giovedì 25 gennaio 2018

Grazie a chi si sporca le mani

Intervista a Samuele Ramberti, di Aurora Zamagni

Eccomi, seduta, comoda, al caldo, davanti al computer a parlare di argomenti che stanno infiammando paesi distanti da me nello spazio. Piuttosto facile.
Potrei anche azzardare qualche critica, dire che non è ignorandole che fermeremo le guerre, inveire contro i governanti, troppo attenti ai loro interessi per coltivare un benessere comune e collettivo. Piuttosto facile anche questo.
Ma non migliorerei niente. Perché, intanto, la guerra continua, la gente soffre, la speranza muore.
Un primo passo? Informarsi, conoscere. E poi? E poi agire.

Ecco la storia di Samuele Ramberti, riminese, uno come noi, nessun superpotere. Eppure, oggi, si trova a Baghdad, Iraq e lì fa la sua parte. Si impegna a mediare con la cittadinanza per far conoscere la casa di accoglienza della comunità papa Giovanni XXIII destinata ai ragazzi disabili “over diciotto” per ora in fase di avvio.

“In Europa si sta troppo bene. Sostanzialmente questa è stata la motivazione che mi ha spinto a partire. Volevo rendermi conto di cosa volesse dire abitare in zone di guerra, spaccate da economie disastrose, poca speranza per il futuro e un ambiente decisamente difficile. Non riuscivo - e non riesco tuttora - a darmi risposte a diverse domande: perché facciamo finta che vada tutto bene quando c’è al mondo chi è nato, cresciuto e ha vissuto tutta la propria vita in zone di guerra? Come possiamo stare bene, semplicemente ignorando ciò che è oltre i confini dell’occidente?”

Le differenze ci sono e non si possono ignorare “Qui non si può vivere all’occidentale: non si può andare in giro in strada da soli, non si può dare troppo nell’occhio, bisogna mantenere una certa discrezione e dire a pochi fidati che sei europeo. Non hanno niente contro gli europei, ma con tanta povertà è facile pensarti come un dollaro/euro che cammina.”

Le difficoltà socio-politiche di Baghdad (e di molti altri stati nelle medesime situazioni o perfino peggiori) si riflettono soprattutto nell’accentuarsi di alcune tendenze. Prima su tutte l’ampliamento del divario tra ricchi e poveri, la famosa forbice che si allarga. La disparità è senza dubbio economica, ma, a cascata, anche culturale. “Per la strada ci sono sia taxi vecchi di trent’anni e auto abbandonate sia macchine americane d’importazione super costose. Allo stesso modo si vedono hotel di lusso 5 stelle superior a pochi metri da bettole ambulanti o ancora peggio edifici distrutti da attentati e mai ricostruiti. Per non parlare delle periferie. Non le ho mai viste da dentro perché solo avvicinarsi è un azzardo, ma immagino come si possa vivere. Non c’è acqua potabile in tutte le case, l'elettricità è molto precaria: va dalle 2 ore alle 10/12 ore al giorno. Giornate particolari possono avere anche 0 ore di elettricità.”

La società irachena è, così, frustrata, sfiduciata e rassegnata al fatto che ciò che si crea verrà in qualche modo distrutto. Negozi, case che senso ha curarli se poi verranno abbattuti da un qualche kamikaze o altro? C’è, però, anche un altro aspetto che spesso non viene considerato: “Nonostante la paura costante che possa succedere qualcosa nulla impedisce agli abitanti della capitale di uscire da casa e fare spesa, giri, passeggiate, giochi in strada. Tutto è temporaneo ma non per questo la gente si preclude le esperienze o la vita in strada.”

Grazie a Samuele che si è sporcato le mani, grazie a chi lo fa ogni giorno, grazie a chi si informa, grazie a chi ci prova.

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