pag. 264).
Non c
è altra scelta che continuare a mentire a sé stessi e procedere senza voltarsi; correre dietro al vessillo del “fresco” benessere materiale, dove la parola dialettale napoletana “core”, che compare in questa poesia, richiama i versi della rinomata canzone scritta nel 1944 dal notissimo cantautore partenopeo Peppino Fiorelli che il Nostro prende in prestito: “scurdammoce o passato”. 
Il rancore dovuto alla Guerra Civile, allora, si trasformò in volontario ricordo per sedare il dolore degli affetti persi, dei giovani trucidati dei fascisti convinti di uccidere i comunisti/ partigiani: memorabile il film dei fratelli Taviani La notte di San Lorenzo del 1982 ispirato allo stesso periodo, 1944, nelle campagne toscane.
Il perdono si spegne lasciando, però, il segno nero del dolore subìto nei meandri della memoria singola e collettiva. Esercizio non sempre facile, difficile per la violenza insita in ogni essere umano.
Subagha Gaetano Failla dà prova della lunga carriera di scrittore in questa composizione utilizzando metafore intense come “il sacco nero” ( permanere in uno stadio di intenso dolore/mortificazione della carne); “le dita” parte nobile e creativa del corpo umano che rovistano nella spazzatura invece che dedicarsi ad un onesto lavoro; “scegliere” che indica esattamente il contrario dello stadio della propria condizione sociale.
Oltre al dialetto napoletano, l’autore utilizza anche il fonosimbolismo: “(…) e quo e qua e uak!” (pag. 265) scherzando sul verso che la gallina compie nell’emettere l’uovo “fresco di giornata”: paragone dell’incomprensibile esasperazione dell’umana società attuale di rincorrere l’avere ad ogni costo.

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