giovedì 15 gennaio 2015

LA PORTA SOCCHIUSA e IO STO ALLA PORTA E BUSSO


LA PORTA SOCCHIUSA

Erano da poco passate le sette. Lo sapevo perché avevo ascoltato i rintocchi del vecchio pendolo che ogni mattina, puntuale, puntualissimo, riprendeva a battere le ore, dopo essersi addormentato suonati magistralmente i dodici della mezzanotte, proprio alle sette. Sapevo, tra l’altro, d’essere solo. Dopo le sette non era accaduto nulla: nulla di rilevante, nulla d’insolito, nulla di terrificante. Eppure, qualcosa, sotto le pesanti coperte, mi paralizzava. Ma era così tutte o quasi le mattine. Sbirciai da sopra il lenzuolo teso sin oltre le narici e diedi delle occhiate a destra e, poi, a sinistra e, poi, verso il soffitto e, poi, a centottanta gradi. Tutto, dico tutto era al suo posto. I miei vestiti piegati sulla sedia. La camicia era una camicia e non un fantasma. I miei libri scolastici sullo scafale. I grossi vocabolari di greco e di latino non erano due lupi che sbavavano pronti a sbranarmi. Il vaso di fiori sul piano in marmo del catino. I ramoscelli di agrifoglio non erano alberi mostruosi che avvinghiandomi non volevano stritolarmi. La tenda dai colori tra il celeste e il verde nascondeva la finestra e le persiane chiuse. Cos’altra, poi? Niente! Tutto era perfettamente immobile e non oggetto di nessuna insana fantasia. Eppure, questa esplorazione visiva non mi aveva rasserenato. Rimasi, pertanto, sotto le coperte con gli occhi spalancati e vigilanti.

Ah, sotto le coperte si stava bene, anzi benissimo! Il tepore del corpo notturno era ancora tutto lì. I piedi fasciati da spesse calze di lana cucite a mano sollevavano e reggevano due cime montuose. Le gambe, lunghe e secche, che risentivano delle corse del giorno prima, le sentiva ancora indolenzite. I due cuscini profumavano di lavanda e del mio odore di ragazzino che, penso, fosse un gradevole odore. O no, per nulla al mondo mi sarei spogliato della corazza che mi difendeva! Eppure, ad un tratto, qualcosa si accese e si mosse sotto la porta. Apparve un sottile fascio di luce che si specchiò, illuminandolo, in una piccolissima striscia del pavimento di marmo macchiato di ocra e di porfido rosso. Era come l’occhio di un gatto che mi guardava dentro il buio della notte. Sapevo, però, che dietro la porta non c’era nessuno. Come lo sapevo? Lo sapevo e basta! Iniziai, allora, a tirare giù il lenzuolo e le coperte, ma lentamente, molto lentamente. Queste liberarono prima il naso e, poi, la bocca, il collo, il petto e gli odori.

Con un colpo di reni mi sedetti sul bordo destro del letto in direzione della porta. Misi le mani sotto le cosce e le gambe rimasero penzoloni. Di scatto, quindi, mi alzai in piedi. Ero alto e magro dentro il mio pigiama a righe blu e rosse. Avanzai verso la porta, prima il destro, poi il sinistro, e ancora il destro e ancora il sinistro, con passo felpato tenendomi in equilibrio con le mani aperte e oscillanti. Non infilai le pantofole per non perder tempo. Giusi così a un palmo dalla porta laccata d’avorio decorata con motivi floreali alla veneziana. La maniglia, in ottone dorato, sembrava un mazzolino di fiori di campo gli stessi che amavo portare alla nonna quando m’invitava a colazione nella sua grande casa attraversata la strada di campagna che conduceva anche alla mia. Avvicinai lentamente, più lentamente che potevo, a rallentatore, la mano destra sino ad afferrare e stringere la maniglia della porta che abbassai altrettanto molto lentamente. La serratura produsse come un suono di violino ed i cardini cigolarono e la porta, come una regina, solennemente si aprì, ma, ovviamente, sempre senza alcuna fretta. Quando l’ebbi proprio aperta rimasi sulla soglia e osservai il corridoio che si apriva davanti a me. Era un corridoi assai luminoso, totalmente immerso nella calda luce del buon mattino grazie alle due finestre che si aprivano sul lato sinistro. La luce esaltava la bella carta da parati color verde pistacchio. Anche qui tutto era al suo solito posto: le tre sedie, una prima della prima finestra, una tra le due finestre e una dopo la seconda finestra; i due quadri, raffiguranti dei paesaggi campestri, rispettivamente di fronte alla due finestre; la consolle con specchio tra i due quadri; le due piante sotto i due quadri. Si, tutto era perfettamente a posto.

Ma a un più attento sguardo del tutto non potei non notare su vassoio di legno fiorentino con una tazza e un piatto di biscotti depositato sulla prima delle tre sedie. Dopo aver dato una rapida occhiata verso il fondo del corridoio, feci due passi e vidi che la tazza conteneva del buon latte – perché doveva essere proprio del buon latte! –, del buon latte fumante. Così, non potei resistere più di tanto e afferrata la grossa tazza con entrambe le mani la portai alla bocca bevendone un sorso. Ah, ma quanto era buono, quanto era dolce, quanto era bollente! Andai quasi in estasi, poi, quando v’inzuppai uno dei biscotti che subito riconobbi fatto dalla nonna. E, poi, due e tre e quattro. Tempo pochi rapidi minuti li divorai, uno dietro l’altro, con vero appetito, immergendoli nel latte che ancora continuava ad esser buonissimo, fumante e bollente. Tutto questo lo feci restando in piedi tra la porta e la sedia. Quand’ebbi terminato mi strofinai il dorso della mano destra e, poi, della sinistra sulla bocca e feci schioccare le labbra. Il suono rimase lì, fermo, immobile ed allora, dando le spalle al corridoio, rientrai nella mia stanza immersa, ma ancora per poco, nei colori e negli odori della notte, ma lasciai la porta socchiusa.

Socchiusa… perché non dimenticassi, mai più, questa sorprendente colazione. E così che, un po’ tutti, dovremmo fare: continuare a lasciare le porte socchiuse.

Tempio Pausania, mercoledì 14 gennaio 2015




IO STO ALLA PORTA E BUSSO


Quella sera, ricordo, ricordo chiaramente, fu particolarmente fredda e assai trenebrosa. L’inverno dominava già da alcune settimane. La notte era giunta più presto del solito ed il paesino, abbarbicato su di una collina dentro una valle da fiaba tedesca, nelle poche strade s’era fatto subito deserto, triste e silenziosissimo. Ero da poco rientrato dalla mia abituale camminata pomeridiana infreddolito e con un lieve mal di testa che mi fece temere d’essermi buscato l’influenza. Avevo sempre paura di ammalarmi anche solo d’influenza perché non volevo medici in casa, non volevo arricchire il farmacista del paese e non volevo importunare nessuno nell’eventuale assistenza domestica. Perciò, avevo chiuso le pesanti imposte, sbarrato dall’interno porte e finestre e attizzato ben bene i carboni ardenti che abbrustolivano dentro il camino gettandovi poi sopra della legna secca che in brevissimo tempo iniziò a bruciare e ad emanare un piacevolissimo tepore.

Misi, quindi, dell’acqua a bollire. Fuori udii le raffiche di vento scagliarsi contro gli alberi costringendoli ad agitarsi e a lamentarsi. Queste, tra l’altro, s’infiltravano dappertutto fischiando e suonando a proprio piacimento motivi musicali per nulla gradevoli. Quando la tisana fu pronta, mi sedetti a gambe distese ed incrociate davanti al caminetto dopo aver spento il lampadario centrale e lasciato acceso solo il lume alle spalle della mia poltrona pensatoio. La legna scoppiettava e le fiammelle, rosse e blu, danzavano flemmaticamente. Il lieve mal di testa passò. “Bene, ottimo!”, pensai. Le mani divennero bollenti per via della tazza che stringevano ed i miei occhi si concentrarono ipnotizzati sul fuoco. La casa era tutta dedita alla contemplazione del poco che dentro era vivo: il mio respiro, vecchio e regolare, e il fuoco. Amavo questo tempo della sera, prima della cena, dove stavo solo con me stesso, i miei pensieri, i miei ricordi e il fuoco, l’unico sopportabile amico quando, rientrando, mi lasciavo tutto fuori dalla porta. Non trovavo mai un motivo per far entrare dentro quel che avevo vissuto fuori, nessun motivo. E di questo non mi crucciavo mai, mai.

Terminato che ebbi di sorseggiare la mia buonissima tisana, assorto nel ricordo di un antico incontro adolescenziale, sentii bussare alla porta. Il battente batté tre colpi, acuti, forti. Diedi un’occhiata all’orologio: le 19:47. “Mai nessuno viene a bussare alla mia porta a quest’ora, nessuno! Chi può essere?”, pensai restando seduto ed immobile. Seguì un lungo silenzio così lungo che, allora, pensai d’aver sognato, ma in quel preciso istante, ecco altri tre colpi. “Ma, allora, son desto! Bussano! Ma, chi può essere?”. Mi alzai, e quasi in punta di piedi, mi accostai lentamente alla porta d’ingresso. E come giunsi ad un solo passo dalla maniglia ecco rimbombare per tutta la casa altri tre colpi. Il cuore iniziò a battere, forte. Spostai il primo passante, quello al di sopra della serratura, e poi il secondo, quello al di sotto della serratura, ma non iniziai a girare la chiave. Appoggiai, piuttosto, l’orecchio sinistro sulla porta ed ecco altri tre colpi. Poi, silenzio e, poi, una voce, la voce di un bambino, e le parole: “Io sto alla porta e busso”. Dove, dove avevo ascoltato queste parole? Chi, chi me le aveva dette? Ed ancora: “Io sto alla porta e busso”. Dunque, presi coraggio e domandai: “Chi sei? Chi sei? Chi sei, perché io ti possa aprire?”. E per la terza volta udii: “Io sto alla porta e busso”.

Ruotai la chiave una volta, due volte e tre volte ed aprii. Una immensa luce m’investì ed invase l’ingresso della casa. Era una luce tra il celeste e l’arancio, non violenta, che come un mare d’acqua s’infiltrò ovunque. Davanti a me un bambino dai capelli quasi rasati, dal sorriso accattivante, vestito di una tunica blu, scalzo, con le mani e braccia distese verso di me come nell’atto di volermi abbracciare. Io caddi in ginocchio e dissi, congiungendo le mani: “Mio Signore, benvenuto! Entra!”. Il bambino, sorridendomi, mi guardò intensamente. Poi, mi toccò il capo dicendomi: “Io sto alla porta e busso. Ricorda: sempre!”. Quindi, scomparve portandosi dietro, come un enorme mantello, tutta la sua luce. Io caddi a terra e piansi, piansi di gioia.
Tempio Pausania, domenica 18 gennaio 2015


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