domenica 31 agosto 2014

Su Un senso del viaggio: il ritorno di Francesco Di Sibio

recensione di Vincenzo D'Alessio




Scorrendo le pagine dell’immenso diario di viaggio intitolato Letteratura … con i piedi pubblicato da Fara Editore 2014 e curato da Alessandro Ramberti si scorgono le diverse testimonianze presentate alla Kermesse che si è tenuta a Perugia dal 21 al 23 marzo di quest’anno. La dolcezza per antonomasia della città dei “baci perugina” e l’immenso dolore dei testimoni dei viaggi dei propri antenati, delle esperienze dirette, dei cammini interiori affidati all’anima.
Francesco Di Sibio è figlio di un ritorno: dalla Toscana fremente di attività e patria della Lingua Italiana, all’Irpinia verde di Speranza, del dialetto, e limitata dalle forze ctonie sempre pronte ad aggredire i giovani: «Viene fuori ancora quella propensione al viaggio, declinato a volte in senso romantico come di salvezza, (…) e passeggiare lungo “via Limiti” per scorgere un orizzonte lontano che spinge a guardare altrove e a sentirsi pronti al prossimo viaggio» (pag. 70). Limiti imposti da millenni, dalla dominazione di Roma sui popoli del Sannio-Irpino, lezioni della distruzione di una Civiltà che si oppose all’espansionismo fondato sulla violenza.
Dalla lezione fornita in più occasione dai Romani, dalle dominazioni straniere successive; dai baroni padroni della maggior parte delle terre (vedi il toponimo territoriale “Baronia” diffuso in tutta la Regione Campana), fino alla subita Unità d’Italia, la popolazione dell’Irpinia ha conosciuto l’allontanamento dai luoghi natali, il rivolgersi ai politici e ai preti di turno per ottenere un posto di lavoro e finalmente restare nella propria terra. Ma per chi non sceglie questa strada di sottomissione quale sorte è riservata?
Di Sibio nel suo forte intervento lo indica nei Versi Panoramici: «(…) Il primo barlume dei sogni / nel tornare con la mente prima che col corpo / ed eccola all’apice del bosco / una linea che si staglia offendendo il cielo / un’antenna che capta i segnali del sangue» (pag. 71). Com’è profondo il senso dell’appartenenza corpo/anima/sogno impossibile dividerli, impossibile dominare il fiume carsico del sangue che ci unisce da millenni agli emigranti, all’offesa che appartiene ai popoli costretti a varcare la sicurezza della soglia domestica.
Nella lezione attualissima del Nostro tornano le testimonianze dell’ottimo lavoro di Zina Righi Il coraggio dei sogni (Fara Editore, 2005) che scriveva: «(…) E soprattutto che l’equivalenza emigrazione-disoccupazione che abbiamo assunto fin dall’inizio come una bandiera sul terreno dell’emigrazione, è ancora valida. La disoccupazione si ripropone continuamente e ciò costituisce la riprova del fatto che l’emigrazione non rappresenta quel rimedio, quella risorsa che si è sempre creduto» (pag. 39). Di Sibio trasmette dai versi contenuti nel suo intervento sul viaggio la stessa intensità morale: «(…) Eppure non è teatro, è vita di un giorno che va / e vita di un giorno cui mi preparo» (pag. 72).
Il senso dell’andare, dell’ignoto necessario, che traspare dai versi di Francesco Di Sibio sono cari a tutti i poeti meridionali primo fra questi Rocco Scotellaro nella ballata Sempre nuova è l’alba: «(…) Ma nei sentieri non si torna indietro. Altre ali fuggiranno dalla cova, / perché lungo il perire dei tempi / l’alba è nuova, è nuova.»

Non si torna indietro dal viaggio immemore perché il tempo ferma il dialetto, la fede, le abitudini alimentari, gli odori, la musica, i colori al momento del distacco. Quando si torna molto è cambiato ed è difficile, se non impossibile ricollocarsi. Si soffre l’inganno del tempo che domina come il barone dei luoghi che abbiamo lasciato.
Il Nostro lo trasmette nel paragrafo 3 “Andata e ritorno”: «L’andata è composta dalla preparazione, (…) Il ritorno è in breve sostanza il bearsi di quanto vissuto senza assilli e/o affanni. (…) Quindi il ritorno è ritrovarsi a casa, qualunque essa sia. Per me casa è la terra che mi ha generato, non dove sono nato, ma dove vivevano i miei genitori e dove ora vivo anch’io. È la terra che mi parla senza bisogno di altro, se non di camminarci sopra» (pag. 74). Forte è la contraddizione nei pensieri dell’Autore: «terra che mi ha generato, non dove sono nato», il dissidio che accompagna tutti i ritorni, la memoria che cerca di annodare i fili, le radici che ascoltano la voce dei propri morti per continuare a sentirsi partecipi. Ma non sempre ci riescono!: «(…) Come sono lontani da qui, l’inganno si sporge, / i deserti di sentimenti, / le emozioni represse.» (La campana e l’inganno, pag. 74) 

Francesco Di Sibio raccoglie nel suo intervento la voce dei tanti migranti e ripete: «Io sono figlio di un ritorno» (pag. 75). Lo zio emigrato a Buenos Aires, i genitori emigrati vicino Santa Croce sull’Arno, l’Oceano mare e il Mare Nostrum: «(…) la musica / straziante come un lamento antico e lontano»(pag. 69). Il miracolo italiano era un miraggio, lo sarà sempre, perché le forze oneste emigrano, emigrano sempre. L’Autore segna questa propensione al distacco con l’anafora nei suoi versi: «(…) Da qui partirono i miei genitori, / qui tornava mio nonno alla fine dell’estate, / qui l’altro nonno riposava dopo la tournée europea col circo, / qui giunsi bambino con una parlata diversa, / qui appresi le parole che hanno senso, / qui nacquero sogni quasi tutti infranti.» (Nella terra d’Irpinia, pag. 75)


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