di Miriam Mastrovito, pubblicata su Leggere è magia
Marco Fratta è nato a Torino nel 1987. Scrive romanzi, poesie, racconti e
suona il basso elettrico. Ha pubblicato il romanzo La scatola nera (La
Riflessione 2007) e la raccolta Il ronzio degli insonni – Poesie dal
2004 al 2008 (Lulu 2009). Il romanzo d’esordio è stato pubblicato anche
in lingua francese in formato ebook (La Boîte Noire,
Abelbooks 2012, traduzione a cura di Marie-Bernadette Giraud). Nel
2009, con la collaborazione degli attori Alan Mauro Vai e Vincenzo Di
Federico, ha creato il Marco Fratta
Reading Project, forse il primo reading italiano su sottofondi di basso
solo. Alcune parti dello show si possono trovare su Youtube e Vimeo. Da
sempre appassionato di Rock Progressive, ha suonato con promettenti
formazioni di rock d’avanguardia, ma ha anche collaborato con alcuni
cantautori tra cui Mezzafemmina (al secolo Gianluca Conte). Per lui ha
arrangiato e suonato le parti di basso del disco Storie a bassa audience
prodotto da Gigi Giancursi & Perturbazione.
Benvenuto nel mio salottino letterario. Per cominciare, raccontaci qualcosa di te, chi è e perché scrive Marco Fratta?
Benvenuto nel mio salottino letterario. Per cominciare, raccontaci qualcosa di te, chi è e perché scrive Marco Fratta?
Questa è sempre la domanda più difficile… provo a metterci
dell’ironia. Immagina di camminare per le strade di Torino. Ad un tratto ti imbatti
in un tipo con i vestiti scuri che somiglia a George Harrison (ma chi non
conosce i Beatles dice Alan Sorrenti ai tempi di Non so che darei). È riservato, single convinto, cinico, vive da
solo e ascolta gruppi misconosciuti degli anni settanta. Ha con sé un basso
elettrico tutto rosso e un pacchetto di tabacco Old Holborn. Non possiede la
televisione dal 2007 e l’auto dal 2009, due scelte che lo rendono una specie di
alieno agli occhi della gente comune. Ama scrivere dall’età di sedici anni.
Perché lo fa? Perché è innamorato delle parole, e l’amore è incapace di dare buone
spiegazioni.
Parliamo del tuo
ultimo romanzo, Il pittore di Parole.
Com’è nata l’idea?
A marzo del 2012 ho sognato di cercare lavoro nella
meravigliosa Göteborg. In un’atmosfera nebulosa e paradossale, tipica di tutti
i miei sogni, il Museo delle Belle Arti mi assumeva per scrivere poesie
guardando i quadri, con il vincolo di non poterli descrivere. Mi sono
svegliato, erano le 03:57. Ho acceso una sigaretta, mi sono dato del folle da
solo e ho iniziato a leggere Tre volte
all’alba di Baricco. Non dimenticherò mai quella notte.
Esattamente due mesi dopo ho cominciato a scrivere Il pittore di parole, rielaborando la
trama del sogno con qualche ingrediente in più.
È inevitabile notare
alcune affinità tra te e Dario: entrambi poeti, entrambi innamorati della
Svezia e della musica… quanto di te c’è nel tuo protagonista?
Sicuramente Dario Barbieri è una proiezione autobiografica. Ammetto
di essermi divertito a dipingere
Dario con le mie caratteristiche, alcune molto intime, servendomi però di un
racconto di fantastia. Ho parlato del suo amore per i testi di Nick Drake, ho
cercato di comunicare la sua passione per la Svezia con la narrazione delle
emozioni. E poi ho specificato che non sa vendere se stesso in un mondo in cui
l’arte nuda si piega alle esigenze dello spettacolo. Potrei definirlo come un
fratello gemello tutto sporco di inchiostro, che vive tra le pagine più
significative della mia produzione letteraria. In futuro lo abbandonerò scrivendo
nuove storie, ma mi perdonerà: è buono d’animo.
Quale invece il tuo
rapporto con Bernard?
Bernard è il migliore amico di Dario, nonostante abbia una
personalità agli antipodi della sua. Si sono conosciuti ad una festa Erasmus, prendendosi
a cazzotti per colpa di una donna: un evento che li aiuterà a diventare uomini
con più consapevolezze, mettendo fuori pericolo il sentimento puro
dell’amicizia. Nel romanzo Bernard si esprime in maniera gergale, tende a
creare atmosfere di confidenza e rimprovera Dario per l’eccessiva timidezza,
che da fuori non sembra temperamento ma paura. Da parte mia è stato emozionante
creare un profilo con peculiarità rozze ma allo stesso tempo affettuose e
protettive. Sono soddisfatto per il modo in cui ho inserito una buona
sensibilità dentro un involucro di ironia e sfrontatezza. Sono esercizi di
stile davvero utili.
Quello del poeta in
Italia è un mestiere morto da un pezzo. È una constatazione di Dario che ci
induce a riflettere su una realtà incontestabile. Nel nostro paese, la poesia
sembra non avere più sbocchi, gli editori sono sempre più restii a pubblicarla,
i lettori sempre meno propensi a leggerla. Quale la ragione dal tuo punto di
vista?
Molti ritengono che il problema sia il numero eccessivo di
poeti emergenti. Sostengono, quindi, che la poesia sia un linguaggio ormai inflazionato.
Io non sono d’accordo, poiché potrebbero esistere dieci poeti come centomila e
la mia curiosità di lettore non subirebbe trasformazioni. Secondo me è qui che
si nasconde la risposta: manca la curiosità, la voglia di esplorare.
L’intimismo non è più un elemento di interesse collettivo, e questo porta anche
alla nascita di minuscole nicchie (sempre più chiuse) che di certo non aiutano
l’emancipazione della poesia contemporanea. Nel romanzo infatti compare Tullio
Serbelloni, giornalista di una piccola rivista di poesia. Ha la erre moscia e
dice cose incomprensibili sottolineando che, comunque sia, i versi di Dario
“non hanno nulla a che vedeve con la gvande tvadizione italiana”. Mi sono divertito
a prendere un po’ in giro l’aspetto autoreferenziale degli intellettuali, poiché
credo sia un’ulteriore causa della paralisi poetica. Per quanto riguarda gli
editori restii, invece, chiamo in causa la matematica: niente vendite, allora
niente edizioni. Non hanno sicuramente tutti i torti, anche se potrebbero
lavorare molto meglio sulla pubblicità.
Uno spazio ideale in
cui diverse forme artistiche, come pittura e poesia, possano incontrarsi e, in
qualche modo, contaminarsi. Questa è l’idea vincente perseguita da Strandberg
nel romanzo. E nella realtà? Potrebbe essere una buona strada da seguire per dare
nuova linfa all’arte e risvegliare l’interesse del pubblico?
Potrò risponderti con più esattezza tra qualche mese, perché
in questo periodo sto contattando pittori e illustratori per ripetere dal vivo
l’esperienza di Dario. Ho intenzione di scrivere poesie davanti alle immagini,
per poi organizzare esposizioni nei punti d’interesse artistico a Torino.
Tuttavia credo che risvegliare l’interesse del grande pubblico sia una missione
troppo difficile. Oggi la società ci bombarda di messaggi che stimolano al
consumismo, ad evoluzioni che non hanno nulla di spirituale, all’inserimento in
un contesto sociale improntato sull’immagine. Seicento euro per uno smartphone,
che diventerà vecchio in pochi mesi lasciando solamente un’illusione di possesso, equivalgono a circa sessanta libri nuovi: alzi
la mano chi ha il coraggio. Alzi la mano chi riesce ad innamorarsi di una
poesia, che è immune all’ipnotica frenesia che la società ci propina e, fosse
poco, ci lascia sognare senza l’aiuto di un display.
Dalle pagine del tuo
libro emerge anche un grande amore per la Svezia. Quale il tuo
legame con questa terra e cosa rappresenta per te?
Il mio amore per il Nord è nato quando ero ragazzino. Mi
perdevo davanti alle illustrazioni dei fiordi norvegesi, dei paesaggi
caratterizzati dall’aurora boreale o dai lunghi crepuscoli. In più ho sempre
preferito il freddo al caldo. Crescendo la passione è maturata, unendosi a
quella letteraria: la mia produzione poetica cresce a dismisura quando fuori
dalla finestra ci sono nebbia, neve e tramonti pomeridiani. Inoltre adoro i
luoghi selvaggi e incontaminati, amo le poesie di Tomas Tranströmer, apprezzo
il contributo degli svedesi alla musica Rock Progressive (il mio genere
preferito). A febbraio scorso, spinto da desideri migratori, ho iniziato a
prendere lezioni di svedese. Non a caso tra i ringraziamenti del romanzo
compare Elisabeth Leosson, la mia insegnante, per tutte le informazioni che mi
ha dato.
Con Il pittore di parole hai vinto il
concorso Faraexcelsior 2012. Cosa ha significato per te questo riconoscimento?
Vincere un concorso è sicuramente un’esperienza
meravigliosa, una spinta motivazionale a non interrompere la propria produzione.
I mezzi di un autore esordiente sono pochi, è necessario partire da questa
tautologia per capire quanto possa essere preziosa una vittoria. Mi sono
piaciuti moltissimo i commenti della giuria: opinioni sincere, articolate,
estranee a qualsiasi parametro di vendibilità. Il mondo della letteratura ha
urgentemente bisogno di atteggiamenti di questo tipo. Inoltre l’incontro con
Alessandro Ramberti, il mio editore, si
è rivelato davvero costruttivo. Ritengo sia un professionista appassionato e
per nulla venale, mi piace il rapporto che ha con il suo mestiere.
Il pittore di parole non rappresenta la tua prima esperienza
editoriale. Precedentemente hai pubblicato una raccolta di poesie e un romanzo,
La scatola nera, tradotto anche in
lingua francese. Cosa puoi dirci a proposito della tua esperienza nel mondo
editoriale? E del tuo approccio con il mercato estero?
La scatola nera in
italiano non è più disponibile a causa della pessima professionalità
editoriale. In pratica la casa editrice ha smesso di stampare le copie molto
prima di raggiungere il numero indicato sul contratto (la tendenza di molti
editori piccoli, purtroppo, è quella di vendere le copie solamente all’autore).
L’esperienza negativa, tuttavia, mi ha spinto a pubblicare con Lulu una raccolta
di poesie, Il ronzio degli insonni.
Ero desideroso di sperimentare l’autopubblicazione e sono molto contento di
averlo fatto. L’edizione francese del romanzo, invece, è uscita per Abelbooks
in formato ebook. La promozione è molto difficile, poiché non conosco il
francese. Ho diffuso il booktrailer in un circuito di contatti mirati, dagli
studenti in Erasmus ai viaggiatori assidui. Spero di ricevere presto buone
notizie da parte della casa editrice.
Quale il tuo rapporto
con la lettura? Ci sono degli autori a cui ti ispiri o che, in qualche misura,
hanno influenzato la tua scrittura?
Amo quegli autori che, oltre a farsi apprezzare per le proprie
opere, mi trasmettono un’enorme voglia di scrivere. In narrativa ci sono tre
nomi che oggi hanno questo potere, e sono (in ordine alfabetico) Baricco, De
Luca e Tabucchi. In poesia Hikmet, Merini, Prévert e Tranströmer. Sette artisti
che custodiscono una delle mie maggiori ambizioni: emozionare, sì, ma suscitare
anche la voglia di sperimentare lo stesso linguaggio. Sarebbe una grande soddisfazione
sentirmi dire “ho finito di leggere il tuo romanzo e poi mi sono messo/a a
scrivere”. Ma certe possibilità aumentano solo con l’incremento delle vendite,
questo va detto. Finchè il romanzo resta in libreria si può condividere ben
poco…
Da inguaribile introverso ho sempre detestato le
presentazioni dei libri. Così, nella primavera del 2009, ho ricercato un
diversivo che mi permettesse di promuovere le mie opere. A Torino in quel
periodo giravano parecchi reading,
per cui ho preso la palla al balzo. Ho contattato due attori (Alan Mauro Vai e
Vincenzo Di Federico) con cui ho confezionato quasi un’ora di spettacolo con
letture su melodie di basso solo. Una cosa assolutamente nuova. Va detto che
non avevo fatto i conti con una considerazione fondamentale: il mio reading non
era comico ed ignorava completamente le regole dell’intrattenimento. Molti
trovavano lo spettacolo poco fruibile o addirittura pesante.
In quale modo hai
assimilato questi riscontri?
All’inizio male, molto male. Artisticamente sono entrato in
un vortice depressivo che mi ha allontanato dalla scena per quasi due anni, non
credevo più nel mio linguaggio letterario e musicale. Poi fortunatamente ne
sono uscito. Adesso voglio una vita artistica ricca di sorrisi, belle
esperienze, ottimi incontri, e soprattutto… kanelbulle.
Voglio un mondo ricoperto di dolcini svedesi alla cannella.
Quanto è importante
inseguire i propri sogni per sentirsi vivi? Quali i tuoi sogni nel cassetto e i
tuoi progetti per il prossimo futuro?
Personalmente non riesco ad immaginare una vita senza sogni
e senza attese. Ciò che ho imparato in quasi dieci anni di attività artistica è
che i sogni non vanno difesi dalla sfortuna, ma dall’idealizzazione. Per farlo
è necessario dimenticare le stronzate della televisione, le storie contraffatte
dei nostri miti adolescenziali, le chimere che chiunque è disposto a venderci:
siamo solo noi a poter scrivere la nostra narrazione. Nel romanzo vengono
citati appositamente Nick Drake, Van Gogh e Stieg Larrson: tre artisti
completamente diversi, vissuti in epoche diverse, che hanno in comune il fatto
di essere stati apprezzati solo da morti. C’è da ringraziare che, nonostante
l’assenza di popolarità, non abbiano mai abbandonato il desiderio di creare,
altrimenti la nostra cultura sarebbe priva di esperimenti unici. Questa è la
mentalità che mi accompagna ogni giorno: niente deve trascinare il mio operato
in una dimensione di sfiducia, neanche quando una trilogia erotica di poca cosa
scavalca le classifiche (ed è solo un esempio, poiché per demotivarsi ogni
ingiustizia è buona). Il mio sogno nel cassetto, a questo proposito, è
difendere tutti i miei sogni senza dimenticare che la speranza rende schiavi.
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