venerdì 2 novembre 2012

Su Fedro e la Giustizia di Teresa Armenti


Associazione Culturale Lucaniart, 2012
recensione di Vincenzo D'Alessio
Vede la luce nei Quaderni dell’Associazione Culturale Lucaniart Onlus, guidata dalla poeta Maria PinaCiancio, il lavoro poetico di Teresa Armenti dal titolo Fedro e la Giustizia – dodici favole rivisitate in dialetto lucano, che confronta il ruolo della Giustizia nel periodo augusteo e ai giorni nostri.
La scrittrice, poeta e storica, riprende uno dei suoi lavori giovanili proponendolo, però, nel dialetto lucano e precisamente quello del luogo dove vive: Castelsaraceno in provincia di Potenza. Il lettore verrà sottoposto ad una ricerca attenta delle parole che nel dialetto lucano suonano in modo molto diverso dall’italiano corrente. In questa ricerca troverà tutta l’antichità delle tradizioni, la purezza della lingua ancora parlata correntemente ai giorni nostri dai castellani, in più armonizzarsi con la musicalità che il verso assume come un’antica ballata.
Vorrei richiamare Albino Pierro e il suo dialetto tursitano per lasciar comprendere al lettore l’importanza della conservazione dell’idioma di quei piccoli centri, quasi isolati, di cui la nostra bella Italia si compone. Vale per i dialetti albofoni e greci, e per tutte quelle realtà minori che arricchiscono il variegato mondo delle tradizioni che  da secoli caratterizzano le parlate “impure” che hanno resistito alle invasioni umane e al corso degli eventi.
Teresa Armenti tenta questa strada, affiancando il nome dell’illustre favolista Fedro, vissuto duemila anni da oggi, alla sua amata realtà castellana. I temi trattati ,i n versi, però sono attualissimi, anzi, oserei dire quanto mai utili. Infatti , agli albori di questo ventunesimo secolo, stiamo vivendo nella nostra penisola gli stessi sommovimenti sociali che attraversano gli altri continenti: ricerca di pace, di giustizia sociale, di ritorno al rispetto dell’uomo in quanto essere umano. In poche parole quello che Fedro insegnava ai suoi contemporanei e insegna anche a noi attraverso il lavoro della Nostra: “Generalmente, coloro che ingannano, scontano il danno che infliggono agli innocenti” (pag. 5).
Non c’è migliore lettura di questa, per placare il dolore che ci giunge dalle società ancora sottomesse ai tiranni; ai luoghi dove i tiranni si vestono di democrazia per ridurre una intera nazione alla povertà; ai luoghi dove le sofferenze della fame e della sete vestono i panni delle multinazionali affamate di energie. Quante “volpi” dobbiamo contare ancora oggi, o quanti lupi, a danno di pochi animali coraggiosi? Fedro lasciava parlare gli animali perché più vicini all’uomo e umanizzandoli lasciava capire quanto sia vicina la sorte che tocca ad entrambi. Anche l’aquila, regina dei cieli e con pochissimi nemici, deve piegarsi alla potenza del fuoco pur di vedere sopravvivere i propri aquilotti: ‘Nu iurno, ‘a reggina ‘i l’avuceddi  stìa vulenno /  ra ‘na ponda a l’ata ru celo, / agguacchiau cert’ vurpicedde, ca erano ssut’ ra forchia / e li purtao addov’ a li figli soi, p’ lli fa mangià. / (omissis) L’aquila, quannu vedd’ c ara vascio s’avvambava, / p’ salivà li figli soi / subbito fec’ scenn’ li vurpacchiedd’, / ca currero ‘mbrazza ‘a mamma.” (pag. 5).
 Parole dialettali come “ cùcumu ‘a creta” , nella favola della volpe e della cicogna ci riportano alle tradizioni contadine del recipiente d’argilla, dal collo stretto, che serviva a contenere l’acqua da bere durante le lunghe e assolate giornate di lavoro nei campi. Oppure il luogo comune della “pignata chiena r’oro” ricorrente in miglia di favole e in tutti i dialetti peninsulari. Il termine “crai” per indicare il giorno come quota temporale.
Fedro sarebbe  oltremodo contento di sentirsi raccontato   in terre così lontane dalla grandissima città di Roma. La comunità di Castelsaraceno, grazie alla sensibilità della poeta Teresa Armenti, ha condiviso nella propria lingua la grande saggezza dell’umanità in cerca della Giustizia, quasi mai raggiunta.

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