“Scusi, posso chiederle una cosa?”
L’uomo, un tipo tra i cinquanta e i sessant’anni, ha
il tono lamentoso e implorante dei mendicanti. È seduto al posto di guida d’una
vecchia macchina parcheggiata accanto al mio stesso marciapiede. La sua domanda
esce dal finestrino abbassato a metà.
“Sì, mi dica,” rispondo esitante.
“Secondo lei, i miracoli accadono?”
Guardo l’uomo attraverso i miei occhiali da sole. Noto
una carrozzina ortopedica ripiegata sul sedile posteriore. Sono sudato e lo
zainetto che porto mi accalda ancor di più. Mezzogiorno d’un agosto bollente.
Torno a piedi da un autobus che mi ha lasciato nei pressi della stazione
ferroviaria.
“Sì, i miracoli accadono,” dico.
“Posso darle questo?”
“Sì.”
Mi ritrovo in mano un numero della rivista La Torre di Guardia intitolato “I
miracoli accadono veramente?”. Do un’occhiata alle illustrazioni infantili.
Ringrazio.
“Buona giornata,” dice l’uomo.
“Buona giornata anche a lei,” rispondo e mi allontano
in cerca d’un lato di strada all’ombra. Giungo a casa.
Esattamente cento anni fa nasceva Elsa Morante.
Sull’autobus affollato, dove ho viaggiato puntellandomi in equilibrio nel
corridoio per mancanza di posti a sedere, sono riuscito a leggere alcune sue
pagine dal racconto “La nonna”.
Rimasta vedova a
quarant’anni, Elena si accorse di essere viva soltanto a mezzo e di trovarsi in
un vuoto spietato e senza rimedio.
Il giorno prima
avevo trovato tra i miei vecchi libri un romanzo di fantascienza inglese, una
distopia degli anni Cinquanta, comprato quand’ero un ragazzino, nel 1970.
Ricordo il piccolo paese sul mare, i pochi gradini che dalla strada quasi
deserta portavano a un marciapiede rialzato, una striscia vivace di sole
autunnale, il giornalaio, e il volumetto adesso ingiallito di Edmund Cooper, Uomini e androidi, che spuntava
affascinante dall’arruffio delle riviste multicolori.
Pioggia e sole
nella valle dello Yorkshire. Trote nei torrenti estivi. Corse in slitta sulle
candide colline in dicembre…
I miracoli accadono continuamente, penso, tornando con
la mente all’incontro del mezzodì.
Trascorro la giornata tra una orribile città di
pianura e una tranquilla spiaggia tirrenica. Il giorno dopo vado in un paese di
costa, meraviglioso e pieno di turisti.
Entro in una libreria che già conosco.
Parlo con la libraia, una donna elegante d’una certa
età, di Bufalino e di Consolo, di Elsa Morante, di Bonaviri e della casa
editrice Sellerio, d’una collana di classici greci e latini, della poesia che
non si vende, del prezzo dei libri e di Patricia Highsmith ingiustamente
relegata nella letteratura di genere.
Saluto e ringrazio. Ci lasciamo con un garbo d’altri
tempi, quasi in un inchino. Poi sull’ingresso, al limite della lama affilata di
luce solare, inforco gli occhiali scuri e porto sul capo il mio cappello
bianco.
All’ora di pranzo trovo tutta per me, all’ombra, una
panchina in legno e ferro battuto a ridosso d’una balaustra che mi divide da
uno strapiombo sul mare. Mi è capitato uno degli infiniti miracoli che accadono
ovunque, penso senza originalità, deponendo nello spazio del mio posto zaino,
cappello e occhiali da sole.
Una donna mi chiede se può sedersi accanto a me.
Rispondo di sì. Affanna un po’ per i tanti gradini percorsi in salita. Dopo
pochi minuti però il suo uomo, che ha trovato anch’egli posto sulla panchina,
le chiede:
“Andiamo, amore?”
“Sì, sì. Ma si stava proprio bene qui. È bellissimo.”
La donna mi dice buongiorno guardandomi negli occhi
mentre si china su di me alzandosi in piedi.
Sistemo il mio quaderno verde e la mia maglietta
celeste come un guanciale, sul lato di ferro battuto del mio sedile fortunato.
Qualcuno parla al telefonino, e lo faccio anch’io, quando giunge la voce della
mia amata. Musichette svolazzano nell’aria aperta. Abbandono il capo sul duro cuscino.
Vago tra dormiveglia e sonno.
Passa un aereo nel cielo.
Mi sveglio. Le due e venticinque. Il mare giù è
diventato verde-azzurro come una pietra preziosa in sogno. I miracoli hanno
diversi colori.
Due biciclette sono poggiate al muro, due innamorati si
abbracciano accanto alla ringhiera sullo strapiombo. Dopo un po’ mi alzo,
lascio la panchina che mi ha accolto per tre ore, ringrazio questa creatura di
legno e ferro, e poi.
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