Associazione Culturale Lucaniart, 2012
recensione di Vincenzo D'Alessio
Vede la luce nei Quaderni
dell’Associazione Culturale Lucaniart Onlus, guidata dalla poeta Maria PinaCiancio, il lavoro poetico di Teresa Armenti dal titolo Fedro e la Giustizia – dodici favole rivisitate in dialetto lucano, che confronta il ruolo della Giustizia nel periodo augusteo
e ai giorni nostri.
La scrittrice, poeta e storica, riprende
uno dei suoi lavori giovanili proponendolo, però, nel dialetto lucano e
precisamente quello del luogo dove vive: Castelsaraceno in provincia di
Potenza. Il lettore verrà sottoposto ad una ricerca attenta delle parole che
nel dialetto lucano suonano in modo molto diverso dall’italiano corrente. In
questa ricerca troverà tutta l’antichità delle tradizioni, la purezza della
lingua ancora parlata correntemente ai giorni nostri dai castellani, in più
armonizzarsi con la musicalità che il verso assume come un’antica ballata.
Vorrei richiamare Albino Pierro e il
suo dialetto tursitano per lasciar comprendere al lettore l’importanza della
conservazione dell’idioma di quei piccoli centri, quasi isolati, di cui la
nostra bella Italia si compone. Vale per i dialetti albofoni e greci, e per
tutte quelle realtà minori che arricchiscono il variegato mondo delle
tradizioni che da secoli
caratterizzano le parlate “impure” che hanno resistito alle invasioni umane e
al corso degli eventi.
Teresa Armenti tenta questa strada,
affiancando il nome dell’illustre favolista Fedro, vissuto duemila anni da
oggi, alla sua amata realtà castellana. I temi trattati ,i n versi, però sono
attualissimi, anzi, oserei dire quanto mai utili. Infatti , agli albori di questo
ventunesimo secolo, stiamo vivendo nella nostra penisola gli stessi
sommovimenti sociali che attraversano gli altri continenti: ricerca di pace, di
giustizia sociale, di ritorno al rispetto dell’uomo in quanto essere umano. In
poche parole quello che Fedro insegnava ai suoi contemporanei e insegna anche a
noi attraverso il lavoro della Nostra: “Generalmente, coloro che ingannano,
scontano il danno che infliggono agli innocenti” (pag. 5).
Non c’è migliore lettura di questa, per
placare il dolore che ci giunge dalle società ancora sottomesse ai tiranni; ai
luoghi dove i tiranni si vestono di democrazia per ridurre una intera nazione
alla povertà; ai luoghi dove le sofferenze della fame e della sete vestono i
panni delle multinazionali affamate di energie. Quante “volpi” dobbiamo contare
ancora oggi, o quanti lupi, a danno di pochi animali coraggiosi? Fedro lasciava
parlare gli animali perché più vicini all’uomo e umanizzandoli lasciava capire
quanto sia vicina la sorte che tocca ad entrambi. Anche l’aquila, regina dei
cieli e con pochissimi nemici, deve piegarsi alla potenza del fuoco pur di
vedere sopravvivere i propri aquilotti:
‘Nu iurno, ‘a reggina ‘i l’avuceddi
stìa vulenno / ra ‘na ponda
a l’ata ru celo, / agguacchiau cert’ vurpicedde, ca erano ssut’ ra forchia / e
li purtao addov’ a li figli soi, p’ lli fa mangià. / (omissis) L’aquila, quannu
vedd’ c ara vascio s’avvambava, / p’ salivà li figli soi / subbito fec’ scenn’
li vurpacchiedd’, / ca currero ‘mbrazza ‘a mamma.” (pag. 5).
Parole dialettali come “ cùcumu ‘a
creta” , nella favola della volpe e della cicogna ci riportano alle tradizioni
contadine del recipiente d’argilla, dal collo stretto, che serviva a contenere
l’acqua da bere durante le lunghe e assolate giornate di lavoro nei campi.
Oppure il luogo comune della “pignata chiena r’oro” ricorrente in miglia di
favole e in tutti i dialetti peninsulari. Il termine “crai” per indicare il
giorno come quota temporale.
Fedro sarebbe oltremodo contento di sentirsi raccontato in terre così lontane dalla
grandissima città di Roma. La comunità di Castelsaraceno, grazie alla
sensibilità della poeta Teresa Armenti, ha condiviso nella propria lingua la
grande saggezza dell’umanità in cerca della Giustizia, quasi mai raggiunta.
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