Certificato dei vincitori
Fara
Editore e i giurati
del concorso Insanamente2012
Angelo Chiaretti, Ardea Montebelli, Caterina
Camporesi,
Claudio Roncarati e Guido Passini
per la sezione Poesia –
Alessandra Pederzoli, Alessandro Chiarini, Alex
Celli,
Giovanni Turra Zan e Francesco Gaggi
per la sezione Racconto –
in collaborazione con
Classifica sez. B – Racconto
opere, giudizi e notizie sugli
autori
per la sez. A v. farapoesia
Primo
classificato con medaglia del Presidente della Repubblica
Di notte, un’infermiera di Sofia Urbinati (Rimini)
È notte nell’Ospedale da campo di Scutari, e quando tutti i medici già riposano, ancora un’infermiera si aggira tra i lettini controllando tutto. I soldati feriti al suo passare ringraziano e salutano la signora della lampada, l’angelo con la lanterna in mano. I pazienti la vedono così, lei stessa si sente così, e questo la ripaga dei sacrifici. È il 1854, e lei si chiama Florence Nightingale, passata alla storia come figura modello per le infermiere.
Ora immaginiamo un’altra scena. È ancora notte, ma la data e il luogo sono cambiati e, anche se la sensazione di chi entra in turno non è esattamente quella di andare in guerra, a volte sembra veramente di essere in un rodeo, in corsa su un toro con una gamba su e una giù…
È la corsia di una Medicina dei giorni nostri, che accoglie pazienti in gran parte con neoplasie dell’apparato biliopancreatico, insufficienze cardiorespiratorie, cirrosi epatica.
Anche qui l’infermiera si aggira silenziosa controllando i pazienti, ma loro non la ringraziano: ce n’è uno che impreca perché vuole fumare a letto, un altro che si agita perché non vuole rimanere ricoverato in una stanza con altri 4 degenti. L’infermiera si fa spazio tra le sedie delle badanti che non vorrebbero essere disturbate, mentre una parente si lamenta perché anche di notte si viene importunati dalle infermiere che vogliono cambiare le posture e i pannoloni.
L’infermiera sospira… I pazienti non sono più così pazienti, non la vedono più come un angelo (lei non si sente un angelo, anzi si chiede se questa sia ancora la professione che aveva scelto). Si chiede se prima o poi qualcuno avrà il coraggio di dirglielo al paziente cronico (categoria sempre più in aumento), pluripatologico, fragile, con un debole sostegno parentale… che le risorse, vincolo ineludibile, sono ormai finite. Glielo dovranno dire i mass media? Già stanno tempestando i cittadini di informazioni troppo spesso sbagliate, esasperate, così rendondoli impazienti, sfiduciati e prevenuti ancora prima di essere arrivati in ospedale.
Cosa dicevano i relatori di quel congresso? Ah sì, che non c’è più tempo da perdere: bisogna puntare sull’appropriatezza, per garantire la scelta migliore nell’utilizzo delle risorse, nel rispetto dei bisogni che vanno diversificati per dare risposte personalizzate al paziente.
L’infermiera pensa alla ragazzina ricoverata per malnutrizione in anoressia… di certo avrebbe anche altri bisogni rispetto alla infusione di sacche nutrizionali, ma sa già che neanche stasera riuscirà a fermarsi a parlare un po’ con lei, perché l’hanno avvisata dal Pronto Soccorso che devono inviare altri due ricoveri urgenti, instabili. Eppure si parla tanto di assistenza personalizzata, di relazione d’aiuto… Come si può instaurare un rapporto di fiducia, una comunicazione empatica, se non c’è neppure il tempo di fermarsi ad ascoltare e a guardarsi negli occhi?
Pensa anche al paziente di 39 anni, ricoverato per un tentativo di disintossicazione in etilismo acuto. Sa che la dipendenza da alcol è un disturbo che può avere molte cause, biologiche, psichiche o sociali. Dall’anamnesi raccolta dal medico è emersa una storia familiare legata al potus, che ha portato ad episodi violenti per cui il paziente è stato detenuto in diverse occasioni. La disintossicazione può essere molto difficile, sia dal punto di vista fisico che psichico, e per essere efficace è necessario che il paziente sia collaborante. Questo paziente purtroppo non lo è. Si è già allontanato dal reparto varie volte, e ora rischia anche di cadere, perché non vuole restare a letto nonostante abbia in corso un’infusione di Benzodiazepine. Un familiare gli è vicino, ma non sempre è sufficiente a calmarlo.
L’infermiera è preoccupata, è consapevole che anche a quel paziente servirebbe un aiuto ulteriore, diverso dalla semplice infusione di Benzodiazepine. Vive la frustrazione tra ciò che potrebbe fare e ciò che invece riesce a fare. D’altra parte deve garantire il minimo possibile a tutti, e con 22 pazienti da assistere c’è veramente poco spazio per la personalizzazione dell’assistenza. Chissà se Florence Nightingale sarebbe ugualmente orgogliosa di lei…
Domattina, appena arriverà in turno la sua coordinatrice, andrà come sempre a sfogarsi con lei, e lei cercherà di confortarla facendole capire che ovunque le risorse scarseggiano, che non ci sono posti di lavoro migliori, ma “il meglio lo facciamo noi…”, che queste sono le nuove sfide: diffondere una cultura dell’innovazione invece dell’appiattimento, della flessibilità invece del lamento, della valorizzazione delle risorse piuttosto che la stanca routine. Le ricorderà che, in un presente e in un futuro non facili, non servirà a niente lasciarsi andare alla frustrazione, ma ognuno dovrà trovare in sé le proprie motivazioni ad andare avanti, crescere. Che insieme si può riuscire a far meglio, come quelli dell’Apollo 13, che sono riusciti a tornare a casa trasformando ingegnosamente, con l’aiuto dei tecnici della Base Terra, l’attacco quadrato della batteria per l’aspirazione dell’anidride carbonica in un attacco tondo, perché il buco in cui dovevano inserirla era appunto circolare.
E così, l’infermiera uscirà di corsa dal turno per arrivare in tempo a dare il cambio al marito, e ricominciare una nuova giornata accompagnando i bambini a scuola, con questa raccomandazione in testa: trasformare il pensiero negativo in pensiero creativo, la frustrazione in carica vitale, il vittimismo in proposte alternative. Sì, ma intanto fino alla sera non riuscirà ad andare a dormire…
Si consola inzuppando velocemente la brioche nel cappuccino, mentre il profumo del latte caldo le fa tornare in mente quando, da piccola, ancora mezza addormentata, faceva colazione prima di andare a scuola, mentre la mamma le intrecciava i capelli e le chiedeva: “Allora tesoro, cosa ti piacerebbe fare da grande?”
Ora immaginiamo un’altra scena. È ancora notte, ma la data e il luogo sono cambiati e, anche se la sensazione di chi entra in turno non è esattamente quella di andare in guerra, a volte sembra veramente di essere in un rodeo, in corsa su un toro con una gamba su e una giù…
È la corsia di una Medicina dei giorni nostri, che accoglie pazienti in gran parte con neoplasie dell’apparato biliopancreatico, insufficienze cardiorespiratorie, cirrosi epatica.
Anche qui l’infermiera si aggira silenziosa controllando i pazienti, ma loro non la ringraziano: ce n’è uno che impreca perché vuole fumare a letto, un altro che si agita perché non vuole rimanere ricoverato in una stanza con altri 4 degenti. L’infermiera si fa spazio tra le sedie delle badanti che non vorrebbero essere disturbate, mentre una parente si lamenta perché anche di notte si viene importunati dalle infermiere che vogliono cambiare le posture e i pannoloni.
L’infermiera sospira… I pazienti non sono più così pazienti, non la vedono più come un angelo (lei non si sente un angelo, anzi si chiede se questa sia ancora la professione che aveva scelto). Si chiede se prima o poi qualcuno avrà il coraggio di dirglielo al paziente cronico (categoria sempre più in aumento), pluripatologico, fragile, con un debole sostegno parentale… che le risorse, vincolo ineludibile, sono ormai finite. Glielo dovranno dire i mass media? Già stanno tempestando i cittadini di informazioni troppo spesso sbagliate, esasperate, così rendondoli impazienti, sfiduciati e prevenuti ancora prima di essere arrivati in ospedale.
Cosa dicevano i relatori di quel congresso? Ah sì, che non c’è più tempo da perdere: bisogna puntare sull’appropriatezza, per garantire la scelta migliore nell’utilizzo delle risorse, nel rispetto dei bisogni che vanno diversificati per dare risposte personalizzate al paziente.
L’infermiera pensa alla ragazzina ricoverata per malnutrizione in anoressia… di certo avrebbe anche altri bisogni rispetto alla infusione di sacche nutrizionali, ma sa già che neanche stasera riuscirà a fermarsi a parlare un po’ con lei, perché l’hanno avvisata dal Pronto Soccorso che devono inviare altri due ricoveri urgenti, instabili. Eppure si parla tanto di assistenza personalizzata, di relazione d’aiuto… Come si può instaurare un rapporto di fiducia, una comunicazione empatica, se non c’è neppure il tempo di fermarsi ad ascoltare e a guardarsi negli occhi?
Pensa anche al paziente di 39 anni, ricoverato per un tentativo di disintossicazione in etilismo acuto. Sa che la dipendenza da alcol è un disturbo che può avere molte cause, biologiche, psichiche o sociali. Dall’anamnesi raccolta dal medico è emersa una storia familiare legata al potus, che ha portato ad episodi violenti per cui il paziente è stato detenuto in diverse occasioni. La disintossicazione può essere molto difficile, sia dal punto di vista fisico che psichico, e per essere efficace è necessario che il paziente sia collaborante. Questo paziente purtroppo non lo è. Si è già allontanato dal reparto varie volte, e ora rischia anche di cadere, perché non vuole restare a letto nonostante abbia in corso un’infusione di Benzodiazepine. Un familiare gli è vicino, ma non sempre è sufficiente a calmarlo.
L’infermiera è preoccupata, è consapevole che anche a quel paziente servirebbe un aiuto ulteriore, diverso dalla semplice infusione di Benzodiazepine. Vive la frustrazione tra ciò che potrebbe fare e ciò che invece riesce a fare. D’altra parte deve garantire il minimo possibile a tutti, e con 22 pazienti da assistere c’è veramente poco spazio per la personalizzazione dell’assistenza. Chissà se Florence Nightingale sarebbe ugualmente orgogliosa di lei…
Domattina, appena arriverà in turno la sua coordinatrice, andrà come sempre a sfogarsi con lei, e lei cercherà di confortarla facendole capire che ovunque le risorse scarseggiano, che non ci sono posti di lavoro migliori, ma “il meglio lo facciamo noi…”, che queste sono le nuove sfide: diffondere una cultura dell’innovazione invece dell’appiattimento, della flessibilità invece del lamento, della valorizzazione delle risorse piuttosto che la stanca routine. Le ricorderà che, in un presente e in un futuro non facili, non servirà a niente lasciarsi andare alla frustrazione, ma ognuno dovrà trovare in sé le proprie motivazioni ad andare avanti, crescere. Che insieme si può riuscire a far meglio, come quelli dell’Apollo 13, che sono riusciti a tornare a casa trasformando ingegnosamente, con l’aiuto dei tecnici della Base Terra, l’attacco quadrato della batteria per l’aspirazione dell’anidride carbonica in un attacco tondo, perché il buco in cui dovevano inserirla era appunto circolare.
E così, l’infermiera uscirà di corsa dal turno per arrivare in tempo a dare il cambio al marito, e ricominciare una nuova giornata accompagnando i bambini a scuola, con questa raccomandazione in testa: trasformare il pensiero negativo in pensiero creativo, la frustrazione in carica vitale, il vittimismo in proposte alternative. Sì, ma intanto fino alla sera non riuscirà ad andare a dormire…
Si consola inzuppando velocemente la brioche nel cappuccino, mentre il profumo del latte caldo le fa tornare in mente quando, da piccola, ancora mezza addormentata, faceva colazione prima di andare a scuola, mentre la mamma le intrecciava i capelli e le chiedeva: “Allora tesoro, cosa ti piacerebbe fare da grande?”
Il racconto si distingue per il tentativo di mettere assieme diversi modi
di vivere la professione d'aiuto in contesti storici differenti e nelle mutate
condizioni sociali e politiche. Ci porta avanti e indietro nel tempo e ci
fa porre domande serie su come siamo diventati nel prenderci cura di altri,
senza per questo scadere nel “si stava meglio quando si stava peggio”.
Scrittura connotata da eccessivo uso di termini per tecnici, ma nonostante ciò
scorrevole ed efficace. E con una capacità di mantenere una buona tensione
sintattica. (Giovanni Turra Zan)
Narrazione chiara e lineare, in cui emerge con realismo tutta la frustrazione
che si annida in una professione difficile, spesso con facilità criticata, come
quella dell'infermiera. Incornicia il racconto un bel confronto fra l'ideale:
la figura della crocerossina Nightingale evocata all'inizio, la professione
sognata da bambini, e il reale, molto meno romantico e carico di problematiche.
(Alessandro Chiarini)
Sofia Urbinati, nata a Rimini nel 1961, ha maturato un’esperienza trentennale nel campo dell’Assistenza Infermieristica, vivendone con passione e creatività i cambiamenti culturali e legislativi. Attualmente è Coordinatrice Infermieristica della U.O. Medicina II AUSL Rimini e Referente Regionale di A.N.I.M.O. Particolarmente interessata alla Medicina Narrativa, collabora al progetto dell’AUSL Rimini “Le storie che formano”. I suoi più grandi sostenitori sono il marito Luca e le figlie Alice e Ilaria, che l’accompagnano anche nel suo hobby preferito, la caccia ai misteri del Medioevo. Un sogno nel cassetto: scrivere un libro su come prendersi cura di chi cura.
Secondo
classificato ex aequo
Un’inspiegabile infermità di Oreste Bonvicini (Casal Cermelli, AL)
La diagnosi non è stata precoce. Da settimane si aggira come un fantasma nei corridoi degli ospedali, delle cliniche, degli studi medici specializzati, fino a bussare con ansia alle porte di guaritori e cartomanti, cercando un segno tangibile di quanto sta accadendo, ma nulla sembra emergere. Gli esami clinici sono perfetti, i responsi medici sconsolanti. Nulla è tanto inspiegabile quanto questa cecità progressiva che lo costringe al buio intorno e dentro. Vive un lungo crepuscolo a cui sopravverrà la notte; mai più l’alba a ridare forma agli oggetti. Solo rumori e le sensazioni potranno nascere in lui dall’ascolto, lui che ha amato il silenzio e godeva dello sguardo perdentesi tra gli aspetti della vita quotidiana, pronto a coglierne le sfumature, ma in silenzio, in silenzio.
Hanno spiegato che la retina è consistente come un foglio di quella carta sottilissima che un tempo si utilizzava per le seconde copie dei documenti. E di strati composta, ben tre differenti, tra cellule sensoriali, dipolari, ganglari. Solo nel primo esistono milioni di coni e bastoncelli. Una magnificenza della natura, un tesoro di inestimabile valore, come la vita intera. È possibile vivere nella cecità dopo aver conosciuto il colore e le sfumature del cielo o l’espressione dolce del volto di una donna?
Una cecità nervosa ha infine stabilito un medico, tra esami, cartelle, referti, ipotesi, studi universitari, comparazioni con casi riconducibili alla stessa patologia. Tale diagnosi può spiegarsi con la sua inguaribile necessità di rendere visibile tutto quanto esiste nella sfera delle sensazioni?
– Talvolta le spiegazioni sono più semplici di tanti complicati esami – afferma il medico. – Non c’è nulla che possa affliggerti. Non hai dolore, nulla ti preclude un’ipotetica guarigione. Miracolosa? Peggio se la patologia derivasse da una diagnosi precisa. Domani, o fra qualche tempo tutto forse tornerà come prima – conclude accompagnandolo verso l’uscita.
Ora cammina sfiorando con la mano i muri del palazzo e poi, nel ronzio dell’ascensore, sale al settimo piano. La porta si apre su di un corridoio illuminato da una vetrata che consente lo sguardo spaziare sulla città. Non avrebbe più rivisto oltre i vetri quel panorama. Non più avrebbe goduto della protezione che infonde a chi, dietro ai vetri, osserva inosservato, protetto dal rumore, dall’ansia, dalla confusione.
Si appropria della differenza termica che i vetri trasmettono alla pelle. Pensa come dovrà potenzierà i sensi a cui un tempo non dava importanza. Nulla è irrinunciabile quanto la vista, il luogo comune più ripetuto.
Ora è colto da una necessità di emulazione: pensa ai grandi non vedenti del passato. In fondo il tempo ha tramandato i nomi e le gesta di chi, orbo, ha lasciato un segno, assurgendo all’onore del mondo. Quale dunque la realtà per un cieco? La prigionia del corpo, come per l’anima dinanzi alla vita terrena? Pensa a Tiresia, l’aruspice.
Tiresia, tu che penetri ogni cosa
le arcane e le palesi, della terra e del cielo
anche se non ci vedi tu comprendi
da quale morbo è pervasa la terra.
Pensa ad Omero che narrò ciò che non gli fu concesso vedere.
Talvolta pensa che la sua infermità sia solo apparente. Un viaggio nella letteratura, come Orfeo oltre il confine tra vita e morte.
O per non vedere la menzogna regnare incontrastata sul mondo. Non la pelle che brucia, ma la vergogna per questo tempo di apparenze illusorie.
– Ben venga questa cecità – ripete tra sé e sé – che mi consente di non vedere ciò che non voglio vedere. Siamo ciechi e insensibili allo scempio che perpetuiamo. In nome del dio denaro che acceca nella cupidigia.
A tratti la realtà sembra dirgli: – Entra in questa dimensione. Potrai ascoltare ciò che prima era dinanzi a te, contorno definito dalla luce. Era verità? O illusione generata dalla facilità con cui tutto transita dinanzi allo sguardo? Certo è solo il passato.
Gli raccontano che un uomo rimase nove anni celato in cantina per paura d’essere catturato dai suoi nemici. Alla loro morte riemerse, tornando come da una lunga cattività. Ma rivedendolo, tornato dalla notte a cui si era costretto, nessuno lo riconobbe. Forse il buio aveva intaccato anche la sua mente?
Ma la complessità del suo stato è diversa: un velo sugli occhi non gli consentirà di distinguere che ombre, labili ombre, di non riconoscere, pur essendo riconosciuto.
Mancano i giorni ai miei occhi. (J.L. Borges, “Il guardiano dei libri”, in Elogio dell’ombra)
Come il guardiano dei libri, con la mano accarezza le copertine della sua biblioteca.
Gli sovviene quel verso letto anni addietro: “La verità è che non seppi mai leggere”. Una certezza che nel tempo lo ha spinto a rileggere i suoi autori preferiti. Ma quanto di tutto ciò è ancora in lui, se non la porzione minima dei pensieri che si sono rivelati attraverso la lettura? Andiamo verso ciò che conosciamo ed anche nel buio la verità emerge, anche nel buio.
Ora si impone di fissare nella memoria i volti di chi gli sta accanto. In lui la sensazione è di aver intrapreso un incontro con un avversario più forte e che presto, molto presto, lo sconfiggerà. In quella condizione, nel silenzio profondo del buio in cui è immerso, consapevole nel contempo come la luce inondi il suo corpo col tepore del sole percepito sulla pelle, tutto gli conferma come siano le ore più calde del giorno, le ore di una precoce primavera, tempo dunque di aulico risveglio. Ma si scopre solo. Non più amici con cui condividere le ore, lontane le consuetudini, benché prima o poi tutto diventi consuetudine.
Ora vive nella solitudine che si addice all’eremita o al mistico rivolto alla trascendenza, capace di fare il vuoto intorno e dentro.
Tutto accade fin dai primi giorni. Indovina ombre che assomigliano a ciò che conosce, anche il profilo del volto di una donna. Ma di lei ricorda l’espressione che possiede nella memoria. La donna è quella che gli sta accanto, così come l’ha conosciuta, la sola amata. La cecità gli ha concesso di annullare gli effetti del tempo, che non accoglie le istanze dei nostri desideri, che non mantiene le promesse e vela di malinconica opacità. Tutto sbiadisce nei meandri del passato. – Di tanto si vive – va ripetendosi ogni giorno.
Dobbiamo dunque augurarci di vivere immersi nel buio più nero, totale, profondo? (Franco Marcoaldi, ne L’isola celeste)
È evidente che il racconto ruota intorno all’inspiegabile infermità che l’ha colpito. E se improvvisamente riacquistasse ciò che ritiene perduto, nulla sarebbe tanto illuminante quanto la rivelazione che la sua malattia non è dovuta ad altro che alla nausea provata ogni volta affacciandosi alla grande vetrata del settimo piano.
Il caso ha voluto che conoscendo la signora Ada, abbia conosciuto uno stadio diverso della malattia. Lei non vede e soffre del buio, delle ombre che affollano la sua mente. Per lui, al contrario, la sofferenza è una ridda di immagini generate dalla memoria involontaria che, al contatto con un profumo o un sapore, improvvisa si scatena in un’affollata sequenza. Pensa ancora di riacquistare la vista? La situazione della signora Ada è compromessa da uno spiccato realismo. È affranta e certa che nulla potrà mai più mutare. Non rivedrà il mare dinanzi vicino al quale è cresciuta, non il profilo della sua città, ma solo il confine dietro la piccola casa in un borgo di campagna dove si è rifugiata, tra etnie diverse, in un’epoca che si materializza quando i cambiamenti sono già avvenuti.
No, non è come per la signora Ada, destinata al buio senza ritorno. È assolutamente sereno, anche dinanzi alle necessità d’ordine materiale. Accetta la fine della luce e dichiara che la voce, nel silenzio delle immagini, si è finalmente rivelata. E dalla voce le parole, dai suoni la gioia o la mestizia, il dolore o la noia, l’ira o la serenità. Un modo inatteso di “vedere”.
E l’anima diviene lo specchio su cui riflettere immagini agli occhi inviolabili.
Hanno spiegato che la retina è consistente come un foglio di quella carta sottilissima che un tempo si utilizzava per le seconde copie dei documenti. E di strati composta, ben tre differenti, tra cellule sensoriali, dipolari, ganglari. Solo nel primo esistono milioni di coni e bastoncelli. Una magnificenza della natura, un tesoro di inestimabile valore, come la vita intera. È possibile vivere nella cecità dopo aver conosciuto il colore e le sfumature del cielo o l’espressione dolce del volto di una donna?
Una cecità nervosa ha infine stabilito un medico, tra esami, cartelle, referti, ipotesi, studi universitari, comparazioni con casi riconducibili alla stessa patologia. Tale diagnosi può spiegarsi con la sua inguaribile necessità di rendere visibile tutto quanto esiste nella sfera delle sensazioni?
– Talvolta le spiegazioni sono più semplici di tanti complicati esami – afferma il medico. – Non c’è nulla che possa affliggerti. Non hai dolore, nulla ti preclude un’ipotetica guarigione. Miracolosa? Peggio se la patologia derivasse da una diagnosi precisa. Domani, o fra qualche tempo tutto forse tornerà come prima – conclude accompagnandolo verso l’uscita.
Ora cammina sfiorando con la mano i muri del palazzo e poi, nel ronzio dell’ascensore, sale al settimo piano. La porta si apre su di un corridoio illuminato da una vetrata che consente lo sguardo spaziare sulla città. Non avrebbe più rivisto oltre i vetri quel panorama. Non più avrebbe goduto della protezione che infonde a chi, dietro ai vetri, osserva inosservato, protetto dal rumore, dall’ansia, dalla confusione.
Si appropria della differenza termica che i vetri trasmettono alla pelle. Pensa come dovrà potenzierà i sensi a cui un tempo non dava importanza. Nulla è irrinunciabile quanto la vista, il luogo comune più ripetuto.
Ora è colto da una necessità di emulazione: pensa ai grandi non vedenti del passato. In fondo il tempo ha tramandato i nomi e le gesta di chi, orbo, ha lasciato un segno, assurgendo all’onore del mondo. Quale dunque la realtà per un cieco? La prigionia del corpo, come per l’anima dinanzi alla vita terrena? Pensa a Tiresia, l’aruspice.
Tiresia, tu che penetri ogni cosa
le arcane e le palesi, della terra e del cielo
anche se non ci vedi tu comprendi
da quale morbo è pervasa la terra.
Pensa ad Omero che narrò ciò che non gli fu concesso vedere.
Talvolta pensa che la sua infermità sia solo apparente. Un viaggio nella letteratura, come Orfeo oltre il confine tra vita e morte.
O per non vedere la menzogna regnare incontrastata sul mondo. Non la pelle che brucia, ma la vergogna per questo tempo di apparenze illusorie.
– Ben venga questa cecità – ripete tra sé e sé – che mi consente di non vedere ciò che non voglio vedere. Siamo ciechi e insensibili allo scempio che perpetuiamo. In nome del dio denaro che acceca nella cupidigia.
A tratti la realtà sembra dirgli: – Entra in questa dimensione. Potrai ascoltare ciò che prima era dinanzi a te, contorno definito dalla luce. Era verità? O illusione generata dalla facilità con cui tutto transita dinanzi allo sguardo? Certo è solo il passato.
Gli raccontano che un uomo rimase nove anni celato in cantina per paura d’essere catturato dai suoi nemici. Alla loro morte riemerse, tornando come da una lunga cattività. Ma rivedendolo, tornato dalla notte a cui si era costretto, nessuno lo riconobbe. Forse il buio aveva intaccato anche la sua mente?
Ma la complessità del suo stato è diversa: un velo sugli occhi non gli consentirà di distinguere che ombre, labili ombre, di non riconoscere, pur essendo riconosciuto.
Mancano i giorni ai miei occhi. (J.L. Borges, “Il guardiano dei libri”, in Elogio dell’ombra)
Come il guardiano dei libri, con la mano accarezza le copertine della sua biblioteca.
Gli sovviene quel verso letto anni addietro: “La verità è che non seppi mai leggere”. Una certezza che nel tempo lo ha spinto a rileggere i suoi autori preferiti. Ma quanto di tutto ciò è ancora in lui, se non la porzione minima dei pensieri che si sono rivelati attraverso la lettura? Andiamo verso ciò che conosciamo ed anche nel buio la verità emerge, anche nel buio.
Ora si impone di fissare nella memoria i volti di chi gli sta accanto. In lui la sensazione è di aver intrapreso un incontro con un avversario più forte e che presto, molto presto, lo sconfiggerà. In quella condizione, nel silenzio profondo del buio in cui è immerso, consapevole nel contempo come la luce inondi il suo corpo col tepore del sole percepito sulla pelle, tutto gli conferma come siano le ore più calde del giorno, le ore di una precoce primavera, tempo dunque di aulico risveglio. Ma si scopre solo. Non più amici con cui condividere le ore, lontane le consuetudini, benché prima o poi tutto diventi consuetudine.
Ora vive nella solitudine che si addice all’eremita o al mistico rivolto alla trascendenza, capace di fare il vuoto intorno e dentro.
Tutto accade fin dai primi giorni. Indovina ombre che assomigliano a ciò che conosce, anche il profilo del volto di una donna. Ma di lei ricorda l’espressione che possiede nella memoria. La donna è quella che gli sta accanto, così come l’ha conosciuta, la sola amata. La cecità gli ha concesso di annullare gli effetti del tempo, che non accoglie le istanze dei nostri desideri, che non mantiene le promesse e vela di malinconica opacità. Tutto sbiadisce nei meandri del passato. – Di tanto si vive – va ripetendosi ogni giorno.
Dobbiamo dunque augurarci di vivere immersi nel buio più nero, totale, profondo? (Franco Marcoaldi, ne L’isola celeste)
È evidente che il racconto ruota intorno all’inspiegabile infermità che l’ha colpito. E se improvvisamente riacquistasse ciò che ritiene perduto, nulla sarebbe tanto illuminante quanto la rivelazione che la sua malattia non è dovuta ad altro che alla nausea provata ogni volta affacciandosi alla grande vetrata del settimo piano.
Il caso ha voluto che conoscendo la signora Ada, abbia conosciuto uno stadio diverso della malattia. Lei non vede e soffre del buio, delle ombre che affollano la sua mente. Per lui, al contrario, la sofferenza è una ridda di immagini generate dalla memoria involontaria che, al contatto con un profumo o un sapore, improvvisa si scatena in un’affollata sequenza. Pensa ancora di riacquistare la vista? La situazione della signora Ada è compromessa da uno spiccato realismo. È affranta e certa che nulla potrà mai più mutare. Non rivedrà il mare dinanzi vicino al quale è cresciuta, non il profilo della sua città, ma solo il confine dietro la piccola casa in un borgo di campagna dove si è rifugiata, tra etnie diverse, in un’epoca che si materializza quando i cambiamenti sono già avvenuti.
No, non è come per la signora Ada, destinata al buio senza ritorno. È assolutamente sereno, anche dinanzi alle necessità d’ordine materiale. Accetta la fine della luce e dichiara che la voce, nel silenzio delle immagini, si è finalmente rivelata. E dalla voce le parole, dai suoni la gioia o la mestizia, il dolore o la noia, l’ira o la serenità. Un modo inatteso di “vedere”.
E l’anima diviene lo specchio su cui riflettere immagini agli occhi inviolabili.
Il
racconto parte come una discesa nell'ombra quale condanna alla lontananza dalla
luce e descrive con suggestione il rivoltarsi del pensiero nei meandri della
propria condizione fino alla scoperta che essa è non altro che il rifiuto
volontario di un mondo che non è degno di essere guardato, preludio alla
scoperta degli invisibili paesaggi dell'interiorità. (Francesco Gaggi)
Oreste Bonvicini è nato ad Alessandria il 21-02-1958. Risiede a Casal Cermelli (AL). Ha collaborato con riviste e pubblicazioni a carattere locale e nazionale («Il Lobio», «Territorio Informa», «Il nostro Giornale»,« Castellazzo Notizie», «Silarus», «Penna d’autore», ecc.). Ha pubblicato, a partire dall’anno 2000, alcune sillogi poetiche in seguito ad affermazioni in premi letterari (Cibernetica - Montedit; Il granaio di Nalut - Prospektiva; La città - Montedit; Il velo di Chartres - Polispoiesis Ceprano; Cecità - Polispoieis Ceprano; La misura quotidiana della parola - Fara Editore) nonché racconti, articoli e brevi saggi sui seguenti siti internet: Poiein, Joker,Narrabilando, Progetto Babele, Graffinrete, Carta e Penna, Puntoacapoeditrice, Agenzia del Territorio, Silarus, Biennale di poesia Alessandria, Montedit, Clubaut, La vita in prosa, 150.org, ecc.). Segnalato nel 2010 alla prima edizione del premio intitolato a Franco Fortini, Premio speciale al concorso Astrolabio 2010, ha pubblicato nel 2011, presso Puntoacapoeditrice, il volume in prosa Itaca non più la meta.
Secondo
classificato ex aequo
Trattato tragicomico
sulla tosse di Antonella Marani
(Imola, BO)
Mi sono decisa a scrivere – visto che parlare non è la cosa che ora mi riesca meglio – di questa Tosse che mi squassa da un anno, ad andamento intermittente, come quelle febbri tenaci ,che vengono definite FUO (febbri origine sconosciuta), che guarda caso è l’anagramma di UFO.
Non è che la mia tosse per caso è di origine aliena?
Ho deciso di scriverne, perché, io, che ho sempre rispettato il sintomo nella sua accezione ampia di meccanismo che espelle e quindi entro certi limiti difensivo, dico: ORA BASTA! Voglio affrontare la Tosse come un nemico. Io, convinta pacifista, come mi sono ridotta a causa di questa maledetta presenza che mi accompagna da mesi! Sono una persona precisa quando affronta cose nuove, e la guerra lo è per me: per prima cosa ho deciso di conoscere a fondo il nemico, per vedere di trovare qualche punto debole.
Fino ad ora è lei che ha trovato i miei punti deboli, ma prima che le forze me lo impediscano ho deciso di “metterla su carta” anzi di “spiaccicarla su carta” (sperando che non sparga troppo catarro)come quelle farfalle che l’appassionato entomologo colleziona, guarda e rimira soddisfatto!
Comincio a provare un gusto sadico ad immaginare la Tosse vivisezionata ed immobilizzata! Chi è quell’imbecille che ha chiamato il nervo che scatena la tosse VAGO! Vago vuol dire non definito, ma Questa qui lo sa bene cosa vuole! È assai determinata, altro che vaga! È forse lo stesso imbecille ha chiamato il nervo concorrente SIMPATICO? E così ha riprodotto una sorta di Caino e Abele neurovegetativi, fratelli che si fanno i dispetti: io faccio il castello di sabbia e io te lo distruggo; io gioco a palla e io te la foro; io lo dico a mamma e io lo dico a babbo. Non ho mai avuto fratelli, sono stata una beata figlia unica e quindi sono molto infastidita da queste infantili tenzoni. Vago come vagabondo, visto che si estende dal collo allo stomaco; ma anche il Simpatico non scherza, visto che l’equilibrio del corpo nelle funzioni involontarie, deriva sempre dalla prevalenza dell’uno o dell’altro nei vari momenti.
Il Vago si dirama e nel collo uno dei suoi rami è il Laringeo, che come dice il nome innerva la laringe l’organo della voce. In alcuni momenti la mia voce si attenua e comunque è sempre alterata, un po’ strozzata, e questo mi sta creando dei problemi, in un lavoro come il mio in cui fondamentale è la comunicazione. Cosa penseranno i pazienti che visito quotidianamente mentre arranco per raccogliere l’anamnesi, che mi faccio ripetere le cose perché se mi parlano mentre tossisco, non sento? Dovrei imparare a tossire a tempo, e loro a parlare a tempo?
Chissà se è meglio un 3/4 o un 4/4; un tempo di valzer, o di swing o un andante?(Nel senso che sto per tirare le cuoia?) Durante gli accessi spesso il respiro mi manca, probabilmente si innesca anche il laringospasmo, condizione veramente spiacevole, in cui viene meno la coordinazione tra respiro e tosse e, comunque, ti rendi conto che l’aria non va dove deve andare e tu sei ancora cosciente, per poco se continui così.
E allora ti senti in mezzo ad una cruenta battaglia, in cui il Respiro vuole entrare e la Tosse lo respinge, e tu sei in mezzo e dici: “Ragazzi, per favore smettetela, io non ce la faccio più!”
E loro non sono disposti a cedere. Finché un ultimo intenso colpo di tosse in genere non ha la meglio; talvolta tanto intenso che mi fa finire seduta.
Mi rendo conto ora di quanto sia stupido, quando noi medici e infermieri assistiamo un paziente con dispnea con il tipico sguardo fuori dalle orbite, colorito cianotico, cosciente ancora per poco, che si sente dire con voce un po’ melliflua: “Signore, stia tranquillo,non è niente, respiri più lentamente e ritmicamente!”
E lui, se lo potessi fare, ci manderebbe a quel paese, perché sente che sta per andare all’altro mondo ma da sveglio, come in un incubo!
La Tosse ti toglie l’Energia vitale. Quando gli accessi sono più frequenti, tendo a stare a letto o in poltrona, mi sento svuotata, combino poco o nulla. Medice cura te ipsum! Quasi tutti me lo dicono, chi in italiano, chi in dialetto e chi, i più colti in latino, con sguardo dubbioso! Come se questa tosse fosse una prova evidente della mia scarsa preparazione!
Oddio, la metteranno come nota di demerito nel mio curriculum vitae e professionale: “Non ha saputo curarsi la tosse!”
La Tosse è un sintomo, non una malattia, e come tale deve risvegliare quell’approccio tanto caro a Sherlock Holmes. Mio marito: “Ma se da te viene uno che ha la tosse da due mesi cosa gli fai?”
“È ovvio, una lastra al torace per escludere polmoniti o altro.”
“E allora?” ribatte lui.
Dopo tanta insistenza e anche un po’ di insulti casalinghi, mi sono decisa ad eseguire la lastra al torace che ovviamente è risultata negativa, ma che ha scoperto una frattura passata inosservata di una vertebra dorsale. Qualcuno ha detto che chi cerca trova: parole sante!
Allora cosa altro può provocarla? Io lo so che cosa me la provoca, nella gola ho uno gnomo dispettoso che con un piccolo rastrello mi stimola sempre in un punto preciso della trachea, potrei indicarlo con il pennarello dall’esterno, direi a livello del 4° anello tracheale, ma questa non è una spiegazione scientifica.Vai dall’otorino; ma il punto è troppo profondo per essere visualizzato con una normale visita, dovrei essere sedata e semi-intubata. Ma scherziamo? Ho sempre avuto difficoltà a farmi mettere le mani in bocca, in gola e nel naso, figurarsi così profondamente. Non sono mica Gola Profonda!
Sono una persona riservata ! Allora lasciamo perdere la diagnosi e cerchiamo, anche se non è il mio approccio abituale, la cura pur non conoscendone la causa. Cura: che bel termine! Mi suggerisce immagini amorevoli un po’ stucchevoli forse, di giovani crocerossine graziose ed esili durante la 1a e la 2a Guerra mondiale, con le loro divise bianche e azzurre. Ma l’avete mai vista la caposala del Reparto Otorino? E io dovrei farmi curare da quella?
Ho pensato che la Tosse, fosse come quelle donne con personalità isterica, e ho provato prima a farla “parlare”con tono più basso, molto più seducente, e le ho offerto dei “sedativi”, inutili e dopo un po’ anche rifiutati con “urla” ancora più forti.
Quando la Tosse urla così la strozzeresti.Tutti i vicini che sentono e che fanno finta di non sentire! Purtroppo è lei che ti sta strozzando.
Allora ho cambiato strategia e le ho offerto dei“ fluidificanti” per un innegabile vantaggio estetico per una Primadonna come lei!
Effettivamente questo approccio per un po’ le è piaciuto: si faceva sentire, ma la sua voce era più armoniosa, più tollerabile anche se non diminuiva la frequenza degli attacchi. Dopo un po’, però, come tutte le donne capricciose, ha cominciato a stancarsi; inoltre il sapore eccessivamente dolciastro del fluidificante mi stava inducendo imbarazzanti effetti gastroenterici che non elevavano il mio livello energetico.
Decido di passare alle manovre forti: cortisone-antibiotici-antistaminici-antinfiammatori Ev. Ho sperimentato tutta la gamma degli effetti collaterali. Non solo non hanno sortito effetto, ma l’hanno talmente indispettita, che è tornata sui registri striduli. Insopportabile! Questa Tosse è proprio un demonio!
Oddio, non dovrò andare da un esorcista? Già mi vedo: Sarsina, uno dei miei accessi, la gente che guarda atterrita che vomito verde, con le mie “convulsioni”, paonazza, mentre emetto suoni gutturali e il prete mi mostra il crocifisso e l’aglio (già che c’è) e infine con uno spinello mi inonda di acqua benedetta! E finalmente mi libera… ma è un sogno o piuttosto un incubo!
Dovrò affrontare questa tosse dal punto di vista psicologico. Mi consigliano uno psicoanalista freudiano, un adleriano almeno, no?
Freudiano: la tosse è un sintomo da indagare a fondo. Mi stendo sul lettino. La posizione supina funziona da stimolo, comincio a sentire il respiro un po’affannoso, cerco di tenerlo a bada. So che c’è un dottore dietro di me e cerco di calmarmi. Il terapeuta non parla e io non so come cominciare. Dal mio primo ricordo? Da mia madre o da mio padre? Gli parlo dell’enuresi notturna? Il mio cervello vaglia rapidamente le opzioni, ma la Tosse si sta spazientendo comincia a muoversi e ad agitarsi. Alé, ci siamo! Comincio ad emettere colpi di tosse stizzosa,veramente invadente; mi siedo sul lettino, e nello sguardo imperturbabile del terapeuta mi sembra di cogliere un lampo di sdegno. Come ho osato distruggere il setting!
Mi scusi, non l’ho fatto apposta, adesso ha capito perché sono qui! Vorrei dirglielo ma non ci riesco: la Tosse infuriata come un’antica Erinni, mi scuote senza ritegno. Io mi rendo conto con angoscia che l’uomo che ho accanto non interverrà: il rigido approccio psicoanalitico non prevede contatto tra medico e paziente; sicuramente nel taccuino scriverà: Personalità isterica, con spiccate note istrioniche e narcisiste.
Mi aggrappo alla scrivania, afferro foglio e penna e scrivo: Chiami il 118. Giusto prima di stramazzare a terra.
Non è che la mia tosse per caso è di origine aliena?
Ho deciso di scriverne, perché, io, che ho sempre rispettato il sintomo nella sua accezione ampia di meccanismo che espelle e quindi entro certi limiti difensivo, dico: ORA BASTA! Voglio affrontare la Tosse come un nemico. Io, convinta pacifista, come mi sono ridotta a causa di questa maledetta presenza che mi accompagna da mesi! Sono una persona precisa quando affronta cose nuove, e la guerra lo è per me: per prima cosa ho deciso di conoscere a fondo il nemico, per vedere di trovare qualche punto debole.
Fino ad ora è lei che ha trovato i miei punti deboli, ma prima che le forze me lo impediscano ho deciso di “metterla su carta” anzi di “spiaccicarla su carta” (sperando che non sparga troppo catarro)come quelle farfalle che l’appassionato entomologo colleziona, guarda e rimira soddisfatto!
Comincio a provare un gusto sadico ad immaginare la Tosse vivisezionata ed immobilizzata! Chi è quell’imbecille che ha chiamato il nervo che scatena la tosse VAGO! Vago vuol dire non definito, ma Questa qui lo sa bene cosa vuole! È assai determinata, altro che vaga! È forse lo stesso imbecille ha chiamato il nervo concorrente SIMPATICO? E così ha riprodotto una sorta di Caino e Abele neurovegetativi, fratelli che si fanno i dispetti: io faccio il castello di sabbia e io te lo distruggo; io gioco a palla e io te la foro; io lo dico a mamma e io lo dico a babbo. Non ho mai avuto fratelli, sono stata una beata figlia unica e quindi sono molto infastidita da queste infantili tenzoni. Vago come vagabondo, visto che si estende dal collo allo stomaco; ma anche il Simpatico non scherza, visto che l’equilibrio del corpo nelle funzioni involontarie, deriva sempre dalla prevalenza dell’uno o dell’altro nei vari momenti.
Il Vago si dirama e nel collo uno dei suoi rami è il Laringeo, che come dice il nome innerva la laringe l’organo della voce. In alcuni momenti la mia voce si attenua e comunque è sempre alterata, un po’ strozzata, e questo mi sta creando dei problemi, in un lavoro come il mio in cui fondamentale è la comunicazione. Cosa penseranno i pazienti che visito quotidianamente mentre arranco per raccogliere l’anamnesi, che mi faccio ripetere le cose perché se mi parlano mentre tossisco, non sento? Dovrei imparare a tossire a tempo, e loro a parlare a tempo?
Chissà se è meglio un 3/4 o un 4/4; un tempo di valzer, o di swing o un andante?(Nel senso che sto per tirare le cuoia?) Durante gli accessi spesso il respiro mi manca, probabilmente si innesca anche il laringospasmo, condizione veramente spiacevole, in cui viene meno la coordinazione tra respiro e tosse e, comunque, ti rendi conto che l’aria non va dove deve andare e tu sei ancora cosciente, per poco se continui così.
E allora ti senti in mezzo ad una cruenta battaglia, in cui il Respiro vuole entrare e la Tosse lo respinge, e tu sei in mezzo e dici: “Ragazzi, per favore smettetela, io non ce la faccio più!”
E loro non sono disposti a cedere. Finché un ultimo intenso colpo di tosse in genere non ha la meglio; talvolta tanto intenso che mi fa finire seduta.
Mi rendo conto ora di quanto sia stupido, quando noi medici e infermieri assistiamo un paziente con dispnea con il tipico sguardo fuori dalle orbite, colorito cianotico, cosciente ancora per poco, che si sente dire con voce un po’ melliflua: “Signore, stia tranquillo,non è niente, respiri più lentamente e ritmicamente!”
E lui, se lo potessi fare, ci manderebbe a quel paese, perché sente che sta per andare all’altro mondo ma da sveglio, come in un incubo!
La Tosse ti toglie l’Energia vitale. Quando gli accessi sono più frequenti, tendo a stare a letto o in poltrona, mi sento svuotata, combino poco o nulla. Medice cura te ipsum! Quasi tutti me lo dicono, chi in italiano, chi in dialetto e chi, i più colti in latino, con sguardo dubbioso! Come se questa tosse fosse una prova evidente della mia scarsa preparazione!
Oddio, la metteranno come nota di demerito nel mio curriculum vitae e professionale: “Non ha saputo curarsi la tosse!”
La Tosse è un sintomo, non una malattia, e come tale deve risvegliare quell’approccio tanto caro a Sherlock Holmes. Mio marito: “Ma se da te viene uno che ha la tosse da due mesi cosa gli fai?”
“È ovvio, una lastra al torace per escludere polmoniti o altro.”
“E allora?” ribatte lui.
Dopo tanta insistenza e anche un po’ di insulti casalinghi, mi sono decisa ad eseguire la lastra al torace che ovviamente è risultata negativa, ma che ha scoperto una frattura passata inosservata di una vertebra dorsale. Qualcuno ha detto che chi cerca trova: parole sante!
Allora cosa altro può provocarla? Io lo so che cosa me la provoca, nella gola ho uno gnomo dispettoso che con un piccolo rastrello mi stimola sempre in un punto preciso della trachea, potrei indicarlo con il pennarello dall’esterno, direi a livello del 4° anello tracheale, ma questa non è una spiegazione scientifica.Vai dall’otorino; ma il punto è troppo profondo per essere visualizzato con una normale visita, dovrei essere sedata e semi-intubata. Ma scherziamo? Ho sempre avuto difficoltà a farmi mettere le mani in bocca, in gola e nel naso, figurarsi così profondamente. Non sono mica Gola Profonda!
Sono una persona riservata ! Allora lasciamo perdere la diagnosi e cerchiamo, anche se non è il mio approccio abituale, la cura pur non conoscendone la causa. Cura: che bel termine! Mi suggerisce immagini amorevoli un po’ stucchevoli forse, di giovani crocerossine graziose ed esili durante la 1a e la 2a Guerra mondiale, con le loro divise bianche e azzurre. Ma l’avete mai vista la caposala del Reparto Otorino? E io dovrei farmi curare da quella?
Ho pensato che la Tosse, fosse come quelle donne con personalità isterica, e ho provato prima a farla “parlare”con tono più basso, molto più seducente, e le ho offerto dei “sedativi”, inutili e dopo un po’ anche rifiutati con “urla” ancora più forti.
Quando la Tosse urla così la strozzeresti.Tutti i vicini che sentono e che fanno finta di non sentire! Purtroppo è lei che ti sta strozzando.
Allora ho cambiato strategia e le ho offerto dei“ fluidificanti” per un innegabile vantaggio estetico per una Primadonna come lei!
Effettivamente questo approccio per un po’ le è piaciuto: si faceva sentire, ma la sua voce era più armoniosa, più tollerabile anche se non diminuiva la frequenza degli attacchi. Dopo un po’, però, come tutte le donne capricciose, ha cominciato a stancarsi; inoltre il sapore eccessivamente dolciastro del fluidificante mi stava inducendo imbarazzanti effetti gastroenterici che non elevavano il mio livello energetico.
Decido di passare alle manovre forti: cortisone-antibiotici-antistaminici-antinfiammatori Ev. Ho sperimentato tutta la gamma degli effetti collaterali. Non solo non hanno sortito effetto, ma l’hanno talmente indispettita, che è tornata sui registri striduli. Insopportabile! Questa Tosse è proprio un demonio!
Oddio, non dovrò andare da un esorcista? Già mi vedo: Sarsina, uno dei miei accessi, la gente che guarda atterrita che vomito verde, con le mie “convulsioni”, paonazza, mentre emetto suoni gutturali e il prete mi mostra il crocifisso e l’aglio (già che c’è) e infine con uno spinello mi inonda di acqua benedetta! E finalmente mi libera… ma è un sogno o piuttosto un incubo!
Dovrò affrontare questa tosse dal punto di vista psicologico. Mi consigliano uno psicoanalista freudiano, un adleriano almeno, no?
Freudiano: la tosse è un sintomo da indagare a fondo. Mi stendo sul lettino. La posizione supina funziona da stimolo, comincio a sentire il respiro un po’affannoso, cerco di tenerlo a bada. So che c’è un dottore dietro di me e cerco di calmarmi. Il terapeuta non parla e io non so come cominciare. Dal mio primo ricordo? Da mia madre o da mio padre? Gli parlo dell’enuresi notturna? Il mio cervello vaglia rapidamente le opzioni, ma la Tosse si sta spazientendo comincia a muoversi e ad agitarsi. Alé, ci siamo! Comincio ad emettere colpi di tosse stizzosa,veramente invadente; mi siedo sul lettino, e nello sguardo imperturbabile del terapeuta mi sembra di cogliere un lampo di sdegno. Come ho osato distruggere il setting!
Mi scusi, non l’ho fatto apposta, adesso ha capito perché sono qui! Vorrei dirglielo ma non ci riesco: la Tosse infuriata come un’antica Erinni, mi scuote senza ritegno. Io mi rendo conto con angoscia che l’uomo che ho accanto non interverrà: il rigido approccio psicoanalitico non prevede contatto tra medico e paziente; sicuramente nel taccuino scriverà: Personalità isterica, con spiccate note istrioniche e narcisiste.
Mi aggrappo alla scrivania, afferro foglio e penna e scrivo: Chiami il 118. Giusto prima di stramazzare a terra.
Racconto frizzante, si legge con piacere, il lettore segue
divertito
il tragicomico percorso del dottoressa afflitta dalla tosse.
L'epilogo
simpatico, corona bene il crescendo continuo di situazioni sempre
più
disperate. (Alessandro
Chiarini)
Chi
scrive soffre d’asma cronica da una vita, e sa bene quanto sia fastidiosa “Questa
maledetta presenza”, questa tosse, fisica o metafisica che sia.. questa fatica
che non ci abbandona mai! E allora perché non “spiaccicarla su carta”,
sezionarla, esorcizzarla col potere della penna attraverso un racconto pregno
di termini medici e filosofia, di nobile leggerezza e denso di arguta ironia.
(Alex Celli)
Antonella Marani è medico della Emergenza, eclettica sul lavoro (ha svolto tantissimi tipi di esperienze lavorative quanto mai disparate e anche disperate!) e anche nelle passioni. Prevalentemente visiva, per una ex ipovedente (si è recentemente operata agli occhi) una sorta di Nemesi. Ama i colori, la luce, i viaggi,i libri, il cinema, la Natura e gli animali. La sua famiglia comprene lei, marito, figlia bipede e attualmente di 3 figli quadrupedi (in certe fasi ha avuto anche 5 figli quadrupedi di taglie ed esigenze diverse). È antirazzista e favorevole al melting pot: avete mai visto un coniglio nano inseguire un cane ed un gatto? A lei è capitato. E dopo questa premessa , vi fidereste a farvi curare in Emergenza (perché non c’è nessun altro nel giro di 500 km) da una come lei? Ecco il suo autoritratto in versi: Su e giù per l’ambulanza / me ne vo’ per monti e valli, / a raccogliere ossa rotte /ragazzotti pere cotte. // Il marito fa l’autista / per la figlia musicista / cani e gatta coccoloni / voglion sempre i maccheroni. // La mia vita è tutta qua / libri,note e cha-cha-cha.
Terzo
classificato
Ciao Beppe di Caterina Staccioli
(Montescudo, RN)
Chi mi viene ad aprire è un ragazzo non tanto giovane, uno di quelli che a scuola chiamano sgobboni.
Minuto, gli occhiali tondi sul naso un po’ scesi, mi guarda e senza neppure chiedere chi sono, fa un cenno col capo e, sempre con movimenti della testa, m’indica di seguirlo lungo il corridoio dell’edificio.
Sono le 20:30 e, a quest’ora, gli ospiti della CT (Comunità Terapeutica) cenano di là nell’altro edificio.
– Lei è la dott. vero? – dice. – L’aspettavamo.
Lo seguo oltre l’ingresso. Percorriamo un lungo corridoio, buio, il ragazzo apre un portone sulla destra.
L’odore di muffa è avvolgente, grigio come grigie sono le pareti, come la luce che filtra dalle persiane socchiuse. Mi fa accomodare: è un grande salone di una vecchia scuola media ora adibita a Comunità.
La luce è bassa, ho freddo e il salotto è davvero squallido.
Il giovane chiude la porta dietro le mie spalle educatamente, sussurra qualche cosa per me indecifrabile lasciandomi nel più tenebroso silenzio. Cerco di rubare qualche rumore… ma tutto è così anonimo. Mi prende un leggero nodo alla gola, si moltiplicano i pensieri… che faccio qui? Perché, dalla cucina non arriva nessun odore di mangiare?
Certo ne ho fatta di strada per ritrovare Giuseppe, un semplicione di quelli buoni. Era stato circa sei mesi in ct: non che avesse fatto chissà quale miglioramento ma il suo carattere bontempone l’aveva trasformato nell’orso buono del gruppo. Una sorta di mascotte. Di colpo si apre la porta.
– Scusi… Se la sente… da sola? Intendevo, il Brossetti lo vuole vedere da sola o deve restare qualcuno?
– No grazie, lo conosco, non si preoccupi – rispondo.
Pochi minuti dopo dal portone entra un’altra visita.
– Collega buonasera… Sono di fretta, scusami, credi sia opportuno che tu stia qui da sola col Brossetti? Ti mando un operatore!
Ripeto: – Lo conosco, grazie.
Contrariato scuote la testa: – Beh, come vuoi… scusa vado di fretta!
Per la prima volta lo vedo, cioè, siamo ormai al nostro quarto incontro, ma non lo avevo mai visto così: minuto piccolo impacciato, sì… intendo lo psichiatra! I suoi tratti infantili risaltano su un impeccabile loden verde. Non ha camice, né cartellino e devo dire che non mi pare neppure lo stesso di alcuni mesi fa. È persino più basso di me, non me ne ero accorta! Questa sua preoccupazione e fretta mi irritano.
– Tranquillo, grazie… ma io Giuseppe lo conosco molto bene.
Un gesto educato col capo e mi saluta.
Passano 10… 15… lunghissimi. Il silenzio amplifica i pensieri, mi sembra di sentire distintamente il battito del mio cuore.
Ancora silenzio. Poi un rumore lontano di ciabatte che strisciano sul pavimento: sciaf sciaf, sono sempre più vicine… sciaf sciaf.
Un leggero bussare, poi compare alla porta: è tutto rosso in viso, grande come sempre, anzi forse di più, ha il viso commosso…
– Sei venuta! – fa un lungo respiro.
Ha la lingua impastata, gli occhi spalancati un poco persi nel vuoto; i capelli incorniciano un viso sproporzionato, un faccione piantato su un armadio di due metri con un’indole infantile.
Si siede a fatica, traballa, non vede bene le distanze, sistema le mani tra le ginocchia si dondola un po’ per prendere una posizione corretta.
– Scusa – dice – ma qui mi danno la terapia.
Sorride, poi il suo sguardo si perde nel vuoto, si perde, poi si spegne. Respira mi guarda ma nei suoi occhi, io non ci sono più.
– Giuseppe – sussurro con un filo di voce.
… immobile…
– Giuseppe – lo sfioro. – Giuseppe che ti succede? Sei la stessa persona incontrata in CT con tutte quelle tue battute e gli strafalcioni, il tuo mangiarti le parole, e la voglia di essere bravo?
In sei mesi era riuscito a crearsi uno spazio, un suo ruolo. Era strano, Giuseppe, ma non tanto. Fantasioso, un po’ sognatore. Non raccontava molto di sé. 28 anni, le scuole interrotte. Poi le sostanze… poi? Non aveva piacere di parlarne.
– Dai basta non parliamone più di quella cosa – e i tratti del suo viso si irrigidivano, la bocca tirava un po’ sul lato, chiudeva gli occhi e non c’era modo di continuare.
Lo sapevano tutti che lui era “il mostro di X*” ma tutti facevano finta di niente, o meglio non era quel Giuseppe lì, dicevano.
E piano piano, passati i primi mesi, aveva iniziato a sciogliersi, a darsi da fare nella cucina. In riunione si era detto disponibile a lavare i piatti, sempre… aveva aggiunto.
– No guarda che i turni durano una settimana – gli altri avevano riso.
– E io voglio lavarli sempre!
Non c’era stato mezzo di fargli cambiare idea. Del resto, che dire, si trattava di carcere: sì, perché la comunità era dentro il carcere e in carcere, si sa, il tempo è un concetto strano.
Certo, era difficile da trattare quando si impuntava, e diventava difficile tenerlo alla giusta distanza… lui era sempre lì, sempre a dirti che c’era, a cercare di farsi notare.
Riapre gli occhi… sorride, lo sento ritornare… gli occhi riprendono lo sguardo e adesso mi guarda.
– Giuseppe – sussurro.
Dondola: – Sì, ci sto bene qui!
Dondola e respira: – È come una famiglia anche se… io dico, qui è come una famiglia… come…
Chiuso. Riabbassa gli occhi, la bocca socchiusa, la lingua si fa pesante.
Lo guardo e mi sembra sia tutt’uno con la poltrona. Un pezzo di stoffa, una coperta.
Ecco si riprende: – E Vito? e gli altri lo sanno di me? vanno bene lì alla CT*?
Chiuso.
Ancora si perde nel vuoto a rintracciare ricordi, pensieri.
Chissà dov’è adesso, mi sento un nodo alla gola.
Riprende: – Non so se sto qui per tutto il percorso, forse scappo. Ti arrabbi con me? Io c’ho già provato, a scappare.
Un’altra volta collocato in un posto che sembra una famiglia e che non è una famiglia.
– Qui mi vogliono bene… io voglio andare a casa.
Si accende e si spegne proprio come una abat-jour.
Gli occhi da lucidi divengono opachi e sottolineano le assenze, l’andarsene dalla conversazione.
Poi d’improvviso riprende vita, sorride, sembra tornare ad abitare il suo corpo e si stacca dalla poltrona grigia: è tutto rosso in volto controlla il respiro allarga gli occhi.
– Mi dai una carezza? Qui sono stato cattivo e adesso devo prendere la terapia.
Credo che qualche cosa dentro mi si spezzi!
Per un attimo, odio amore tenerezza rabbia impotenza cadono in una voragine interna, in un gorgo del mio animo.
Lotto per non ripensarlo come l’ho conosciuto. Fiducioso attento così preoccupato di essere buono.
“Ce la farò”, si ripeteva.
Lo accarezzo sul viso. È raggiante, sembra persino rasserenato poi si alza di scatto.
Mi accorgo di un rumore di passi dal piano di sopra poi alle scale, che scende. Giuseppe mi guarda, ha il viso spaventato e d’incanto compare proprio all’angolo degli occhi un luccichio, una lacrima. Poi chiude.
– Giuseppe è scappato! – le urla degli altri detenuti, il panico: – Sottoressssa!
Impietrita nel bel mezzo di una riunione, non batto ciglio: tanto gli ospiti sono tutti stranieri: si trattava di un incontro di rappresentanza. 30 Direttori di Carceri, varie nazionalità, nessuno italiano a visitare la struttura.
E Giuseppe aveva deciso di evadere proprio quel giorno là: approfittando del trambusto, aveva deciso di prendere la 500 del volontario che lavorava nella serra attigua al carcere.
La serra era una delle attività quotidiane a cui i detenuti erano ammessi a lavorare all’esterno della cinta muraria. Liberi, con un solo agente in borghese. Giuseppe – non so come – era entrato in quella 500 ed era volato via… Sì ma dove?
– Presto bisogna fare presto, deve tornare, altrimenti scatta l’evasione!
Già, perché se ritorni non sei considerato evaso!
– Ma dove lo troviamo?
Beppe! C’è un tam tam, di voci, telefonate, qualcuno parte in macchina.
Mi alzo educatamente dall’incontro: – Scusatemi un minuto – l’interprete traduce.
– Un inconveniente – traduzione.
Beppe… passano i minuti, nulla.
Tutto torna normale, riprendiamo la riunione. I Direttori vanno a pranzo, e noi aspettiamo… di Beppe non si sa nulla.
Aspettiamo.
– Dottoressa al telefono.
– Pronto? Sono Beppe, mi sa che ho fatto una cazzata, sono a Mestre ma voglio tornare a casa… in carcere.
– Torna subito! – gli urlo per telefono.
– Ma cosa dico?
– Tu torna più in fretta che puoi, noi parliamo col Direttore. Ma… torna!
Ancora la raccontano: Il Beppe aveva telefonato che voleva tornare!
– Si puoo? – la porta si apre ed entra lo sgobbone con gli occhialini.
No che non si può! non si può!
Giuseppe è scomparso dentro al suo sguardo, scalpita, batte i piedi, dondolandosi un po’. Di nuovo la lingua fuori, e quello sguardo.
– Vieni che ti do la terapia! – dice.
È la fine, la fine del nostro colloquio.
Vicini percorriamo il corridoio. Un nuovo psichiatra ci viene incontro, dice qualche cosa rivolgendosi a Giuseppe con un ostile “Lei” ma io, non credo di voler capire la sua lingua!
Quando il portone si chiude alle mie spalle e rimango nel buio del viale, mi sembra tutto così infinitamente triste e vuoto. Giuseppe ha 28 anni, molti di quali passati a cercare una famiglia, la sua, che non c’è stata. Violenze, allontanamenti, disturbi e una etichetta da matto.
Per tanti mesi è stato anche un altro: ha potuto parlare di sé, non solo con il suo disturbo. È stato, coccolato amato… proprio in galera.
Oggi hanno chiamato. Qualcuno ha confermato: – È proprio matto, pensate, al terzo giorno di coma si è risvegliato e diceva che voleva andare in galera!
Ha cercato di scappare: si è gettato dal quarto piano. Dal balcone del quarto piano della scuola.
È morto dopo 10 giorni di coma.
Ha detto proprio così: – Beppe quando si è svegliato, per pochi minuti… “portatemi in galera”.
NOI sappiamo che se voleva tornare in galera, Beppe, non era matto per niente!
A volte a noi “operatori” capita, di vivere storie forti.
Capita di essere il contenitore di emozioni… forti.
Di dover tradurre parole di lingue diverse.
A volte, mi è capitato, che il cuore mi abbia giocato brutti scherzi, perché ho vissuto cose importanti. E oggi ho avuto il bisogno di raccontarle :-DDDDDD!!!!!
Minuto, gli occhiali tondi sul naso un po’ scesi, mi guarda e senza neppure chiedere chi sono, fa un cenno col capo e, sempre con movimenti della testa, m’indica di seguirlo lungo il corridoio dell’edificio.
Sono le 20:30 e, a quest’ora, gli ospiti della CT (Comunità Terapeutica) cenano di là nell’altro edificio.
– Lei è la dott. vero? – dice. – L’aspettavamo.
Lo seguo oltre l’ingresso. Percorriamo un lungo corridoio, buio, il ragazzo apre un portone sulla destra.
L’odore di muffa è avvolgente, grigio come grigie sono le pareti, come la luce che filtra dalle persiane socchiuse. Mi fa accomodare: è un grande salone di una vecchia scuola media ora adibita a Comunità.
La luce è bassa, ho freddo e il salotto è davvero squallido.
Il giovane chiude la porta dietro le mie spalle educatamente, sussurra qualche cosa per me indecifrabile lasciandomi nel più tenebroso silenzio. Cerco di rubare qualche rumore… ma tutto è così anonimo. Mi prende un leggero nodo alla gola, si moltiplicano i pensieri… che faccio qui? Perché, dalla cucina non arriva nessun odore di mangiare?
Certo ne ho fatta di strada per ritrovare Giuseppe, un semplicione di quelli buoni. Era stato circa sei mesi in ct: non che avesse fatto chissà quale miglioramento ma il suo carattere bontempone l’aveva trasformato nell’orso buono del gruppo. Una sorta di mascotte. Di colpo si apre la porta.
– Scusi… Se la sente… da sola? Intendevo, il Brossetti lo vuole vedere da sola o deve restare qualcuno?
– No grazie, lo conosco, non si preoccupi – rispondo.
Pochi minuti dopo dal portone entra un’altra visita.
– Collega buonasera… Sono di fretta, scusami, credi sia opportuno che tu stia qui da sola col Brossetti? Ti mando un operatore!
Ripeto: – Lo conosco, grazie.
Contrariato scuote la testa: – Beh, come vuoi… scusa vado di fretta!
Per la prima volta lo vedo, cioè, siamo ormai al nostro quarto incontro, ma non lo avevo mai visto così: minuto piccolo impacciato, sì… intendo lo psichiatra! I suoi tratti infantili risaltano su un impeccabile loden verde. Non ha camice, né cartellino e devo dire che non mi pare neppure lo stesso di alcuni mesi fa. È persino più basso di me, non me ne ero accorta! Questa sua preoccupazione e fretta mi irritano.
– Tranquillo, grazie… ma io Giuseppe lo conosco molto bene.
Un gesto educato col capo e mi saluta.
Passano 10… 15… lunghissimi. Il silenzio amplifica i pensieri, mi sembra di sentire distintamente il battito del mio cuore.
Ancora silenzio. Poi un rumore lontano di ciabatte che strisciano sul pavimento: sciaf sciaf, sono sempre più vicine… sciaf sciaf.
Un leggero bussare, poi compare alla porta: è tutto rosso in viso, grande come sempre, anzi forse di più, ha il viso commosso…
– Sei venuta! – fa un lungo respiro.
Ha la lingua impastata, gli occhi spalancati un poco persi nel vuoto; i capelli incorniciano un viso sproporzionato, un faccione piantato su un armadio di due metri con un’indole infantile.
Si siede a fatica, traballa, non vede bene le distanze, sistema le mani tra le ginocchia si dondola un po’ per prendere una posizione corretta.
– Scusa – dice – ma qui mi danno la terapia.
Sorride, poi il suo sguardo si perde nel vuoto, si perde, poi si spegne. Respira mi guarda ma nei suoi occhi, io non ci sono più.
– Giuseppe – sussurro con un filo di voce.
… immobile…
– Giuseppe – lo sfioro. – Giuseppe che ti succede? Sei la stessa persona incontrata in CT con tutte quelle tue battute e gli strafalcioni, il tuo mangiarti le parole, e la voglia di essere bravo?
In sei mesi era riuscito a crearsi uno spazio, un suo ruolo. Era strano, Giuseppe, ma non tanto. Fantasioso, un po’ sognatore. Non raccontava molto di sé. 28 anni, le scuole interrotte. Poi le sostanze… poi? Non aveva piacere di parlarne.
– Dai basta non parliamone più di quella cosa – e i tratti del suo viso si irrigidivano, la bocca tirava un po’ sul lato, chiudeva gli occhi e non c’era modo di continuare.
Lo sapevano tutti che lui era “il mostro di X*” ma tutti facevano finta di niente, o meglio non era quel Giuseppe lì, dicevano.
E piano piano, passati i primi mesi, aveva iniziato a sciogliersi, a darsi da fare nella cucina. In riunione si era detto disponibile a lavare i piatti, sempre… aveva aggiunto.
– No guarda che i turni durano una settimana – gli altri avevano riso.
– E io voglio lavarli sempre!
Non c’era stato mezzo di fargli cambiare idea. Del resto, che dire, si trattava di carcere: sì, perché la comunità era dentro il carcere e in carcere, si sa, il tempo è un concetto strano.
Certo, era difficile da trattare quando si impuntava, e diventava difficile tenerlo alla giusta distanza… lui era sempre lì, sempre a dirti che c’era, a cercare di farsi notare.
Riapre gli occhi… sorride, lo sento ritornare… gli occhi riprendono lo sguardo e adesso mi guarda.
– Giuseppe – sussurro.
Dondola: – Sì, ci sto bene qui!
Dondola e respira: – È come una famiglia anche se… io dico, qui è come una famiglia… come…
Chiuso. Riabbassa gli occhi, la bocca socchiusa, la lingua si fa pesante.
Lo guardo e mi sembra sia tutt’uno con la poltrona. Un pezzo di stoffa, una coperta.
Ecco si riprende: – E Vito? e gli altri lo sanno di me? vanno bene lì alla CT*?
Chiuso.
Ancora si perde nel vuoto a rintracciare ricordi, pensieri.
Chissà dov’è adesso, mi sento un nodo alla gola.
Riprende: – Non so se sto qui per tutto il percorso, forse scappo. Ti arrabbi con me? Io c’ho già provato, a scappare.
Un’altra volta collocato in un posto che sembra una famiglia e che non è una famiglia.
– Qui mi vogliono bene… io voglio andare a casa.
Si accende e si spegne proprio come una abat-jour.
Gli occhi da lucidi divengono opachi e sottolineano le assenze, l’andarsene dalla conversazione.
Poi d’improvviso riprende vita, sorride, sembra tornare ad abitare il suo corpo e si stacca dalla poltrona grigia: è tutto rosso in volto controlla il respiro allarga gli occhi.
– Mi dai una carezza? Qui sono stato cattivo e adesso devo prendere la terapia.
Credo che qualche cosa dentro mi si spezzi!
Per un attimo, odio amore tenerezza rabbia impotenza cadono in una voragine interna, in un gorgo del mio animo.
Lotto per non ripensarlo come l’ho conosciuto. Fiducioso attento così preoccupato di essere buono.
“Ce la farò”, si ripeteva.
Lo accarezzo sul viso. È raggiante, sembra persino rasserenato poi si alza di scatto.
Mi accorgo di un rumore di passi dal piano di sopra poi alle scale, che scende. Giuseppe mi guarda, ha il viso spaventato e d’incanto compare proprio all’angolo degli occhi un luccichio, una lacrima. Poi chiude.
– Giuseppe è scappato! – le urla degli altri detenuti, il panico: – Sottoressssa!
Impietrita nel bel mezzo di una riunione, non batto ciglio: tanto gli ospiti sono tutti stranieri: si trattava di un incontro di rappresentanza. 30 Direttori di Carceri, varie nazionalità, nessuno italiano a visitare la struttura.
E Giuseppe aveva deciso di evadere proprio quel giorno là: approfittando del trambusto, aveva deciso di prendere la 500 del volontario che lavorava nella serra attigua al carcere.
La serra era una delle attività quotidiane a cui i detenuti erano ammessi a lavorare all’esterno della cinta muraria. Liberi, con un solo agente in borghese. Giuseppe – non so come – era entrato in quella 500 ed era volato via… Sì ma dove?
– Presto bisogna fare presto, deve tornare, altrimenti scatta l’evasione!
Già, perché se ritorni non sei considerato evaso!
– Ma dove lo troviamo?
Beppe! C’è un tam tam, di voci, telefonate, qualcuno parte in macchina.
Mi alzo educatamente dall’incontro: – Scusatemi un minuto – l’interprete traduce.
– Un inconveniente – traduzione.
Beppe… passano i minuti, nulla.
Tutto torna normale, riprendiamo la riunione. I Direttori vanno a pranzo, e noi aspettiamo… di Beppe non si sa nulla.
Aspettiamo.
– Dottoressa al telefono.
– Pronto? Sono Beppe, mi sa che ho fatto una cazzata, sono a Mestre ma voglio tornare a casa… in carcere.
– Torna subito! – gli urlo per telefono.
– Ma cosa dico?
– Tu torna più in fretta che puoi, noi parliamo col Direttore. Ma… torna!
Ancora la raccontano: Il Beppe aveva telefonato che voleva tornare!
– Si puoo? – la porta si apre ed entra lo sgobbone con gli occhialini.
No che non si può! non si può!
Giuseppe è scomparso dentro al suo sguardo, scalpita, batte i piedi, dondolandosi un po’. Di nuovo la lingua fuori, e quello sguardo.
– Vieni che ti do la terapia! – dice.
È la fine, la fine del nostro colloquio.
Vicini percorriamo il corridoio. Un nuovo psichiatra ci viene incontro, dice qualche cosa rivolgendosi a Giuseppe con un ostile “Lei” ma io, non credo di voler capire la sua lingua!
Quando il portone si chiude alle mie spalle e rimango nel buio del viale, mi sembra tutto così infinitamente triste e vuoto. Giuseppe ha 28 anni, molti di quali passati a cercare una famiglia, la sua, che non c’è stata. Violenze, allontanamenti, disturbi e una etichetta da matto.
Per tanti mesi è stato anche un altro: ha potuto parlare di sé, non solo con il suo disturbo. È stato, coccolato amato… proprio in galera.
Oggi hanno chiamato. Qualcuno ha confermato: – È proprio matto, pensate, al terzo giorno di coma si è risvegliato e diceva che voleva andare in galera!
Ha cercato di scappare: si è gettato dal quarto piano. Dal balcone del quarto piano della scuola.
È morto dopo 10 giorni di coma.
Ha detto proprio così: – Beppe quando si è svegliato, per pochi minuti… “portatemi in galera”.
NOI sappiamo che se voleva tornare in galera, Beppe, non era matto per niente!
A volte a noi “operatori” capita, di vivere storie forti.
Capita di essere il contenitore di emozioni… forti.
Di dover tradurre parole di lingue diverse.
A volte, mi è capitato, che il cuore mi abbia giocato brutti scherzi, perché ho vissuto cose importanti. E oggi ho avuto il bisogno di raccontarle :-DDDDDD!!!!!
Lo stile semplice del racconto fa da contrasto alla complessità dei sentimenti
messi in gioco da parte dei protagonisti. Una lieve sensazione di angoscia
tiene il lettore legato al testo e lo fa solidarizzare con Beppe. Il saluto
finale diventa così anche quello del lettore e non solo dell'autore. (Alessandro
Chiarini)
Scritto
in modo molto lineare, scorrevole, piacevole e...disarmante nello stesso tempo.
Bella storia. (Alessandra Pederzoli)
Caterina Staccioli è nata e lavora a Rimini, come medico responsabile del Centro alcol e fumo. Trova dall’incontro con le storie vere dei suoi pazienti il piacere di narrare le emozioni dell’ascolto.
Quarto
classificato ex aequo
LUCE di Silvia Ambrosini
(Rimini)
Non so bene cosa mi spinse alla fine a scegliere la luce: le giornate piene, complete, dense di occasioni. Prima c’erano stati giorni di vento, innumerevoli, in fila, come filo spinato a recintare la mia Vita.
Non sentivo, allora, il battito del cuore, non gioivo del sole, del mare, del respiro dolce del creato.
Percepivo solo il dolore, che si faceva strada spesso, dentro me, in forme sempre diverse.
Quante domande dalle risposte impossibili mi nascevano dentro, per restare lì, inadeguate e stupidamente vane, domande a cui s’aggrovigliava il respiro che da lento diveniva affannoso, senza limite, senza speranza.
Le scale erano in salita… sempre. Lassù in cima a volte intravvedevo una porzione di bello, però arrivava sempre una tendina scura a coprire il tutto. Allora scomparivano fiori e colori e restavo io, muta e sola, senza un perché.
Un giorno cominciai a camminare. Prima lentamente, poi più velocemente. Me lo prescrissero, di camminare, me lo ordinò un camice bianco.
Lo presi come un consiglio del cielo e per una volta mi fidai.
All’inizio non camminavo tanto ma poi avevo cominciato a prenderci gusto. Sentivo le gambe divenire toniche, le percepivo vive e forti, soprattutto lì dove si attaccano all’anca.
I passi si susseguivano uno all’altro senza esitazione. Mi pareva di avere dentro un motore che mi spingeva a procedere.
Avevo trovato una nuova forma d’essere. Gli alberi sfilavano allineati sotto il mio sguardo attento e il mare laggiù sullo sfondo a fare da cornice al tutto. Inspirando l’aria, di tanto in tanto, interrompevo il ritmo veloce del cuore che aveva preso improvvisamente a esistere. Mi pervadeva un senso di bello e di assoluto che non avevo conosciuto mai.
Camminando finalmente mi amavo un po’.
Quello che doveva essere un rimedio per un cuore un po’ ballerino stava diventando un nuovo stile di vita.
Tornavo a casa nuova, pulita, colma di infinito.
Un giorno feci anche un incontro.
Una gattina magra e spelacchiata se ne stava vicino a una panchina a mangiare qualche briciola. Il suo musetto simpatico mi intenerì subito. Vedendo che non veniva rivendicata da alcun padrone, la presi in braccio e feci un pensiero folle: portarla a casa.
No, no, non se ne parla nemmeno… e continuai a camminare. Spelacchia però mi seguì. Ad ogni passo e a ogni fermata era con me. Entrai in un negozio anche per sfuggire all’inseguimento. La ritrovai col muso all’insù che mi scrutava: – Beh comprato niente? – mi chiese con gli occhietti furbi!
Cominciai a parlarle come fosse stata un’amica e mi sembravo un po’ pazza.
Arrivata alla macchina non feci in tempo ad aprire lo sportello che Spelacchia entrò dentro miagolando. Che fare? Non potevo portarla a casa ma nemmeno abbandonarla. Un gatto, no non ci entrava nella mia vita indaffarata… un gatto… no no. Ma lei non sentiva ragioni. Mangio poco, costo poco mi dicevano gli occhi furbetti.
Fu così che partii verso casa e che quando entrai avevo una specie di fagotto in braccio.
Io e Spelacchia divenimmo amiche tanto che nelle passeggiate ormai mi seguiva come un cagnolino. Mi sentivo un’altra. Ex depressa, camminatrice, con gatta al seguito. Non era chiaro cosa fosse accaduto di preciso dentro me. Forse era stata l’aria o il vento o il sole o un dolce miagolio o la fatica fisica, il sudore, il respiro affannoso, la gioia di vivere, le emozioni nuove. Tutto un mix vitale che vedevo sgorgare intorno a me come fossi nata solo allora. E diventavano belli i pensieri e i genitori e i fratelli e gli amici e l’amore e il dolore e tutto ciò che avevo già, che possedevo già, assumeva un aspetto nuovo. Come la pelle di un neonato, che sembra avvolto in una pellicola di luce. Come il profumo dei libri nuovi, appena li hai comprati e te li gusti aprendoli una volta a casa.
Un’emozione sana e bella aveva sostituito il buio. Il nodo si era sciolto, il calore si era diffuso.
Semplicemente così alla fine… avevo scelto la luce. Scriverlo mi ha un po’ aiutato a svelare il mistero, ma dovrò scriverne ancora per penetrarlo e dare spazio a ciò che è veramente accaduto: in fondo alla fine va bene dimenticarsi un po’ di sé stessi e non dare tanta importanza a come è veramente andata.
L’importante è il risultato. Spelacchia, mentre fa le fusa, dopo essersi mangiata tutti i croccantini, mi dice, con gli occhi furbetti, che va bene: – Sì, va tutto bene…
Non sentivo, allora, il battito del cuore, non gioivo del sole, del mare, del respiro dolce del creato.
Percepivo solo il dolore, che si faceva strada spesso, dentro me, in forme sempre diverse.
Quante domande dalle risposte impossibili mi nascevano dentro, per restare lì, inadeguate e stupidamente vane, domande a cui s’aggrovigliava il respiro che da lento diveniva affannoso, senza limite, senza speranza.
Le scale erano in salita… sempre. Lassù in cima a volte intravvedevo una porzione di bello, però arrivava sempre una tendina scura a coprire il tutto. Allora scomparivano fiori e colori e restavo io, muta e sola, senza un perché.
Un giorno cominciai a camminare. Prima lentamente, poi più velocemente. Me lo prescrissero, di camminare, me lo ordinò un camice bianco.
Lo presi come un consiglio del cielo e per una volta mi fidai.
All’inizio non camminavo tanto ma poi avevo cominciato a prenderci gusto. Sentivo le gambe divenire toniche, le percepivo vive e forti, soprattutto lì dove si attaccano all’anca.
I passi si susseguivano uno all’altro senza esitazione. Mi pareva di avere dentro un motore che mi spingeva a procedere.
Avevo trovato una nuova forma d’essere. Gli alberi sfilavano allineati sotto il mio sguardo attento e il mare laggiù sullo sfondo a fare da cornice al tutto. Inspirando l’aria, di tanto in tanto, interrompevo il ritmo veloce del cuore che aveva preso improvvisamente a esistere. Mi pervadeva un senso di bello e di assoluto che non avevo conosciuto mai.
Camminando finalmente mi amavo un po’.
Quello che doveva essere un rimedio per un cuore un po’ ballerino stava diventando un nuovo stile di vita.
Tornavo a casa nuova, pulita, colma di infinito.
Un giorno feci anche un incontro.
Una gattina magra e spelacchiata se ne stava vicino a una panchina a mangiare qualche briciola. Il suo musetto simpatico mi intenerì subito. Vedendo che non veniva rivendicata da alcun padrone, la presi in braccio e feci un pensiero folle: portarla a casa.
No, no, non se ne parla nemmeno… e continuai a camminare. Spelacchia però mi seguì. Ad ogni passo e a ogni fermata era con me. Entrai in un negozio anche per sfuggire all’inseguimento. La ritrovai col muso all’insù che mi scrutava: – Beh comprato niente? – mi chiese con gli occhietti furbi!
Cominciai a parlarle come fosse stata un’amica e mi sembravo un po’ pazza.
Arrivata alla macchina non feci in tempo ad aprire lo sportello che Spelacchia entrò dentro miagolando. Che fare? Non potevo portarla a casa ma nemmeno abbandonarla. Un gatto, no non ci entrava nella mia vita indaffarata… un gatto… no no. Ma lei non sentiva ragioni. Mangio poco, costo poco mi dicevano gli occhi furbetti.
Fu così che partii verso casa e che quando entrai avevo una specie di fagotto in braccio.
Io e Spelacchia divenimmo amiche tanto che nelle passeggiate ormai mi seguiva come un cagnolino. Mi sentivo un’altra. Ex depressa, camminatrice, con gatta al seguito. Non era chiaro cosa fosse accaduto di preciso dentro me. Forse era stata l’aria o il vento o il sole o un dolce miagolio o la fatica fisica, il sudore, il respiro affannoso, la gioia di vivere, le emozioni nuove. Tutto un mix vitale che vedevo sgorgare intorno a me come fossi nata solo allora. E diventavano belli i pensieri e i genitori e i fratelli e gli amici e l’amore e il dolore e tutto ciò che avevo già, che possedevo già, assumeva un aspetto nuovo. Come la pelle di un neonato, che sembra avvolto in una pellicola di luce. Come il profumo dei libri nuovi, appena li hai comprati e te li gusti aprendoli una volta a casa.
Un’emozione sana e bella aveva sostituito il buio. Il nodo si era sciolto, il calore si era diffuso.
Semplicemente così alla fine… avevo scelto la luce. Scriverlo mi ha un po’ aiutato a svelare il mistero, ma dovrò scriverne ancora per penetrarlo e dare spazio a ciò che è veramente accaduto: in fondo alla fine va bene dimenticarsi un po’ di sé stessi e non dare tanta importanza a come è veramente andata.
L’importante è il risultato. Spelacchia, mentre fa le fusa, dopo essersi mangiata tutti i croccantini, mi dice, con gli occhi furbetti, che va bene: – Sì, va tutto bene…
Una passeggiata, una camminata senza meta
ordinata da un “camice bianco” si trasforma presto in una sorta di cosmogonia,
in una lotta tra luce ed ombre, tra depressione e gioia di esserci, tra noia e
meraviglia, tra disperazione e sollievo con la consapevolezza che le tenebre
non prevarranno. (Alex Celli)
Silvia Ambrosini è nata a Rimini dove vive e lavora come impiegata. Coltiva da molti anni la passione per la scrittura, sia in veste di giornalista pubblicista, collaborando con un giornale locale, sia come scrittrice di racconti brevi. Ha partecipato nel 2011 al concorso Fantastici Castelli nel riminese, indetto dalla Provincia di Rimini, risultando vincitrice con il racconto “Il quadro magico”. Le tematiche che più la interessano attraversano i mondi del sociale, dell’ambiente, della disabilità. Il suo stile di scrittura è giudicato originale e capace di emozionare il lettore.
Quarto
classificato ex aequo
Scusate il disturbo di Edda Bertuccioli
Mia madre intuì di essere in attesa ancora prima di avere fatto il test. Era stato come per mio fratello, quel leggerissimo, quasi impercettibile capogiro, unico in tutta la gravidanza.
Nacqui bruttino, occhi gonfi, senza sopracciglia né capelli, una bocca sempre spalancata per piangere e chiedere cibo che però faticavo ad inghiottire. Nessuno capiva che cosa avessi, nessuno capiva e tantomeno io, che mi ero trovato catapultato all’improvviso in un mondo di merda in cui non avevo chiesto io di entrare ma nel quale ero tanto stato desiderato dalla mamma.
Dicono che la maternità sia la cosa più bella che possa capitare ad una donna, la mamma lo sapeva già, ci era passata con Enrico… forse avrebbe potuto bastarle. I miei primi anni trascorsero con un po’ di difficoltà, ma diverse cose mi impedivano di essere veramente integrato con i miei compagni: io non capivo bene le cose di cui parlavano e perdevo l’interesse a stare a lungo con loro.
Avevo anche iniziato a fare gli allenamenti di calcio ma, se capitava che nel mezzo della partita passasse un trattore nel campo vicino, dovevo fermarmi a guardarlo perché quella sì che era una cosa interessante per me! Allora i compagni di squadra mi richiamavano… così smisi di andare a calcio.
Ci fu un giorno d’estate in cui la mamma mi osservava giocare con gli altri bambini lungo la stradina vicino a casa: quel giorno più di altre volte lei capì quanto fossi diverso e quanto desiderasse che questa diversità non fosse un ostacolo alla mia felicità. Così di punto in bianco chiese al babbo di andare tutti insieme a fare una visita alla basilica di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. Solo per pregare un momento, un atto di fede semplice per mettere nelle mani di Dio la nostra fatica quotidiana ed il mio destino.
Io ho un caro amico che ha frequentato con me le scuole elementari e le medie. Ricordo che una volta fece un tema su di me. Mi chiamava”Red”, non so perché, e mi conosceva come un ragazzino molto espansivo ed estroverso, mentre lui era un po’ timido. Pensava, anzi ne era certo, che io un giorno me la sarei cavata molto meglio di lui con le ragazze, ma si sbagliava. Adesso che abbiamo ventidue anni, lui ha la morosa da una vita, io neanche l’ombra. Quella della morosa è per me una grossa spina nel fianco. Sono anni che desidero stare con una ragazza, mi riempio la camera di foto sexy ma non è la stessa cosa. Ogni tanto c’è qualcuna che mi presta delle attenzioni e allora mi illudo, credo mi faccia il filo, poi invece… Mi sa che per loro sono solo uno che fa un po’ tenerezza… o un po’ pena.
Per un paio di anni i miei genitori mi hanno permesso di uscire il sabato sera. Andavo al pub, dove incontravo tanti ragazzi e ragazze: si stava un po’ insieme a bere, fumare, ascoltare musica, qualcuno ogni tanto faceva a cazzotti. Poi c’era sempre chi andava via, andavano a ballare in qualche locale; qualche volta mi hanno portato, ma poi per me non c’era più posto. La mamma ha cercato di aiutarmi chiedendo appiglio ad alcuni amici miei, ma si sa che io non sono così facile da gestire. Lei si sentiva a disagio e le veniva sempre la consapevolezza di essere un fastidio e di doversi scusare, scusare per il disturbo… quante volte da quando sono nato ho sentito su di me un carico di scuse da dover distribuire nel corso della mia vita!
Andare nei locali è così bello per me, mi fa sentire grande, ci trovi delle belle gnocche da guardare: solo guardare, ma è già qualcosa. È passato più di un anno, da quando ci sono andato l’ultima volta, non so neanche se e quando potrò tornarci. Da solo non posso andare da nessuna parte, non ho neanche la patente. E poi i miei hanno sempre paura che mi succeda qualcosa.
Già, ho il maledetto vizio di incantarmi a osservare le persone: quelle dopo magari si incazzano e mi prendono per il culo, nel migliore dei casi; nel peggiore rischio anche di prenderle. Così, quando i miei amici fiutano che vorrei accodarmi, si verifica un fuggi fuggi generale e… chi s’è visto s’è visto. Rimango da solo.
Adesso al pub, il sabato sera, non ci vado neanche più, a meno che non ci sia qualche anima buona che resti con me tutta la sera. Tutto questo perché l’ultima volta che i miei si sono fidati a lasciarmi solo sperando che trovassi una buona compagnia, io li ho delusi. Mi sono ritrovato a seguire un bamboccio più vecchio di me ma con meno testa che mi ha ciulato tutti i soldi che avevo e se li è bevuti, poi ho dovuto chiamare il babbo che mi venisse a prendere alle quattro del mattino. Ha dovuto anche riportare a casa il bamboccio! Da quella volta i miei hanno paura, perché sanno che io mi fido troppo delle persone, penso che siano tutte brave, ma non è così. Solo che io non so riconoscerle.
Come quella volta, la scorsa estate, quando quell’uomo mi ha avvicinato. Io credevo che mi volesse dire qualcosa, ero incuriosito, lui era un po’ ubriaco e cantava, mi faceva anche ridere. L’ho seguito, ma in quel campo ho conosciuto la paura, il dolore, la rabbia e la frustrazione. Quella sera quando sono tornato a casa non volevo raccontare niente, mi vergognavo e credevo fosse colpa mia, ho fatto la doccia ma non potevo toccarmi perché mi facevo male. Ancora mi capita spesso di sognarlo quell’uomo, ed è come se lui fosse lì in camera mia e mi sveglio terrorizzato.
Quand’ero bambino la mamma a volte mi chiedeva se ero felice della mia vita e io le rispondevo “sì, molto” e sorridevo. Forse temeva che il mio essere diverso dagli altri bambini fosse un peso troppo grande per me. In effetti mi sono accorto di avere qualche problema, ma la mamma mi ha sempre ripetuto che non possiamo e non dobbiamo essere tutti uguali, che c’è chi ha delle capacità chi altre, chi dei doni chi altri, e che dobbiamo cercare di migliorare sempre.
In questi giorni ha fatto un casino di neve, quindi non sono potuto andare a lavorare alla stalla perché la strada è bloccata. Così passo la maggior parte della giornata al bar. La mamma, a proposito di neve, è venuta a sapere che i miei amici in questo w.e. sono andati a divertirsi sulle colline di Morciano e lei c’è rimasta piuttosto male, perché a me non ci pensa mai nessuno, non mi cerca mai nessuno. Infatti io non ricevo mai chiamate dagli amici, sono io a farle: l’unico che si ricorda di me è Angelo e a volte Andrea. Ma io non ce l’ho con loro, glielo avevo già detto altre volte alla mamma, non posso mica avercela con loro. Se poi penso a quanto è stato carino con me Manuel quella volta! Mi hanno davvero fatto una bella sorpresa i miei amici! Era un pezzo che me la menavano: “Dai che andiamo a puttana”, e quella volta hanno fatto un numero sul cellulare e mi hanno preso un appuntamento: “C’è un ragazzo che ha bisogno di te”, le hanno detto.
Mi hanno messo in mano un biglietto da 50 e mi hanno aspettato di sotto. Io ero un po’ timido perché non l’avevo mai fatto prima, ma quella ragazza è stata molto gentile e mi ha fatto stare bene. A volte ci vorrei tornare, ci penso, ma i miei amici ed anche i miei genitori hanno detto che non deve diventare un vizio, così mi tocca stare buono. Mio fratello ha detto che lui non è mai stato con una di quelle, ma per lui è diverso, lui ha la morosa e tra poco andranno a vivere insieme.
Enrico per me non è stato un fratello con cui giocare, anche perché io non ero capace di giocare, poi siamo troppo diversi e penso che lui non sia mai riuscito ad accettarmi. Forse ci soffre, forse prova rabbia, delusione, mi vorrebbe diverso , così come tutti vorremmo diversi quelli che ci stanno vicino. Magari ha ancora un po’ di quella gelosia di quando eravamo piccoli e dice che la mamma mi protegge troppo. Anch’io ero geloso di lui, soprattutto quando portava a casa tutte quelle coppe del karate. Ricordo che una volta i miei ne regalarono una anche a me perché avevo superato la paura di stare in un luogo alto: quella volta mi ero sentito importante e bravo come Enrico. A volte mi sembra che non mi voglia molto bene perché ha sempre un modo aggressivo nei miei confronti, io invece avrei tanta voglia di abbracciarlo e che anche lui lo facesse! A me piacciono le coccole, la mamma ogni tanto me le fa.
Certo che se avessi una ragazza mi piacerebbero ancora di più! Forse un giorno arriverà ma chissà quando…
Nel frattempo vivo alla giornata, anche la mamma dice che è meglio fare così, un po’ per tutti, perché guardare troppo avanti fa sforzare troppo la vista e si rischia di non vedere quello che abbiamo vicino. E così quando la mamma ieri sera mi ha chiesto: “Marco, sei felice?” io le ho risposto con un sorriso: “Sì, mamma, quasi tanto!”
Nacqui bruttino, occhi gonfi, senza sopracciglia né capelli, una bocca sempre spalancata per piangere e chiedere cibo che però faticavo ad inghiottire. Nessuno capiva che cosa avessi, nessuno capiva e tantomeno io, che mi ero trovato catapultato all’improvviso in un mondo di merda in cui non avevo chiesto io di entrare ma nel quale ero tanto stato desiderato dalla mamma.
Dicono che la maternità sia la cosa più bella che possa capitare ad una donna, la mamma lo sapeva già, ci era passata con Enrico… forse avrebbe potuto bastarle. I miei primi anni trascorsero con un po’ di difficoltà, ma diverse cose mi impedivano di essere veramente integrato con i miei compagni: io non capivo bene le cose di cui parlavano e perdevo l’interesse a stare a lungo con loro.
Avevo anche iniziato a fare gli allenamenti di calcio ma, se capitava che nel mezzo della partita passasse un trattore nel campo vicino, dovevo fermarmi a guardarlo perché quella sì che era una cosa interessante per me! Allora i compagni di squadra mi richiamavano… così smisi di andare a calcio.
Ci fu un giorno d’estate in cui la mamma mi osservava giocare con gli altri bambini lungo la stradina vicino a casa: quel giorno più di altre volte lei capì quanto fossi diverso e quanto desiderasse che questa diversità non fosse un ostacolo alla mia felicità. Così di punto in bianco chiese al babbo di andare tutti insieme a fare una visita alla basilica di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. Solo per pregare un momento, un atto di fede semplice per mettere nelle mani di Dio la nostra fatica quotidiana ed il mio destino.
Io ho un caro amico che ha frequentato con me le scuole elementari e le medie. Ricordo che una volta fece un tema su di me. Mi chiamava”Red”, non so perché, e mi conosceva come un ragazzino molto espansivo ed estroverso, mentre lui era un po’ timido. Pensava, anzi ne era certo, che io un giorno me la sarei cavata molto meglio di lui con le ragazze, ma si sbagliava. Adesso che abbiamo ventidue anni, lui ha la morosa da una vita, io neanche l’ombra. Quella della morosa è per me una grossa spina nel fianco. Sono anni che desidero stare con una ragazza, mi riempio la camera di foto sexy ma non è la stessa cosa. Ogni tanto c’è qualcuna che mi presta delle attenzioni e allora mi illudo, credo mi faccia il filo, poi invece… Mi sa che per loro sono solo uno che fa un po’ tenerezza… o un po’ pena.
Per un paio di anni i miei genitori mi hanno permesso di uscire il sabato sera. Andavo al pub, dove incontravo tanti ragazzi e ragazze: si stava un po’ insieme a bere, fumare, ascoltare musica, qualcuno ogni tanto faceva a cazzotti. Poi c’era sempre chi andava via, andavano a ballare in qualche locale; qualche volta mi hanno portato, ma poi per me non c’era più posto. La mamma ha cercato di aiutarmi chiedendo appiglio ad alcuni amici miei, ma si sa che io non sono così facile da gestire. Lei si sentiva a disagio e le veniva sempre la consapevolezza di essere un fastidio e di doversi scusare, scusare per il disturbo… quante volte da quando sono nato ho sentito su di me un carico di scuse da dover distribuire nel corso della mia vita!
Andare nei locali è così bello per me, mi fa sentire grande, ci trovi delle belle gnocche da guardare: solo guardare, ma è già qualcosa. È passato più di un anno, da quando ci sono andato l’ultima volta, non so neanche se e quando potrò tornarci. Da solo non posso andare da nessuna parte, non ho neanche la patente. E poi i miei hanno sempre paura che mi succeda qualcosa.
Già, ho il maledetto vizio di incantarmi a osservare le persone: quelle dopo magari si incazzano e mi prendono per il culo, nel migliore dei casi; nel peggiore rischio anche di prenderle. Così, quando i miei amici fiutano che vorrei accodarmi, si verifica un fuggi fuggi generale e… chi s’è visto s’è visto. Rimango da solo.
Adesso al pub, il sabato sera, non ci vado neanche più, a meno che non ci sia qualche anima buona che resti con me tutta la sera. Tutto questo perché l’ultima volta che i miei si sono fidati a lasciarmi solo sperando che trovassi una buona compagnia, io li ho delusi. Mi sono ritrovato a seguire un bamboccio più vecchio di me ma con meno testa che mi ha ciulato tutti i soldi che avevo e se li è bevuti, poi ho dovuto chiamare il babbo che mi venisse a prendere alle quattro del mattino. Ha dovuto anche riportare a casa il bamboccio! Da quella volta i miei hanno paura, perché sanno che io mi fido troppo delle persone, penso che siano tutte brave, ma non è così. Solo che io non so riconoscerle.
Come quella volta, la scorsa estate, quando quell’uomo mi ha avvicinato. Io credevo che mi volesse dire qualcosa, ero incuriosito, lui era un po’ ubriaco e cantava, mi faceva anche ridere. L’ho seguito, ma in quel campo ho conosciuto la paura, il dolore, la rabbia e la frustrazione. Quella sera quando sono tornato a casa non volevo raccontare niente, mi vergognavo e credevo fosse colpa mia, ho fatto la doccia ma non potevo toccarmi perché mi facevo male. Ancora mi capita spesso di sognarlo quell’uomo, ed è come se lui fosse lì in camera mia e mi sveglio terrorizzato.
Quand’ero bambino la mamma a volte mi chiedeva se ero felice della mia vita e io le rispondevo “sì, molto” e sorridevo. Forse temeva che il mio essere diverso dagli altri bambini fosse un peso troppo grande per me. In effetti mi sono accorto di avere qualche problema, ma la mamma mi ha sempre ripetuto che non possiamo e non dobbiamo essere tutti uguali, che c’è chi ha delle capacità chi altre, chi dei doni chi altri, e che dobbiamo cercare di migliorare sempre.
In questi giorni ha fatto un casino di neve, quindi non sono potuto andare a lavorare alla stalla perché la strada è bloccata. Così passo la maggior parte della giornata al bar. La mamma, a proposito di neve, è venuta a sapere che i miei amici in questo w.e. sono andati a divertirsi sulle colline di Morciano e lei c’è rimasta piuttosto male, perché a me non ci pensa mai nessuno, non mi cerca mai nessuno. Infatti io non ricevo mai chiamate dagli amici, sono io a farle: l’unico che si ricorda di me è Angelo e a volte Andrea. Ma io non ce l’ho con loro, glielo avevo già detto altre volte alla mamma, non posso mica avercela con loro. Se poi penso a quanto è stato carino con me Manuel quella volta! Mi hanno davvero fatto una bella sorpresa i miei amici! Era un pezzo che me la menavano: “Dai che andiamo a puttana”, e quella volta hanno fatto un numero sul cellulare e mi hanno preso un appuntamento: “C’è un ragazzo che ha bisogno di te”, le hanno detto.
Mi hanno messo in mano un biglietto da 50 e mi hanno aspettato di sotto. Io ero un po’ timido perché non l’avevo mai fatto prima, ma quella ragazza è stata molto gentile e mi ha fatto stare bene. A volte ci vorrei tornare, ci penso, ma i miei amici ed anche i miei genitori hanno detto che non deve diventare un vizio, così mi tocca stare buono. Mio fratello ha detto che lui non è mai stato con una di quelle, ma per lui è diverso, lui ha la morosa e tra poco andranno a vivere insieme.
Enrico per me non è stato un fratello con cui giocare, anche perché io non ero capace di giocare, poi siamo troppo diversi e penso che lui non sia mai riuscito ad accettarmi. Forse ci soffre, forse prova rabbia, delusione, mi vorrebbe diverso , così come tutti vorremmo diversi quelli che ci stanno vicino. Magari ha ancora un po’ di quella gelosia di quando eravamo piccoli e dice che la mamma mi protegge troppo. Anch’io ero geloso di lui, soprattutto quando portava a casa tutte quelle coppe del karate. Ricordo che una volta i miei ne regalarono una anche a me perché avevo superato la paura di stare in un luogo alto: quella volta mi ero sentito importante e bravo come Enrico. A volte mi sembra che non mi voglia molto bene perché ha sempre un modo aggressivo nei miei confronti, io invece avrei tanta voglia di abbracciarlo e che anche lui lo facesse! A me piacciono le coccole, la mamma ogni tanto me le fa.
Certo che se avessi una ragazza mi piacerebbero ancora di più! Forse un giorno arriverà ma chissà quando…
Nel frattempo vivo alla giornata, anche la mamma dice che è meglio fare così, un po’ per tutti, perché guardare troppo avanti fa sforzare troppo la vista e si rischia di non vedere quello che abbiamo vicino. E così quando la mamma ieri sera mi ha chiesto: “Marco, sei felice?” io le ho risposto con un sorriso: “Sì, mamma, quasi tanto!”
Chiara
ed efficace descrizione della condizione di un disabile vista dall'interno.
(Francesco Gaggi)
Scritto
con una semplicità e una efficacia incredibile, mi colpisce e mi emoziona
questo ritorno continuo della parola "mamma". (Alessandra Pederzoli)
Edda Bertuccioli è una casalinga diplomata al liceo con l’hobby della lettura e della pittura. Dopo aver brevemente provato l’esperienza universitaria, il non felice impatto l’ha portata a scegliere di dedicare la sua vita alla famiglia. Felicemente sposata da 28 anni e madre di due fantastici ragazzi, Enrico e Marco. Quest’ultimo ha ispirato il suo racconto, un racconto che parte dal vissuto. Cerca qualche momento di svago e di intimità condividendo con suo marito la passione per la moto.
Quarto
classificato ex aequo
Onda di piena di Frank Spada (Udine)
Lasciano la sala parrocchiale. Gianni va con gli altri al Longobardo. Gloria, invece, questa sera non si sente bene (rinuncia al piacere di un caffè con panna assieme al coro), e vuole allontanarsi, correre a casa, dove vive sola.
Via del Patriarca e svolta nella stretta di Santa Maria di Corte, affretta il passo tra gli intervalli dei fanali appesi alle facciate, cupe di mattoni – salmastri nelle fughe addossate al Monastero delle Benedettine.
Scende le scale di pietra Piasentina – nebbiose per i riflessi umidi che risalgono gli acciottolati medioevali – e qualcosa pare trattenerla. Guarda in alto, la sagoma del Duomo ritagliata sul fondale; poi dall’altra parte, verso la Slovenia, verso la notte che va in scena dal levante autunnale di un cielo senza luna.
Piazza San Biagio. Folate di scirocco muovono forme vorticanti sinuosità di grigio-piombo – si alzano dal fiume, dall’ansa larga che cinge quel luogo preservato nel tempo, sovrastante la corrente del Natisone che rumoreggia là sotto, in fondo al salto. Che innalza le due arcate del Ponte del Diavolo…
Si stringe nelle spalle – come per esiliarsi dal mondo per una colpa che sente solo sua – l’inquietudine la riporta nel passato, nella tenebra che solleva le navate, lungo la scaletta attorcigliata all’occhiaia del portale, risuonante echi muti, preghiere inascoltate, genuflesse agli altari tremolanti fatui borbottii, riverberi rossastri tra i colonnati accesi dai lumini: rivede le proprie mani sopra la tastiera.
Rammenta che lasciò per ultima il soppalco, il tonfo del portone dopo la funzione in suffragio dei defunti, le risa dei giovani coristi: Halloween, Maria… va con loro a un festino.
E i lamenti, le implorazioni, i passi strascicanti sugli incavi di pietra? E le avvisaglie in volo su ali nere di nubi che brontolano i primi echi di un tuono, e i bagliori lontani nella piana? Nessuno vede, avverte, teme…
Raggiunge Borgo Brossana, il lungofiume. Le foglie accartocciate intrigano il percorso, lo scricchiolio delle sue scarpe la distrae. Una musica appena percepibile arriva alle sue orecchie.
Alza lo sguardo verso l’altra riva, la vede smarrirsi nella nebbiosità dei figuranti. Li avvolge in un fremito ammaliante. I suoni sono tenui. L’orecchio esercitato li ravviva. Le punteggiature diventano più nette al ripetersi di una melodia. Tra le figure plumbee, alcune si muovono all’unisono, danzano, eseguono spirali dentro spirali, a mezz’aria sopra il fluire del fiume e avanzano davanti allo stupore dei suoi occhi. L’udito sblocca la retroazione delle retine: ricorda una sera al cineforum, a Udine, quando un uomo promettendo… i corpi al buio, separati soltanto da un bracciolo.
Proiettavano La morte scorre sul fiume di Charles Laughton, il solo film che vide un grande attore – corpulento e sornione – dietro la macchina da presa.
All’uscita, le riflessioni sulle sequenze messe in luce in bianco e nero, da una storia malignamente tragica ed eterna, degenerarono affrontando il tema della debolezza della donna – Willa Harper-Shelley Winters, la protagonista – raffrontata alla protervia umana, in questo caso a quella di un predicatore con le nocche tatuate: love, hate – Robert Mitchum. Gloria s’infiammò personalizzando i fatti, i protagonisti. E caricò le sue parole di violenza.
Lui provò a calmarla; invertì ruoli, sentimenti, azioni e destini reiterando i suoi miti letterari. Poi tentò di nuovo d’ingannarla, infuriandosi, e inveì colpendola sul viso. Fu allora che lei vide il buio nel fondo dei suoi occhi e, divincolandosi, girandogli le spalle, lo maledì… com’era giusto per sé stessa.
Lui se ne andò sgommando. Nemmeno un’ora dopo finì imprigionato uscendo fuori strada, nella bassa friulana, annegato alla confluenza del Natisone – lento, largo tra le rive distanziate dell’Isonzo in prossimità del mare.
Gloria, dopo la sua morte, incatenò la propria solitudine all’ossessione insana di un ricordo, un amore vissuto in qualche camera da letto, in alberghetti sparsi tra le gite, oltre confine. Un amore interpretato soltanto con le attese, magari attorno a un fuoco, con le caldarroste in mano e il vino stretto tra i denti, i baci rubati negli androni in primavera, le promesse di quell’uomo… il cineforum ogni tanto, d’inverno, per accontentarla nella sua passione per il cinema d’autore.
Lei lo amava tanto. Lei non voleva, lei... “no, non può essere, Dio non lo permetterebbe”, pensava aggrappando la speranza a una battuta silenziosa – nascosta da James Agee, lo sceneggiatore, dietro una sequenza di quel film di Laughton – unita all’incredulità di Willa Harper, un attimo prima di morire per mano di un predicatore.
Finché un mattino… Gloria andò da una donna compiacente.
Il giorno dopo, verso l’imbrunire, lui l’accompagnò al Santuario di Castelmonte. Lei accese un lumino alla Madonna nera, implorando perdono nella cripta. Lui rimase assorto, a guardare le immagini votive appese alle pareti, stupito per l’aria calda delle fiammelle accese a centinaia e, lungo la strada del ritorno, le disse che il giorno prima era dovuto andare a scuola, a prendere il bambino: compiva gli anni… Gloria scoppiò a piangere. E lui, accendendo l’ennesima sigaretta, aggiunse al fumo il fastidio nauseante delle curve a gomito, irritanti la fragilità nervosa trattenuta in silenzio da chi le stava accanto, ripetendo parole assurde per distrarre le sue lacrime – appallottolate nel mutismo dei fazzolettini di carta che le passava tra un tornante e l’altro.
A Cividale, di fronte a due tazzine di caffè con panna, al Longobardo, lui le parlò chiedendo ancora tempo, promettendo il divorzio dalla moglie, perpetuando inganni che inanellava con il fumo tra le labbra, nascondendosi dietro a una separazione che, di fatto, non c’era.
Due fari scendono dall’alto, dal costone che s’inerpica verso il santuario. La musica si attenua. Le luci sciabolano il bosco, faticano ad allargare l’oscurità giallastra tra le alberature spoglie. I suoni cessano di colpo. Le figure si dissolvono; risucchiate dal fiume che ha scavato la sua corsa millenaria mostrando l’era della Terra, gli strati primigeni tra gli anfratti delle rocce e che ora irrobustisce la sua forza nascondendola agli speroni eretti sulle rive e si prepara a invadere i sobborghi della città Ducale.
Un’automobile la sfiora. Intravede all’interno un’ombra bianca – si perde nella notte, nella campagna inerte. Riaffiorano alla mente due luci rosseggianti, sparite alle sue spalle. Ora tutto è nel silenzio. Solo il fiume, rimugina le storie del tempo che non muore – risalgono dal fondo, fluiscono nei mulinelli che chiazzano la superficie delle anse, rodendo i fianchi di Borgo Brossana, rimuovendo dai gelsomini sfioriti sulle rive la malia delle parole di quell’uomo, soffocandole sott’acqua.
Gloria raggiunge casa. Chiude il portoncino, mette il catenaccio. Va in bagno: qualche pastiglia, un sorso d’acqua, uno sguardo allo specchio e accende la radio. Ascolta il notiziario seduta sul bordo della vasca; al termine, le previsioni meteo. E vede scorrere sullo schermo bianco di ceramica le sequenze: il vento di scirocco che arrotola le spiagge, l’Adriatico che soffoca le foci, la burrasca che risale la pianura, il nubifragio che colpisce le montagne, il fiume che straripa… l’onda in arrivo raggela i suoi pensieri, li sospinge nell’occhiaia dello scarico. Un gorgoglio di sospiri dolorosi… lo squarcio di un fulmine: scatta il salvavita! Il buio la circonda. Il tuono di un secondo lampo rimbomba cupo nella casa; un altro e lo specchio abbaglia il volto di Maria! Livido, circondato da un alone nero che ruota senza occhi. Oddio! Le sue mani tornano nel Duomo, tornano lassù, su quel soppalco: una bara varca il portale. L’organo respira sotto le sue dita: un corteo avanza verso l’altar maggiore.
Maria portata a spalla – si è gettata nel fiume abbracciata a sé stessa, al peso lieve che palpitava nel suo ventre – nessuno l’ha aiutata. La giovane corista fu trovata il giorno dopo – galleggiava aggrappata sotto il bastione del Tempietto longobardo, impigliata tra i rifiuti, vicino al cammino abituale di Gloria verso casa.
Gloria si sente venir meno. L’angoscia le attanaglia il petto, le sottrae il respiro. Accende una candela. Va tentoni lungo il corridoio. Apre un armadietto. Rialza una levetta: l’interruttore scatta giù di nuovo. Rumori cupi attraversano la casa, l’onda s’innalza nei meandri delle tubazioni, la piena risale dalle profondità del sottosuolo, sature delle presenze che avanzano come orribili sembianti, contro l’empietà di chi non ha visto, temuto, avvertito.
Riprova… su-giù-su-giù. Trattiene il pianto isterico. Un’ombra bianca si infila nella porta, si allunga nell’ingresso. Gloria è in preda a brividi nervosi. La maniglia si abbassa, implora un nome. Il suo corpo si affloscia. La fiammella si spegne.
Un feto sparì nel vortice di una vanità. Gloria perde i sensi. Un incubo l’aspetta.
… visibili alla morte loro ritornano, sono ombre senza pace, affamate d’amore.
Ripetuti colpi contro il portoncino. Gloria rinviene, si alza con fatica, apre il chiavistello. L’anta si spalanca: – Gianni! Ma cosa fa qui? – fuori diluvia.
Via del Patriarca e svolta nella stretta di Santa Maria di Corte, affretta il passo tra gli intervalli dei fanali appesi alle facciate, cupe di mattoni – salmastri nelle fughe addossate al Monastero delle Benedettine.
Scende le scale di pietra Piasentina – nebbiose per i riflessi umidi che risalgono gli acciottolati medioevali – e qualcosa pare trattenerla. Guarda in alto, la sagoma del Duomo ritagliata sul fondale; poi dall’altra parte, verso la Slovenia, verso la notte che va in scena dal levante autunnale di un cielo senza luna.
Piazza San Biagio. Folate di scirocco muovono forme vorticanti sinuosità di grigio-piombo – si alzano dal fiume, dall’ansa larga che cinge quel luogo preservato nel tempo, sovrastante la corrente del Natisone che rumoreggia là sotto, in fondo al salto. Che innalza le due arcate del Ponte del Diavolo…
Si stringe nelle spalle – come per esiliarsi dal mondo per una colpa che sente solo sua – l’inquietudine la riporta nel passato, nella tenebra che solleva le navate, lungo la scaletta attorcigliata all’occhiaia del portale, risuonante echi muti, preghiere inascoltate, genuflesse agli altari tremolanti fatui borbottii, riverberi rossastri tra i colonnati accesi dai lumini: rivede le proprie mani sopra la tastiera.
Rammenta che lasciò per ultima il soppalco, il tonfo del portone dopo la funzione in suffragio dei defunti, le risa dei giovani coristi: Halloween, Maria… va con loro a un festino.
E i lamenti, le implorazioni, i passi strascicanti sugli incavi di pietra? E le avvisaglie in volo su ali nere di nubi che brontolano i primi echi di un tuono, e i bagliori lontani nella piana? Nessuno vede, avverte, teme…
Raggiunge Borgo Brossana, il lungofiume. Le foglie accartocciate intrigano il percorso, lo scricchiolio delle sue scarpe la distrae. Una musica appena percepibile arriva alle sue orecchie.
Alza lo sguardo verso l’altra riva, la vede smarrirsi nella nebbiosità dei figuranti. Li avvolge in un fremito ammaliante. I suoni sono tenui. L’orecchio esercitato li ravviva. Le punteggiature diventano più nette al ripetersi di una melodia. Tra le figure plumbee, alcune si muovono all’unisono, danzano, eseguono spirali dentro spirali, a mezz’aria sopra il fluire del fiume e avanzano davanti allo stupore dei suoi occhi. L’udito sblocca la retroazione delle retine: ricorda una sera al cineforum, a Udine, quando un uomo promettendo… i corpi al buio, separati soltanto da un bracciolo.
Proiettavano La morte scorre sul fiume di Charles Laughton, il solo film che vide un grande attore – corpulento e sornione – dietro la macchina da presa.
All’uscita, le riflessioni sulle sequenze messe in luce in bianco e nero, da una storia malignamente tragica ed eterna, degenerarono affrontando il tema della debolezza della donna – Willa Harper-Shelley Winters, la protagonista – raffrontata alla protervia umana, in questo caso a quella di un predicatore con le nocche tatuate: love, hate – Robert Mitchum. Gloria s’infiammò personalizzando i fatti, i protagonisti. E caricò le sue parole di violenza.
Lui provò a calmarla; invertì ruoli, sentimenti, azioni e destini reiterando i suoi miti letterari. Poi tentò di nuovo d’ingannarla, infuriandosi, e inveì colpendola sul viso. Fu allora che lei vide il buio nel fondo dei suoi occhi e, divincolandosi, girandogli le spalle, lo maledì… com’era giusto per sé stessa.
Lui se ne andò sgommando. Nemmeno un’ora dopo finì imprigionato uscendo fuori strada, nella bassa friulana, annegato alla confluenza del Natisone – lento, largo tra le rive distanziate dell’Isonzo in prossimità del mare.
Gloria, dopo la sua morte, incatenò la propria solitudine all’ossessione insana di un ricordo, un amore vissuto in qualche camera da letto, in alberghetti sparsi tra le gite, oltre confine. Un amore interpretato soltanto con le attese, magari attorno a un fuoco, con le caldarroste in mano e il vino stretto tra i denti, i baci rubati negli androni in primavera, le promesse di quell’uomo… il cineforum ogni tanto, d’inverno, per accontentarla nella sua passione per il cinema d’autore.
Lei lo amava tanto. Lei non voleva, lei... “no, non può essere, Dio non lo permetterebbe”, pensava aggrappando la speranza a una battuta silenziosa – nascosta da James Agee, lo sceneggiatore, dietro una sequenza di quel film di Laughton – unita all’incredulità di Willa Harper, un attimo prima di morire per mano di un predicatore.
Finché un mattino… Gloria andò da una donna compiacente.
Il giorno dopo, verso l’imbrunire, lui l’accompagnò al Santuario di Castelmonte. Lei accese un lumino alla Madonna nera, implorando perdono nella cripta. Lui rimase assorto, a guardare le immagini votive appese alle pareti, stupito per l’aria calda delle fiammelle accese a centinaia e, lungo la strada del ritorno, le disse che il giorno prima era dovuto andare a scuola, a prendere il bambino: compiva gli anni… Gloria scoppiò a piangere. E lui, accendendo l’ennesima sigaretta, aggiunse al fumo il fastidio nauseante delle curve a gomito, irritanti la fragilità nervosa trattenuta in silenzio da chi le stava accanto, ripetendo parole assurde per distrarre le sue lacrime – appallottolate nel mutismo dei fazzolettini di carta che le passava tra un tornante e l’altro.
A Cividale, di fronte a due tazzine di caffè con panna, al Longobardo, lui le parlò chiedendo ancora tempo, promettendo il divorzio dalla moglie, perpetuando inganni che inanellava con il fumo tra le labbra, nascondendosi dietro a una separazione che, di fatto, non c’era.
Due fari scendono dall’alto, dal costone che s’inerpica verso il santuario. La musica si attenua. Le luci sciabolano il bosco, faticano ad allargare l’oscurità giallastra tra le alberature spoglie. I suoni cessano di colpo. Le figure si dissolvono; risucchiate dal fiume che ha scavato la sua corsa millenaria mostrando l’era della Terra, gli strati primigeni tra gli anfratti delle rocce e che ora irrobustisce la sua forza nascondendola agli speroni eretti sulle rive e si prepara a invadere i sobborghi della città Ducale.
Un’automobile la sfiora. Intravede all’interno un’ombra bianca – si perde nella notte, nella campagna inerte. Riaffiorano alla mente due luci rosseggianti, sparite alle sue spalle. Ora tutto è nel silenzio. Solo il fiume, rimugina le storie del tempo che non muore – risalgono dal fondo, fluiscono nei mulinelli che chiazzano la superficie delle anse, rodendo i fianchi di Borgo Brossana, rimuovendo dai gelsomini sfioriti sulle rive la malia delle parole di quell’uomo, soffocandole sott’acqua.
Gloria raggiunge casa. Chiude il portoncino, mette il catenaccio. Va in bagno: qualche pastiglia, un sorso d’acqua, uno sguardo allo specchio e accende la radio. Ascolta il notiziario seduta sul bordo della vasca; al termine, le previsioni meteo. E vede scorrere sullo schermo bianco di ceramica le sequenze: il vento di scirocco che arrotola le spiagge, l’Adriatico che soffoca le foci, la burrasca che risale la pianura, il nubifragio che colpisce le montagne, il fiume che straripa… l’onda in arrivo raggela i suoi pensieri, li sospinge nell’occhiaia dello scarico. Un gorgoglio di sospiri dolorosi… lo squarcio di un fulmine: scatta il salvavita! Il buio la circonda. Il tuono di un secondo lampo rimbomba cupo nella casa; un altro e lo specchio abbaglia il volto di Maria! Livido, circondato da un alone nero che ruota senza occhi. Oddio! Le sue mani tornano nel Duomo, tornano lassù, su quel soppalco: una bara varca il portale. L’organo respira sotto le sue dita: un corteo avanza verso l’altar maggiore.
Maria portata a spalla – si è gettata nel fiume abbracciata a sé stessa, al peso lieve che palpitava nel suo ventre – nessuno l’ha aiutata. La giovane corista fu trovata il giorno dopo – galleggiava aggrappata sotto il bastione del Tempietto longobardo, impigliata tra i rifiuti, vicino al cammino abituale di Gloria verso casa.
Gloria si sente venir meno. L’angoscia le attanaglia il petto, le sottrae il respiro. Accende una candela. Va tentoni lungo il corridoio. Apre un armadietto. Rialza una levetta: l’interruttore scatta giù di nuovo. Rumori cupi attraversano la casa, l’onda s’innalza nei meandri delle tubazioni, la piena risale dalle profondità del sottosuolo, sature delle presenze che avanzano come orribili sembianti, contro l’empietà di chi non ha visto, temuto, avvertito.
Riprova… su-giù-su-giù. Trattiene il pianto isterico. Un’ombra bianca si infila nella porta, si allunga nell’ingresso. Gloria è in preda a brividi nervosi. La maniglia si abbassa, implora un nome. Il suo corpo si affloscia. La fiammella si spegne.
Un feto sparì nel vortice di una vanità. Gloria perde i sensi. Un incubo l’aspetta.
… visibili alla morte loro ritornano, sono ombre senza pace, affamate d’amore.
Ripetuti colpi contro il portoncino. Gloria rinviene, si alza con fatica, apre il chiavistello. L’anta si spalanca: – Gianni! Ma cosa fa qui? – fuori diluvia.
Molto
interessante il percorso narrativo della storia, disarmante e assolutamente non
prevedibile; buon lessico, accattivante e pieno. (Alessandra Pederzoli)
Frank Spada, pseudonimo, è nato a Udine. Vari suoi racconti sono stati selezionati in concorsi e premi letterari, e sono publicati in svariate antologie. Con Robin Edizioni (Roma) ha pubblicato la “trilogia” di Marlowe: tre romanzi, ora anche in eBook, incentrati su un detective chandleriano in azione sulla west-coast californiana, anni Cinquanta, che ama il Jazz, il cinema e le avventure letterarie – agli antefatti aggiungiamo che l’autore, un friulano doc, passa disinvolto da un concorso letterario all’altro, rivestendo il ruolo di giurato, o quello del vincitore, per giocare con sé stesso e tenere la scrittura allenata. Il suo racconto “Scelgo il cavallo” e (a breve) il qui pubblicato “Onda di piena” sono stati tradotti da Galliano R. De Agostini in friulano e da Oscar B. Montoya in castigliano per il litblog argentino centroraicesfriulanas.blogspot.com.ar/2012/06/o-sielc-il-cjaval_03.html
Quinto
classificato ex aequo
Il problema con le
espressioni di
Manfredo Marotta (Gabicce)
Quando ero piccolo, ero considerato un po’… un po’…un po’ poco. Mia madre si lamentava un po’… un po’, un po’… tanto, ero anche un po’ un po’ ba…ba balbu... balbu…bu…bu…zien…te. Poi mi è passata.
Una madre che si lamenta del figlio può avere solo due spiegazioni: o è il figlio ad avere dei problemi o è la mamma che ha saltato le scuole elementari e quindi non riesce a risolverli. Buona la prima!
Il problema era quello delle espressioni, per usare un eufemismo, diciamo non algebriche, cioè parlavo in casa e quindi con i miei genitori con lo stesso linguaggio che utilizzavo con i miei amici in strada e quindi “da strada”.
Espressioni per così dire poco pulite, volgari e purtroppo anche con bestemmie, un linguaggio scurrile, molto colorito e tanto galleggiante!!!
Potete immaginare l’aria che si respirava in casa, al confronto l’aria di Pechino è meno inquinata. Il disagio e le difficoltà erano accentuate soprattutto nei giorni festivi, quando i miei genitori erano soliti invitare amici e parenti a pranzo.
Quarto di sei figli, ero l’unico a dare questo tipo di preoccupazioni. Sarà stato per la mia indole ribelle o per le mie amicizie da scugnizzo, certo era che creavo un forte imbarazzo generale anche perché mio padre era il medico del paese e mia madre era una maestra di scuola elementare che per un quinquennio aveva anche ricoperto la funzione di sindaco del paese.
Mio padre, aveva rinunciato alle prediche e ai rimproveri ed era passato a metodi più coercitivi come somministrarmi dei peperoncini di Soverato prima dei pasti in modo tale che la mia lingua diventasse grossa, rossa, gonfia e pastosa, tale da impedirmi di esprimermi in pubblico.
Ma io ero un puledro difficile da domare e, quando non riuscivo a parlare, fischiavo; e quando non riuscivo a fischiare, pur di dar fastidio, emettevo rumori e odori. Ero il punto di riferimento per gli scugnizzi del quartiere. Non mi chiedete il perché, non c’era un ragionamento di fondo, so solo che ero così!
I miei poveri e succubi genitori erano costretti sempre a rifare nuove amicizie. Erano disperati, non sapevano più come comportarsi. Grazie a me stavano diventando degli eremiti forzati.
Erano arrivati al punto che la domenica a pranzo, seduti a tavola, univano il pollice con l’indice sia della mano destra che della sinistra e, come i monaci buddisti in meditazione, mia madre sussurava: “Commmmmmmm” e mio padre aggiungeva:“ammafààààààààààààààà” (cioè, come dobbiamo fare).
Per me, inutile dirlo, erano momenti di gloria.
I miei genitori, disperati, un giorno si decisero a parlarne con mia nonna e le illustrarono il problema con le espressioni.
Dovete sapere che mia nonna, era un’insegnante di matematica. Era una donna piccola, esile ma il suo cervello era fine e arguto, perciò veniva interpellata ogni volta che il caso era complicato e nessuno ci capiva niente: praticamente nelle emergenze, un po’ come la lampada Beghelli.
Ascoltata la questione, prese penna e un quaderno a quadretti e scrisse la traccia del problema. Analizzò le lettere (parole volgari) chiamate variabili, poi aggiunse i numeri (cioè quante volte in un giorno erano ripetute), quindi aggiunse le operazioni, formò così i polinomi, applicò successivamente il coefficiente e il grado del polinomio divise e formò una frazione algebrica, aprì una parentesi: “La soluzione è difficile”, chiuse la parentesi, sfregò la lampada Beghelli e come un oracolo predisse: “Da oggi si farà così: quando il bimbo inizia con il monologo noi tutti lo applaudiremo e gli diremo ‘bravo bravissimo’ e lo incoraggeremo a continuare e ad esagerare sempre di più e rideremo; poi nel contempo ci diremo tra noi, mi raccomando sottovoce, che è una fortuna che lui non dica Ave Maria perché è una bestemmia dire Ave Maria e, pertanto, non va mai pronunciata e gridata.”
Per provare la nuova tattica, i miei genitori, la domenica successiva, invitarono a pranzo don Salvatore, “don” in questo caso non sta ad indicare il capofamiglia della zona: era il parroco del paese. Tutti aspettavano la mia performance e don Salvatore era stato ampiamente e preventivamente avvisato delle mie qualità, diciamo, canore.
Avevamo appena finito l’antipasto e, mentre loro sorseggiavano un buon aglianico, io, quasi come avessi avvertito che c’era qualcosa sotto, zittivo.
Tutti fingevano tranquillità.
Mentre degustavamo le lasagne, all’improvviso, come solo io sapevo fare, (mi piaceva la sorpresa), salito su una sedia e con il tovagliolo bianco in una mano e con il calendario nell’altro mano incominciai a declamare uno a uno tutti i santi, aggiungendo per ognuno di essi aggettivi e particolari che mi venivano al momento.
Mentre don Salvatore malgrado il preavviso, poverino non si aspettava tanto, si accingeva a prendere la boccettina di acqua santa e il crocefisso, mia nonna iniziò la sua strategia. Non ero nemmeno arrivato a sant’Igino Papa che si festeggia l’11 di gennaio, che, la madre di mia madre incominciò ad applaudirmi e ad urlarmi ‘bravo’.
La cosa mi sconvolse, mi colse di sorpresa.
Sapevo che mia nonna soffriva di una grave forma di otosclerosi bilaterale e pensando che avesse scambiato le mie maldicenze con le orazioni liturgiche, continuai con le mie imprecazioni aggiungendo alla fine “Ora pro vobis”.
Tutti continuavano ad applaudirmi, ma io intanto ero riuscito ad arrivare d’un fiato al 26 gennaio, giorno in cui si festeggiano i SS. Tito e Timoteo.
Incominciavo però a innervosirmi: ero così nervoso che, con un solo respiro, riuscivo a dire due parolacce, una nell’inspirazione e una nell’espirazione.
Nel frattempo don Salvatore, pur, come ho detto poc’anzi, preventivamente allertato, era scappato via per andare a prendere il crocefisso di legno massiccio di 8 metri che aveva sull’altare e aveva chiamato il proprietario di un autobotte chiedendogli di portare un ettolitro di acqua benedetta.
Mia nonna, aiutata senz’altro anche dalla sua menomazione, continuava a battermi le mani e a sorridermi e così mia madre e mio padre, tutti in piedi. Era una standing ovation, mi sentivo come Pavarotti dopo l’acuto di “Vincerò”.
Ormai la situazione mi turbava fortemente.
A un certo punto, sentii mia nonna sussurrare a mia madre di quel tanto che io potessi sentire: “Hai visto come è bravo tuo figlio! È proprio un bravo bimbo, speriamo però che non gli venga in mente di dire Ave Maria, perché Ave Maria è una bestemmia troppo grave.”
Non me lo feci ripetere due volte e iniziai con un insperato vigore a gridare: “Ave Maria, Ave Maria, Ave Maria” e poi sempre più convinto, così come Rocky Balboa gridava “Adriana” dopo aver messo al tappeto Apollo Creed o, per cercare un paragone in famiglia, come urla mio nipote quando gli fanno le punture, sempre più forte: “Ave Maria, Ave Maria, Ave Maria!”
Tutti i presenti fingevano di essere spaventati e con le mani si coprivano il volto e mi chiedevano e mi imploravano di non continuare, ma io sempre più soddisfatto e convinto, proseguivo imperterrito: “Ave Maria, Ave Maria, Ave Maria!”
Nel frattempo don Salvatore tornò, portava la croce come Gesù dopo essere caduto per la terza volta. Vedendo la scena che gli si presentava, dove io gridavo Ave Maria e gli altri che mi dicevano di non bestemmiare, scappò con le mani nei pochi capelli, direzione Lourdes.
Dopo di che, qualche volta, il tutto si ripeté in modo simile. Smisi di dire le parolacce e capii tutto, soprattutto che se uno vuole imprecare lo può fare tranquillamente senza bestemmiare e senza offendere nessuno.
Ringrazio ancora la mia indimenticabile nonna che con la sua saggezza trovò la soluzione al problema con le espressioni.
Una madre che si lamenta del figlio può avere solo due spiegazioni: o è il figlio ad avere dei problemi o è la mamma che ha saltato le scuole elementari e quindi non riesce a risolverli. Buona la prima!
Il problema era quello delle espressioni, per usare un eufemismo, diciamo non algebriche, cioè parlavo in casa e quindi con i miei genitori con lo stesso linguaggio che utilizzavo con i miei amici in strada e quindi “da strada”.
Espressioni per così dire poco pulite, volgari e purtroppo anche con bestemmie, un linguaggio scurrile, molto colorito e tanto galleggiante!!!
Potete immaginare l’aria che si respirava in casa, al confronto l’aria di Pechino è meno inquinata. Il disagio e le difficoltà erano accentuate soprattutto nei giorni festivi, quando i miei genitori erano soliti invitare amici e parenti a pranzo.
Quarto di sei figli, ero l’unico a dare questo tipo di preoccupazioni. Sarà stato per la mia indole ribelle o per le mie amicizie da scugnizzo, certo era che creavo un forte imbarazzo generale anche perché mio padre era il medico del paese e mia madre era una maestra di scuola elementare che per un quinquennio aveva anche ricoperto la funzione di sindaco del paese.
Mio padre, aveva rinunciato alle prediche e ai rimproveri ed era passato a metodi più coercitivi come somministrarmi dei peperoncini di Soverato prima dei pasti in modo tale che la mia lingua diventasse grossa, rossa, gonfia e pastosa, tale da impedirmi di esprimermi in pubblico.
Ma io ero un puledro difficile da domare e, quando non riuscivo a parlare, fischiavo; e quando non riuscivo a fischiare, pur di dar fastidio, emettevo rumori e odori. Ero il punto di riferimento per gli scugnizzi del quartiere. Non mi chiedete il perché, non c’era un ragionamento di fondo, so solo che ero così!
I miei poveri e succubi genitori erano costretti sempre a rifare nuove amicizie. Erano disperati, non sapevano più come comportarsi. Grazie a me stavano diventando degli eremiti forzati.
Erano arrivati al punto che la domenica a pranzo, seduti a tavola, univano il pollice con l’indice sia della mano destra che della sinistra e, come i monaci buddisti in meditazione, mia madre sussurava: “Commmmmmmm” e mio padre aggiungeva:“ammafààààààààààààààà” (cioè, come dobbiamo fare).
Per me, inutile dirlo, erano momenti di gloria.
I miei genitori, disperati, un giorno si decisero a parlarne con mia nonna e le illustrarono il problema con le espressioni.
Dovete sapere che mia nonna, era un’insegnante di matematica. Era una donna piccola, esile ma il suo cervello era fine e arguto, perciò veniva interpellata ogni volta che il caso era complicato e nessuno ci capiva niente: praticamente nelle emergenze, un po’ come la lampada Beghelli.
Ascoltata la questione, prese penna e un quaderno a quadretti e scrisse la traccia del problema. Analizzò le lettere (parole volgari) chiamate variabili, poi aggiunse i numeri (cioè quante volte in un giorno erano ripetute), quindi aggiunse le operazioni, formò così i polinomi, applicò successivamente il coefficiente e il grado del polinomio divise e formò una frazione algebrica, aprì una parentesi: “La soluzione è difficile”, chiuse la parentesi, sfregò la lampada Beghelli e come un oracolo predisse: “Da oggi si farà così: quando il bimbo inizia con il monologo noi tutti lo applaudiremo e gli diremo ‘bravo bravissimo’ e lo incoraggeremo a continuare e ad esagerare sempre di più e rideremo; poi nel contempo ci diremo tra noi, mi raccomando sottovoce, che è una fortuna che lui non dica Ave Maria perché è una bestemmia dire Ave Maria e, pertanto, non va mai pronunciata e gridata.”
Per provare la nuova tattica, i miei genitori, la domenica successiva, invitarono a pranzo don Salvatore, “don” in questo caso non sta ad indicare il capofamiglia della zona: era il parroco del paese. Tutti aspettavano la mia performance e don Salvatore era stato ampiamente e preventivamente avvisato delle mie qualità, diciamo, canore.
Avevamo appena finito l’antipasto e, mentre loro sorseggiavano un buon aglianico, io, quasi come avessi avvertito che c’era qualcosa sotto, zittivo.
Tutti fingevano tranquillità.
Mentre degustavamo le lasagne, all’improvviso, come solo io sapevo fare, (mi piaceva la sorpresa), salito su una sedia e con il tovagliolo bianco in una mano e con il calendario nell’altro mano incominciai a declamare uno a uno tutti i santi, aggiungendo per ognuno di essi aggettivi e particolari che mi venivano al momento.
Mentre don Salvatore malgrado il preavviso, poverino non si aspettava tanto, si accingeva a prendere la boccettina di acqua santa e il crocefisso, mia nonna iniziò la sua strategia. Non ero nemmeno arrivato a sant’Igino Papa che si festeggia l’11 di gennaio, che, la madre di mia madre incominciò ad applaudirmi e ad urlarmi ‘bravo’.
La cosa mi sconvolse, mi colse di sorpresa.
Sapevo che mia nonna soffriva di una grave forma di otosclerosi bilaterale e pensando che avesse scambiato le mie maldicenze con le orazioni liturgiche, continuai con le mie imprecazioni aggiungendo alla fine “Ora pro vobis”.
Tutti continuavano ad applaudirmi, ma io intanto ero riuscito ad arrivare d’un fiato al 26 gennaio, giorno in cui si festeggiano i SS. Tito e Timoteo.
Incominciavo però a innervosirmi: ero così nervoso che, con un solo respiro, riuscivo a dire due parolacce, una nell’inspirazione e una nell’espirazione.
Nel frattempo don Salvatore, pur, come ho detto poc’anzi, preventivamente allertato, era scappato via per andare a prendere il crocefisso di legno massiccio di 8 metri che aveva sull’altare e aveva chiamato il proprietario di un autobotte chiedendogli di portare un ettolitro di acqua benedetta.
Mia nonna, aiutata senz’altro anche dalla sua menomazione, continuava a battermi le mani e a sorridermi e così mia madre e mio padre, tutti in piedi. Era una standing ovation, mi sentivo come Pavarotti dopo l’acuto di “Vincerò”.
Ormai la situazione mi turbava fortemente.
A un certo punto, sentii mia nonna sussurrare a mia madre di quel tanto che io potessi sentire: “Hai visto come è bravo tuo figlio! È proprio un bravo bimbo, speriamo però che non gli venga in mente di dire Ave Maria, perché Ave Maria è una bestemmia troppo grave.”
Non me lo feci ripetere due volte e iniziai con un insperato vigore a gridare: “Ave Maria, Ave Maria, Ave Maria” e poi sempre più convinto, così come Rocky Balboa gridava “Adriana” dopo aver messo al tappeto Apollo Creed o, per cercare un paragone in famiglia, come urla mio nipote quando gli fanno le punture, sempre più forte: “Ave Maria, Ave Maria, Ave Maria!”
Tutti i presenti fingevano di essere spaventati e con le mani si coprivano il volto e mi chiedevano e mi imploravano di non continuare, ma io sempre più soddisfatto e convinto, proseguivo imperterrito: “Ave Maria, Ave Maria, Ave Maria!”
Nel frattempo don Salvatore tornò, portava la croce come Gesù dopo essere caduto per la terza volta. Vedendo la scena che gli si presentava, dove io gridavo Ave Maria e gli altri che mi dicevano di non bestemmiare, scappò con le mani nei pochi capelli, direzione Lourdes.
Dopo di che, qualche volta, il tutto si ripeté in modo simile. Smisi di dire le parolacce e capii tutto, soprattutto che se uno vuole imprecare lo può fare tranquillamente senza bestemmiare e senza offendere nessuno.
Ringrazio ancora la mia indimenticabile nonna che con la sua saggezza trovò la soluzione al problema con le espressioni.
Al fine di correggere il peggior scugnizzo
del paese reo di un linguaggio troppo scurrile e ricco di improperi, la nonna,
ex insegnante di matematica, decide di adottare una soluzione originale dando
inizio ad uno sfizioso siparietto famigliare con tutti gli ingredienti al posto
giusto. (Alex Celli)
La Biogra (che sta per breve biografia) di Manfredo Marotta. Nato (che non è l’organizzazione internazionale) il 23 febbraio 1965 in un piccolo paese del beneventano, Limatola, diventato ridente dopo la sua nascita. Quarto di sei figli, venne battezzato con il nome di Manfredo perché i genitori dopo 3 maschi aspettavano una femminuccia e si trovarono impreparati nella scelta del nome. La modestia da sempre lo accompagna e gli mancava solo questo riconoscimento per potersi ritenere il FARAglione dell’Adriatico.
Quinto
classificato ex aequo
Bip-bip bipolare di Roberto Borghesi
(Rimini)
Bip, bip, bip, bi-polare. Sono bipolare, o forse sono stato. È incerto. Fatto sta che ormai da otto anni io sto bene, il che significa che non ho più avuto episodi che la scienza medica nomina “maniaco-depressivi”.
Bi-polare, bip, bip; mi arriva come un segnale spaziale, l’attacco di maniacalità. Quando scendo in questo stato è come se tutta la Nasa, si mobilitasse per me. Io mi trovo catapultato al centro del mondo, e immagino che lo scudo spaziale sia puntato su di me, per cui tutte le cose che mi stanno intorno sono sotto controllo e anche la mosca che mi ronza sul naso in pieno agosto è lì per me e non per caso.
Bip, bip, bi-polare, quando sono bipolare, la casualità non esiste più. Anche la formica che sta davanti alla mia scarpa fa parte del “complotto”. Già, il complotto!!!
Mentre all’inizio sono euforico e ho una sensazione di onnipotenza, poi, passando i giorni, l’umore vira e allora pur rimanendo al centro dell’universo, questo centro diventa una prigione, una cella in cui sono imprigionato e dentro la quale io sto esposto all’ostilità di chiunque: dal cane, al leone, al postino che mi pare portare una lettera-bomba, ai miei famigliari che mi vogliono fare fuori. Vorrei scappare, ma i farmaci mi bloccano i movimenti. In tutto ciò, ho i sensi, il tatto soprattutto, e l’occhio e l’orecchio e l’olfatto sensibilissimi ad ogni movimento di colore e di intensità della luce e al variare dei suoni. È la tonalità scura che caratterizza l’atmosfera, e la luce si fa accecante, anche quella di un cerino.
Bip, sì, bip, sono bipolare e vorrei andare al mare, ma mi ascolto respirare. Sono vivo e vorrei morire. Si fa sentire ora la depressione, a mano a mano che le sensazioni tornano regolari. La depressione è come un burrone in cui scivolo adagio ma inesorabilmente. Dallo stato di sovrabbondanza di sensi e di cose, ora passo ad uno stato in cui arriva il vuoto, in cui allungo le mani ma non riesco più ad aggrapparmi a nulla.
Bip, bip, sono bipolare, e ora vorrei morire. Niente più conta, tutto è vano, la mente vaga lontano in cerca di un appiglio. Se almeno ci fosse un giglio lo raccoglierei, tanto per dire, ancora pieno di farmaci. C’è stato il viraggio e l’unico coraggio che ho ormai e quello di farla finita. Ho perso la partita, mi dico, con la vita.
E va bene, la corda al collo, e va bene l’ingoiare tutti i farmaci e va bene andare alla stazione, se ne avessi la forza e buttarmi sotto un treno, e va bene anche un tetto se riuscissi a scendere giù dal letto.
Bip, bip, bip, sono bipolare e voglio morire. E passano le ore e passano i giorni; i contorni del dolore vanno sfumando, fino a quando un mattino, mi ricordo che ho un bambino che mi aspetta e cadono sulla guancia calde lacrime che hanno un senso e arrivano al petto e mi accorgo di nuovo del mio cuore e ascolto il rumore della caffettiera e il profumo del caffè che mi piace tanto e sento ora il russare accanto di Maria che ha vegliato fino al mattino aspettando un segnale di miglioramento e sorrido finalmente e non mi lamento.
Bip bip bipolare¸ sono passati quattro mesi da quando sono partito con il cervello e ora torno a casa dal lungo viaggio in me stesso, in cui sono andato perso, ma ora posso ricominciare a ricostruire me stesso.
Ancora una volta, sarà un successo e torno al lavoro, torno alla vita, la bipolarità è finita, per l’ennesima volta, ma questa volta sono sicuro è l’ultima, non la voglio più né come amica né come nemica, questa volta è finita e so il perché, è dentro di me e non so spiegare, ma posso garantire, è un segreto anche per il dottore, la bipolarità che muore… e se ritornerà, bip. Bip bipolarità questa volta non mi troverà.
Bi-polare, bip, bip; mi arriva come un segnale spaziale, l’attacco di maniacalità. Quando scendo in questo stato è come se tutta la Nasa, si mobilitasse per me. Io mi trovo catapultato al centro del mondo, e immagino che lo scudo spaziale sia puntato su di me, per cui tutte le cose che mi stanno intorno sono sotto controllo e anche la mosca che mi ronza sul naso in pieno agosto è lì per me e non per caso.
Bip, bip, bi-polare, quando sono bipolare, la casualità non esiste più. Anche la formica che sta davanti alla mia scarpa fa parte del “complotto”. Già, il complotto!!!
Mentre all’inizio sono euforico e ho una sensazione di onnipotenza, poi, passando i giorni, l’umore vira e allora pur rimanendo al centro dell’universo, questo centro diventa una prigione, una cella in cui sono imprigionato e dentro la quale io sto esposto all’ostilità di chiunque: dal cane, al leone, al postino che mi pare portare una lettera-bomba, ai miei famigliari che mi vogliono fare fuori. Vorrei scappare, ma i farmaci mi bloccano i movimenti. In tutto ciò, ho i sensi, il tatto soprattutto, e l’occhio e l’orecchio e l’olfatto sensibilissimi ad ogni movimento di colore e di intensità della luce e al variare dei suoni. È la tonalità scura che caratterizza l’atmosfera, e la luce si fa accecante, anche quella di un cerino.
Bip, sì, bip, sono bipolare e vorrei andare al mare, ma mi ascolto respirare. Sono vivo e vorrei morire. Si fa sentire ora la depressione, a mano a mano che le sensazioni tornano regolari. La depressione è come un burrone in cui scivolo adagio ma inesorabilmente. Dallo stato di sovrabbondanza di sensi e di cose, ora passo ad uno stato in cui arriva il vuoto, in cui allungo le mani ma non riesco più ad aggrapparmi a nulla.
Bip, bip, sono bipolare, e ora vorrei morire. Niente più conta, tutto è vano, la mente vaga lontano in cerca di un appiglio. Se almeno ci fosse un giglio lo raccoglierei, tanto per dire, ancora pieno di farmaci. C’è stato il viraggio e l’unico coraggio che ho ormai e quello di farla finita. Ho perso la partita, mi dico, con la vita.
E va bene, la corda al collo, e va bene l’ingoiare tutti i farmaci e va bene andare alla stazione, se ne avessi la forza e buttarmi sotto un treno, e va bene anche un tetto se riuscissi a scendere giù dal letto.
Bip, bip, bip, sono bipolare e voglio morire. E passano le ore e passano i giorni; i contorni del dolore vanno sfumando, fino a quando un mattino, mi ricordo che ho un bambino che mi aspetta e cadono sulla guancia calde lacrime che hanno un senso e arrivano al petto e mi accorgo di nuovo del mio cuore e ascolto il rumore della caffettiera e il profumo del caffè che mi piace tanto e sento ora il russare accanto di Maria che ha vegliato fino al mattino aspettando un segnale di miglioramento e sorrido finalmente e non mi lamento.
Bip bip bipolare¸ sono passati quattro mesi da quando sono partito con il cervello e ora torno a casa dal lungo viaggio in me stesso, in cui sono andato perso, ma ora posso ricominciare a ricostruire me stesso.
Ancora una volta, sarà un successo e torno al lavoro, torno alla vita, la bipolarità è finita, per l’ennesima volta, ma questa volta sono sicuro è l’ultima, non la voglio più né come amica né come nemica, questa volta è finita e so il perché, è dentro di me e non so spiegare, ma posso garantire, è un segreto anche per il dottore, la bipolarità che muore… e se ritornerà, bip. Bip bipolarità questa volta non mi troverà.
Breve ed efficace descrizione sintomatica di un disturbo psichico, giocata
in una ambiguità tra la fiction e la testimonianza personale, con un po'
di ironia che getta uno sguardo meno drammatico sulla malattia mentale, senza
per altro banalizzarla. (Giovanni Turra Zan)
Roberto Borghesi, è nato in Francia, dove ha vissuto i suoi primi dieci anni. Ha 53 anni, sposato, è operaio presso una cooperativa sociale. Quando non lavora e non ha impegni in famiglia, dedica il suo tempo alla filosofia. Il libro “Nietzsche. Per una filosofia della grandezza” è frutto di decenni di frequentazione del filosofo tedesco Bilingue, italo-francese, traduttore appassionato, filosofante per un serio giocare, riminese di adozione, ultimamente ha tradotto in francese le poesie dialettali di Annalisa Teodorani, una sfida, e in italiano l’Adorazione di Jean-Luc Nancy. Per il resto “la vita è bella“, non solo perché è un film!
Quinto
classificato ex aequo
Tornare a sperare di Ottaviano Faggiana
(dei“Famigliari
Arcobaleno” formato da 22 padri e madri di giovani con problemi psichiatrici
che trascorrono parte della loro giornata al centro diurno Arcobaleno di
Arzignano, Vicenza)
Sono un genitore con un figlio con problemi di salute mentale che vuole raccontare in un modo semplice come sono entrato in questo mondo. Se comincio dal principio è per dire che di salute mentale ne ho solo sentito parlare da un anziano zio, il quale ha avuto la moglie che era stata ricoverata al manicomio San Felice di Vicenza e una volta ha voluto che lo accompagnassi a vedere questo ospedale, perché allora ero giovane e ne avevo sentito parlare come di un ospedale per “Matti”… allora così si diceva.
Però di quella visita, la cosa che mi portavo dentro, era il fatto che per andare nel reparto dove c’era questa zia, non c’erano le maniglie sulle porte e che per entrare ed uscire c’era sempre bisogno dell’infermiere: questo per dire che per me e la mia famiglia, per fortuna, era una malattia sconosciuta.
Poi sono entrato per conoscenza diretta in questo mondo con il figlio più grande e nel dover spiegare tutto ciò a quello più piccolo. A loro non posso rimproverare nulla, non hanno mai creato problemi pur con caratteri diversi.
Finite le elementari il più grande ha fatto le scuole professionali con qualche difficoltà. Il ragazzo si ritrovava con il suo carattere sensibile e per ciò gli riusciva facile aiutare gli altri senza mai apparire. Fatto il militare e poi al lavoro nel settore meccanico, il tempo passa senza che la sensibilità di mio figlio si facesse più forte, anzi essa si manifestava in modo diverso, tanto che alle volte anziché uscire con gli amici preferiva rimanere a casa per non dover affrontare gli scherzi degli stessi.
Io parlo sempre in prima persona ma non è così, perché assieme in tutte le situazioni c’è sempre mia moglie, vivendo tutte le evoluzioni di nostro figlio assieme, tanto che nel continuo chiederci di come potevamo aiutarlo e sentendo il parere di varie persone; da dottori a professori a curatori non professionali e vedendo che non si prospettava nessuna soluzione, abbiamo deciso di affrontare la psichiatria.
È stata un’esperienza che non trovo parole per descriverla, in quel momento, se come famiglia non fossimo stati uniti sarebbe stata la fine; invece è stato in quel momento che ci siamo impegnati a trovare una soluzione per nostro figlio e per tutta la famiglia.
Però bisogna dire che abbiamo cercato soluzioni recandoci in strutture anche fuori dal nostro territorio, ma è stato solo spostare il problema, senza trovare soluzione. Purtroppo, c’è stato bisogno di ricovero nel nostro reparto psichiatrico di Montecchio, anzi, più di uno, con momentanei recupero e successive ricadute; però, da parte anche di mio figlio, c’era la volontà di superare almeno in parte il disagio.
Ci sono stati parecchi incontri con i dottori che lo avevano in cura e hanno capito che c’erano dei segnali che confortavano per un possibile recupero. È stato così che si è pensato di farlo entrare nelle strutture Centro diurno Arcobaleno e qui ha trovato un medico che con i suoi collaboratori, e con un programma personalizzato hanno permesso a mio figlio di acquisire tante sicurezze che sembravano perdute, tanto che è potuto tornare al lavoro anche se con prospettive ridimensionate. Per me e mia moglie e l’altro figlio cià ha avuto nella nostra famiglia come del miracoloso, perché ci ha tolto quel pensiero che sentivamo dire attorno a noi che “dalla malattia mentale non si guarisce”.
Invece nel caso di mio figlio si è dimostrato che da questa malattia, se i servizi funzionano, si può raggiungere la guarigione sociale, che per la famiglia vuol dire tornare a vivere, sperare e sognare con qualche possibilità di soluzione anche nel dopo di noi.
Però di quella visita, la cosa che mi portavo dentro, era il fatto che per andare nel reparto dove c’era questa zia, non c’erano le maniglie sulle porte e che per entrare ed uscire c’era sempre bisogno dell’infermiere: questo per dire che per me e la mia famiglia, per fortuna, era una malattia sconosciuta.
Poi sono entrato per conoscenza diretta in questo mondo con il figlio più grande e nel dover spiegare tutto ciò a quello più piccolo. A loro non posso rimproverare nulla, non hanno mai creato problemi pur con caratteri diversi.
Finite le elementari il più grande ha fatto le scuole professionali con qualche difficoltà. Il ragazzo si ritrovava con il suo carattere sensibile e per ciò gli riusciva facile aiutare gli altri senza mai apparire. Fatto il militare e poi al lavoro nel settore meccanico, il tempo passa senza che la sensibilità di mio figlio si facesse più forte, anzi essa si manifestava in modo diverso, tanto che alle volte anziché uscire con gli amici preferiva rimanere a casa per non dover affrontare gli scherzi degli stessi.
Io parlo sempre in prima persona ma non è così, perché assieme in tutte le situazioni c’è sempre mia moglie, vivendo tutte le evoluzioni di nostro figlio assieme, tanto che nel continuo chiederci di come potevamo aiutarlo e sentendo il parere di varie persone; da dottori a professori a curatori non professionali e vedendo che non si prospettava nessuna soluzione, abbiamo deciso di affrontare la psichiatria.
È stata un’esperienza che non trovo parole per descriverla, in quel momento, se come famiglia non fossimo stati uniti sarebbe stata la fine; invece è stato in quel momento che ci siamo impegnati a trovare una soluzione per nostro figlio e per tutta la famiglia.
Però bisogna dire che abbiamo cercato soluzioni recandoci in strutture anche fuori dal nostro territorio, ma è stato solo spostare il problema, senza trovare soluzione. Purtroppo, c’è stato bisogno di ricovero nel nostro reparto psichiatrico di Montecchio, anzi, più di uno, con momentanei recupero e successive ricadute; però, da parte anche di mio figlio, c’era la volontà di superare almeno in parte il disagio.
Ci sono stati parecchi incontri con i dottori che lo avevano in cura e hanno capito che c’erano dei segnali che confortavano per un possibile recupero. È stato così che si è pensato di farlo entrare nelle strutture Centro diurno Arcobaleno e qui ha trovato un medico che con i suoi collaboratori, e con un programma personalizzato hanno permesso a mio figlio di acquisire tante sicurezze che sembravano perdute, tanto che è potuto tornare al lavoro anche se con prospettive ridimensionate. Per me e mia moglie e l’altro figlio cià ha avuto nella nostra famiglia come del miracoloso, perché ci ha tolto quel pensiero che sentivamo dire attorno a noi che “dalla malattia mentale non si guarisce”.
Invece nel caso di mio figlio si è dimostrato che da questa malattia, se i servizi funzionano, si può raggiungere la guarigione sociale, che per la famiglia vuol dire tornare a vivere, sperare e sognare con qualche possibilità di soluzione anche nel dopo di noi.
Testimonianza di una drammatica vicenda familiare, senza autocommiserazione
e con una gran forza di volontà di capire, esserci, mettersi in gioco; sorretta
da una scrittura semplice e diretta. Senza sbavature né inutili lungaggini
descrittive. (Giovanni Turra Zan)
Ottaviano
Faggiana, arzignanese nasce il 27 gennaio del 1936 e conosce fin da
ragazzo Elda che sposerà e dal loro matrimonio nascono 2 figli.
All’inizio operaio, successivamente diviene capo reparto di una fabbrica
metalmeccanica che opera nella valle della concia vicentina. Dapprima
come nipote, poi come fratello e successivamente come padre conosce la
dura realtà della malattia mentale e i diversi percorsi di cura
psichiatrica. In questi anni di esperienze talora difficili e tumultuose
si rende conto di quanto necessiti di umanizzazione e di
professionalità empatica la cura della malattia mentale. Da lì inizia a
frequentare l’associazione AITSAM di cui oggi è vice-presidente ed è
attivo promotore di gruppi di familiari. In questi ultimi 15 anni è
attore di numerose iniziative e battaglie a sostegno di una salute
mentale autentica, rispettosa delle persone e di una cura personalizzata
dei pazienti psichiatrici che contenga affettività e rispetto del ruolo
delle famiglie.
Quinto
classificato ex aequo
La neve nel cuore di Andrea Parato
(Riccione)
Con questa prima neve i germogli delle mie piantine moriranno congelati. Ma perché il congelamento assomiglia a una ustione?
La cruda luce bianca entrava violentemente dalle finestre dell’ufficio e rivestiva tutto di una nuova, gelida consistenza. Persino i muri grigi, gli arredi di legno impiallacciato, i colleghi silenziosi alle scrivanie sembravano immersi in un assurdo acquario lattiginoso.
E mentre nevica, tu percorri elegante il corridoio. I miei pensieri sono gelidi come acuti spilli di ghiaccio. Li sento rimbombare dentro, mi rintronano. Ossessione, mi rubi l’energia.
Non ti devo guardare. Tu sei bella come sempre, col tuo passo leggero e gli orecchini che tintinnano mentre ti muovi. Non ti devo guardare. E se ti scruto incantato, lo schermo del computer è il limite invalicabile del mio voyeurismo. Come hai potuto farmi questo? Sono malato di te ed è tutta colpa tua. Intanto cade la neve con ritmo incessante: ha cominciato a coprire le macchine immobili nel parcheggio e i rami dei pochi alberi stecchi che scuri resistono, come soldati in attesa contro il vento della steppa.
Mi sporgo dalla scrivania per osservarti, mentre sei voltata. La tua schiena, il maglione gonfiato dal tuo corpo morbido, il profilo mentre passi: sono un invito. Poi ti giri, mi fermo di scatto, incurante e sprezzante di te. Perché mi fai questo? Non posso… ma alla fine cederò e sarai tu a vincere. Perché sei stata tu ad invitarmi, con il tuo sguardo, con il tuo sorriso.
Ogni tentativo di finzione per ignorarti nasconde profondità di tensione verso di te che non saprai mai. Sono morto per te, ma non lo saprai mai.
Mi inviti, mi perdi. Guardi la tormenta montare. Ti preoccupi e corrughi la fronte – e vedo benissimo quelle leggere pieghe sulla pelle bianca, sotto l’attacco dei capelli scuri che vorrei abitare – incerta se partire.
Mi alletti, mi perdi. Adesso vai alla tua postazione, prendi lo scialle e poi ti alzi flessuosa e indossi il cappotto… maledizione. Lentamente. Saluti tutti con il tuo calmo sorriso. Tutti tranne me. Abbiamo impiegato molto tempo a raggiungere questo sottile stratagemma di ignorarci per nascondere il nostro segreto. Ti volti appena, prima di uscire. Ma io solo so che quel sorriso è un segreto malizioso, nasconde cose non dette. Quel sorriso mancato è lanciato su un mondo vergine. Come quando passi veloce davanti alla mia scrivania con i tacchi che battono squillanti, come quella volta ho provato a stringerti contro la fotocopiatrice e tu mi hai amabilmente scostato, cosa provavi? Ora scappi in fretta per non farti sorprendere dalla neve. Non mi guardi – lo so come una mia certezza – per non destare sospetti: sei solo per me, ma dobbiamo accettare la legge del contrappasso che ci costringe a ignorarci quanto più ci desideriamo. Così, fingiamo di continuare nel lavoro, con i pensieri sono altrove, avvinghiati: mi perdi e mi distrai.
Continuava a nevicare, col vento di sbieco che ormai copriva i cartelli. Il riverbero che veniva dai campi e dal cielo, un tutt’uno senza confini, si riversava nelle stanze nelle ultime ore della giornata, quando al sole che tramonta si sostituisce un soffuso riverbero alogeno.
Dove sei? Esco dall’ufficio. La neve ormai ricopre tutto; sugli alberi, lungo il fossato sembra addirittura che sia accumulata da giorni. Con ritmo monotono cade, nel suo lungo soffio, senza prendere fiato. Cade la neve insistente sulle persone che escono dalla porta buia dell’ufficio, cade su di me e sulla tua ombra che sempre mi accompagna.
Come è cominciato? Il tuo sorriso ogni mattina, come la goccia che scava la roccia, ha finito per scolpirmi la tua immagine dentro. Volevi me. Il tuo corpo sfiorato appena. Sempre con gli altri, mai un attimo da soli. Quanto avrei potuto dirti! Ma tu forse vuoi rimanere con questo silenzio carico di attese. Così vicina da poterti toccare, così impalpabile da ingannare. Sei stata tu a cominciare, non te ne rendevi conto? Aspettavo un tuo segno. E più aspettavo più desideravo. E più aspettavo e più immaginavo e più mi intestardivo. Il tempo era tutto orientato nell’attesa di un tuo gesto nei miei confronti: sei stata tu a iniziare, anche se non te ne sei mai accorta.
Fuori, il vento gelido sferza uomini e cose: sotto agli scarponi scricchiola lo strato di neve che comincia a gelare pericolosamente. Le vetture lasciano strisce luccicanti e incerte sull’asfalto insicuro.
La macchina è serrata in un imballaggio di gelida neve, lo graffio via con mani bruciate. Il sedile è umido per i fiocchi che sono riusciti a intrufolarsi. Devo partire, devo fare in fretta. Ti farò una sorpresa. L’abitacolo è gelido, dalla bocca escono nuvole di fumo. O forse sono io così freddo per la tensione, per il desiderio di stupirti e finalmente raggiungerti e prenderti. Sai quanto ho combattuto per resistere, quante storie mi sono raccontato per non cederti, per avere lo sguardo altrove?
Mi metto in fila per uscire dal parcheggio, processione di slitte di tempi lontani.
Invece tu continuavi a insidiarmi. Ogni giorno quegli occhi luccicanti. Ci siamo fermati a chiacchierare più volte. Le nostre mani così vicine, i nostri corpi a un passo: allora perché hai esitato? Non capivi – mentre ti guardavo fissa – che il mio sguardo era desiderio? Da allora ho cominciato a seguirti sempre, di giorno in ufficio, di notte sul web: tu lo volevi.
Una lunga di fila di automobili procede nella strada principale, sferzata dal vento che porta la neve. Caute avanzano nel deserto bianco, dove dossi e curve e fossi non hanno più differenza. All’avvicinarsi di un incrocio, la fila incespica come un lungo bruco, si ingolfa, si ferma.
Sono prigioniero in colonna, ma il mio pensiero corre a te: sei già nelle mie mani, a casa, nella tua camera. Anche se non ti vedo da ore, non posso fare a meno di pensarti. Non può essere un inganno. Nella mia vita così sola sei tu il senso e l’ispirazione. Sento qui la tua voce, sento la consistenza del tuo corpo elastico, il profumo sa di agrumi, un groppo caldo mi angoscia il ventre. Per te sto correndo a rallentatore nella tormenta. Ma più della macchina corre il mio cuore, che sobbalza e sbanda per te, e la mia mente che non si ferma agli incroci e non mette piede al freno dei suoi desideri. E mentre corro su questa strada fragile di cristallo, insidiosa di gelo, cieco per le folate di neve che colpiscono il vetro e per la pressione nella testa offuscata di te, all’improvviso freno. Maledetta fila, e questo accumularsi di fiocchi. Un lampeggiare improvviso, si rallenta ancora. Mi avvicino all’incrocio. Vedo un camion contro un’automobile, immobili come una scultura già coperta di neve, insetto ribaltato e congelato. Incidente mortale, mi dico. Chi se ne frega? Devo arrivare da te. Questa indifferenza mi consola: so essere forte, finalizzato al mio obiettivo. Quella macchina ha vagamente la forma e il colore della tua. Ma non mi importa: avanzo, non ho tempo, per fortuna già la polizia fa avanzare il traffico. Così lento, così lento. Non mi interessa niente di quello che accade fuori, benedetta indifferenza! Capirai tutto: i fiori all’improvviso sul tavolo del tuo ufficio, senza un biglietto; le pagine strappate da libri, quelli che amo, nelle tasche della tua giacca; i messaggi sul telefono. Crudelmente ignorati. Non mi importa più niente del resto, neanche della morte vicina.
Perché già nella sala in penombra vedo le mie braccia che ti stringono… poi le mie mani lungo la tua schiena, ai fianchi e ancora giù. Oh, il tuo brivido quando ti sfioravo la schiena in ascensore, un secondo appena, un piacere nascosto! Ma le tue dita sottili dolcemente e lentamente mi toccano il petto. C’è una resistenza inattesa in quel gesto, stanca e risoluta. Ti voglio baciare, con violenza. Oggi dovrai ascoltarmi, capirai tutto. Non può essere un inganno. Tutto questo è per te. Questa gelida pace, questa indifferenza bianca. E non importa la tua vita con un altro… ora corro da te per convincerti che ti sbagli. Solo io posso averti, perché tu già riposi sul mio corpo, quando la mente indugia di notte.
Ecco finalmente la tua via che imbocco lento, ecco la casa. Il mio desiderio realizzato, dopo che ho cercato di resisterti crudelmente, dopo che ho cercato di ferirmi i pensieri e poi ho accettato la tua voce nella mia testa, il tuo corpo nel mio e, in fondo, il tuo tutto nel mio nulla.
Quando arrivò davanti alla casa di lei, le luci erano tutte accese. La porta spalancata, mentre la neve entrava dentro. Il bagliore della luce usciva rifrangendosi nei fiocchi cadenti e li tingeva di un giallo sporco. Non ci volle molto per vedere il marito uscire di corsa e gettarsi nella bufera, prendere la macchina e partire verso la strada provinciale, al punto esatto dell’incidente mortale.
La cruda luce bianca entrava violentemente dalle finestre dell’ufficio e rivestiva tutto di una nuova, gelida consistenza. Persino i muri grigi, gli arredi di legno impiallacciato, i colleghi silenziosi alle scrivanie sembravano immersi in un assurdo acquario lattiginoso.
E mentre nevica, tu percorri elegante il corridoio. I miei pensieri sono gelidi come acuti spilli di ghiaccio. Li sento rimbombare dentro, mi rintronano. Ossessione, mi rubi l’energia.
Non ti devo guardare. Tu sei bella come sempre, col tuo passo leggero e gli orecchini che tintinnano mentre ti muovi. Non ti devo guardare. E se ti scruto incantato, lo schermo del computer è il limite invalicabile del mio voyeurismo. Come hai potuto farmi questo? Sono malato di te ed è tutta colpa tua. Intanto cade la neve con ritmo incessante: ha cominciato a coprire le macchine immobili nel parcheggio e i rami dei pochi alberi stecchi che scuri resistono, come soldati in attesa contro il vento della steppa.
Mi sporgo dalla scrivania per osservarti, mentre sei voltata. La tua schiena, il maglione gonfiato dal tuo corpo morbido, il profilo mentre passi: sono un invito. Poi ti giri, mi fermo di scatto, incurante e sprezzante di te. Perché mi fai questo? Non posso… ma alla fine cederò e sarai tu a vincere. Perché sei stata tu ad invitarmi, con il tuo sguardo, con il tuo sorriso.
Ogni tentativo di finzione per ignorarti nasconde profondità di tensione verso di te che non saprai mai. Sono morto per te, ma non lo saprai mai.
Mi inviti, mi perdi. Guardi la tormenta montare. Ti preoccupi e corrughi la fronte – e vedo benissimo quelle leggere pieghe sulla pelle bianca, sotto l’attacco dei capelli scuri che vorrei abitare – incerta se partire.
Mi alletti, mi perdi. Adesso vai alla tua postazione, prendi lo scialle e poi ti alzi flessuosa e indossi il cappotto… maledizione. Lentamente. Saluti tutti con il tuo calmo sorriso. Tutti tranne me. Abbiamo impiegato molto tempo a raggiungere questo sottile stratagemma di ignorarci per nascondere il nostro segreto. Ti volti appena, prima di uscire. Ma io solo so che quel sorriso è un segreto malizioso, nasconde cose non dette. Quel sorriso mancato è lanciato su un mondo vergine. Come quando passi veloce davanti alla mia scrivania con i tacchi che battono squillanti, come quella volta ho provato a stringerti contro la fotocopiatrice e tu mi hai amabilmente scostato, cosa provavi? Ora scappi in fretta per non farti sorprendere dalla neve. Non mi guardi – lo so come una mia certezza – per non destare sospetti: sei solo per me, ma dobbiamo accettare la legge del contrappasso che ci costringe a ignorarci quanto più ci desideriamo. Così, fingiamo di continuare nel lavoro, con i pensieri sono altrove, avvinghiati: mi perdi e mi distrai.
Continuava a nevicare, col vento di sbieco che ormai copriva i cartelli. Il riverbero che veniva dai campi e dal cielo, un tutt’uno senza confini, si riversava nelle stanze nelle ultime ore della giornata, quando al sole che tramonta si sostituisce un soffuso riverbero alogeno.
Dove sei? Esco dall’ufficio. La neve ormai ricopre tutto; sugli alberi, lungo il fossato sembra addirittura che sia accumulata da giorni. Con ritmo monotono cade, nel suo lungo soffio, senza prendere fiato. Cade la neve insistente sulle persone che escono dalla porta buia dell’ufficio, cade su di me e sulla tua ombra che sempre mi accompagna.
Come è cominciato? Il tuo sorriso ogni mattina, come la goccia che scava la roccia, ha finito per scolpirmi la tua immagine dentro. Volevi me. Il tuo corpo sfiorato appena. Sempre con gli altri, mai un attimo da soli. Quanto avrei potuto dirti! Ma tu forse vuoi rimanere con questo silenzio carico di attese. Così vicina da poterti toccare, così impalpabile da ingannare. Sei stata tu a cominciare, non te ne rendevi conto? Aspettavo un tuo segno. E più aspettavo più desideravo. E più aspettavo e più immaginavo e più mi intestardivo. Il tempo era tutto orientato nell’attesa di un tuo gesto nei miei confronti: sei stata tu a iniziare, anche se non te ne sei mai accorta.
Fuori, il vento gelido sferza uomini e cose: sotto agli scarponi scricchiola lo strato di neve che comincia a gelare pericolosamente. Le vetture lasciano strisce luccicanti e incerte sull’asfalto insicuro.
La macchina è serrata in un imballaggio di gelida neve, lo graffio via con mani bruciate. Il sedile è umido per i fiocchi che sono riusciti a intrufolarsi. Devo partire, devo fare in fretta. Ti farò una sorpresa. L’abitacolo è gelido, dalla bocca escono nuvole di fumo. O forse sono io così freddo per la tensione, per il desiderio di stupirti e finalmente raggiungerti e prenderti. Sai quanto ho combattuto per resistere, quante storie mi sono raccontato per non cederti, per avere lo sguardo altrove?
Mi metto in fila per uscire dal parcheggio, processione di slitte di tempi lontani.
Invece tu continuavi a insidiarmi. Ogni giorno quegli occhi luccicanti. Ci siamo fermati a chiacchierare più volte. Le nostre mani così vicine, i nostri corpi a un passo: allora perché hai esitato? Non capivi – mentre ti guardavo fissa – che il mio sguardo era desiderio? Da allora ho cominciato a seguirti sempre, di giorno in ufficio, di notte sul web: tu lo volevi.
Una lunga di fila di automobili procede nella strada principale, sferzata dal vento che porta la neve. Caute avanzano nel deserto bianco, dove dossi e curve e fossi non hanno più differenza. All’avvicinarsi di un incrocio, la fila incespica come un lungo bruco, si ingolfa, si ferma.
Sono prigioniero in colonna, ma il mio pensiero corre a te: sei già nelle mie mani, a casa, nella tua camera. Anche se non ti vedo da ore, non posso fare a meno di pensarti. Non può essere un inganno. Nella mia vita così sola sei tu il senso e l’ispirazione. Sento qui la tua voce, sento la consistenza del tuo corpo elastico, il profumo sa di agrumi, un groppo caldo mi angoscia il ventre. Per te sto correndo a rallentatore nella tormenta. Ma più della macchina corre il mio cuore, che sobbalza e sbanda per te, e la mia mente che non si ferma agli incroci e non mette piede al freno dei suoi desideri. E mentre corro su questa strada fragile di cristallo, insidiosa di gelo, cieco per le folate di neve che colpiscono il vetro e per la pressione nella testa offuscata di te, all’improvviso freno. Maledetta fila, e questo accumularsi di fiocchi. Un lampeggiare improvviso, si rallenta ancora. Mi avvicino all’incrocio. Vedo un camion contro un’automobile, immobili come una scultura già coperta di neve, insetto ribaltato e congelato. Incidente mortale, mi dico. Chi se ne frega? Devo arrivare da te. Questa indifferenza mi consola: so essere forte, finalizzato al mio obiettivo. Quella macchina ha vagamente la forma e il colore della tua. Ma non mi importa: avanzo, non ho tempo, per fortuna già la polizia fa avanzare il traffico. Così lento, così lento. Non mi interessa niente di quello che accade fuori, benedetta indifferenza! Capirai tutto: i fiori all’improvviso sul tavolo del tuo ufficio, senza un biglietto; le pagine strappate da libri, quelli che amo, nelle tasche della tua giacca; i messaggi sul telefono. Crudelmente ignorati. Non mi importa più niente del resto, neanche della morte vicina.
Perché già nella sala in penombra vedo le mie braccia che ti stringono… poi le mie mani lungo la tua schiena, ai fianchi e ancora giù. Oh, il tuo brivido quando ti sfioravo la schiena in ascensore, un secondo appena, un piacere nascosto! Ma le tue dita sottili dolcemente e lentamente mi toccano il petto. C’è una resistenza inattesa in quel gesto, stanca e risoluta. Ti voglio baciare, con violenza. Oggi dovrai ascoltarmi, capirai tutto. Non può essere un inganno. Tutto questo è per te. Questa gelida pace, questa indifferenza bianca. E non importa la tua vita con un altro… ora corro da te per convincerti che ti sbagli. Solo io posso averti, perché tu già riposi sul mio corpo, quando la mente indugia di notte.
Ecco finalmente la tua via che imbocco lento, ecco la casa. Il mio desiderio realizzato, dopo che ho cercato di resisterti crudelmente, dopo che ho cercato di ferirmi i pensieri e poi ho accettato la tua voce nella mia testa, il tuo corpo nel mio e, in fondo, il tuo tutto nel mio nulla.
Quando arrivò davanti alla casa di lei, le luci erano tutte accese. La porta spalancata, mentre la neve entrava dentro. Il bagliore della luce usciva rifrangendosi nei fiocchi cadenti e li tingeva di un giallo sporco. Non ci volle molto per vedere il marito uscire di corsa e gettarsi nella bufera, prendere la macchina e partire verso la strada provinciale, al punto esatto dell’incidente mortale.
La
struttura del racconto enfatizza molto bene la tensione e il desiderio erotico
del protagonista per l'appuntamento con la propria amante oltre ogni fatto ed
evento del mondo e lo scacco finale del mondo (l'incidente) che irrompe nei
propri desideri come impossibilità di soddisfarli. (Francesco Gaggi)
Andrea Parato nato nel 1979, in quello splendido periodo detto recessione, quando la gente non aveva la benzina e rimaneva a casa... Dopo una gioventù spesa negli eccessi e negli stravizi della periferia campagnola Riminese, ha annunciato ai genitori che non avrebbe fatto l’ingegnere. Ha intrapreso la prestigiosa carriera di scienziato della comunicazione. Per cinque anni ha provato a fingersi bolognese, ma la pronuncia romagnola lo tradiva. Così è tornato con una corona di alloro nella terra della piadina, dove una casa editrice misericordiosa lo ha assunto per occuparsi di web, corsi di formazione, libri e annessi. Ammette di avere amori poligami che non ha mai tradito: poesia, scrittura, comunicazione. E alla fine spera di abbandonarsi tra le loro braccia. Ha vinto parecchi concorsi letterari ed è pubblicato in varie antologie fariane e non solo.
Opere segnalate da Alessandra Pederzoli con pubblicazione
online nel blog narrabilando
Caterina, di terro di cielo… di niente
di Sabrina Lupacchini (Comunità di Capodarco) – molto incisiva, usa le parole
con semplici ed efficaci giochi che colpiscono a fondo.
Guarda sotto
quanto è
distante il vuoto
è come la
voragine che ha dentro
un vuoto
profondo
lungo quanto
una imprevedibile vita
Cammina avanti
e indietro
indietro e
avanti
…cammina…
A volte vola
a volte nuota
né pesce, né
alata
né donna…
Avanti e
indietro
indietro e
avanti
Caterina conta
Conta i
mattoni del paese
i passi della
gente
i minuti delle
parole
e le volte
che le hanno
chiesto un parere…
Conta le
sigarette fumate
le occasioni
mancate
i viaggi…
Nessuna casa
nessun figlio
qualche fugace
notte appassionata
Caterina conta
Conta una vita
su cui in molti
hanno messo le
mani
mano a mano…
Dicono
che è
“pazza”
Lei sorride
a volte
vorrebbe vederli scomparire
spesso non li
vede neppure
Caterina
68 anni
30 anni ‘di
manicomio’
18 in comunità
Caterina la
vita la conta….
Ma Caterina…
conta?
Documentarista sociale, artista, artcounselor. Da sempre coltivo la passione per il disegno e la grafica percorrendone diversi stili e tecniche espressive. Ho unito passione sociale e passione artistica lavorando come documentarista per l’Agenzia giornalistica Redattore Sociale e frequentando un master a Roma di Art counseling espressivo. Conduco laboratori d’arte e gruppi di formazione, sono direttrice editoriale per la Zefiro della Collana di racconti per bambini “Hamelin e le magiche terre”. Ho realizzato e curo con Roberta Fonsato il Magazine on line ARTe SOCIALE.it
Una
lettera speciale di Gianluca Lucchese (Pisa) – mi piace l'idea di una
lettera da scrivere alla propria anima e l'autore riesce a farlo in un modo assolutamente
non prevedibile
Mia cara,
ti scrivo per dirti che finalmente inseguo un sogno.
Mi sento come un ginnasta del cielo pronto ad afferrare un trapezio fra le nuvole.
Non ti nascondo però che ho vissuto minuti infiniti.
I tuoi desideri: ho gridato senza capirne i loro messaggi.
La tua bontà: ho sempre pensato non fosse genuina.
A volte, anzi, spesso, ti ho odiata, lo riconosco; specialmente nei giorni che hai solcato le mie guance come graffi sulla pelle, in quelli che mi hai spinto verso braccia sbagliate, negli altri che mi hai calato in notti profonde e mattine senza sole.
I tuoi valori: per farmeli assorbire hai seccato le mie parole come cemento al sole, scosso le gambe come treni sugli scambi.
Così, a poco a poco, come un vagone in salita, ho capito che è meglio vivere ascoltandoti.
Ho deciso che i tuoi messaggi sono l’unico binario da considerare.
Allora, inseguire il mio sogno è diventato come lanciarsi felice dal cielo; è afferrare quel trapezio sospeso in aria, è gioire dei tuoi preziosi, incantati, misteriosi, sentieri.
E se, nella peggiore delle ipotesi, il trapezio mi scivolerà o non sarò capace di afferrarlo, o ancora, se nell’afferrarlo finirò in un’altra dimensione lontana da questa, avrò comunque la certezza di aver vissuto la mia vita al massimo con te, cara e magica, Anima mia.
Parole in volo
Erano giorni di festa e di ferie.
Di progetti passati e futuri.
In quella notte che sapeva di febbre e tremito, alcuni esseri stravaganti, navigarono a lungo nei pensieri di Sara.
Era buio come tra le pagine di un libro chiuso.
La Luna iniziava a mostrarsi in punta di piedi. Come per non disturbare.
Nessun capello era al suo posto.
Nessun battito era quello di sempre.
Nessuna mano da stringere.
Planò un Airone. Grande. Bianco. Luminoso.
La stanza divenne un bellissimo stagno limpido.
L’eleganza di quell’uccello rassicurò Sara.
Il letto cominciò a fluttuare nell’acqua bassa.
Poco dopo venne a visitarla una grossa Farfalla. Tutta azzurra.
Ogni battito d’ali, che faceva spostare le tende, annuvolava il soffitto.
Così, piovvero perle colorate e una grande mano, sbucata dal tetto, sfiorò delicatamente, i capelli della donna.
Poi giunsero le onde. Alte e profumate.
Un sentore delicato come schiuma in vasca.
L’Airone e la Farfalla volarono via.
Sara si strinse al letto per non scivolare.
A bocca aperta osservò vascelli giganteschi cavalcare quel mare curvo.
Le lanterne a olio le illuminarono gli occhioni.
Salutò gli imponenti capitani che ricambiarono con tuono di cannone.
Infine, volarono parole che s’infransero nella porta e nelle finestre.
Alcune lettere s’inabissarono, altre rimasero appiccicate come foglie ad un tronco.
Poi, lentamente tutto sparì.
I capelli di Sara rimasero perfetti, il battito tornò quello di sempre.
L’ultima ad andarsene fu quella mano.
Si congedò così com’era apparsa. Lentamente. Dal tetto.
Prima di lasciarla, però, le porse un piccolo foglio verde con una piccola penna che scriveva di bianco.
La ragazza, oramai serena, anche se ancora affascinata da quelle visioni, aprì la finestra, guardò fuori, lontano, molto lontano.
Poi scrisse:
- Se per ogni sogno che progetto, dovessi assegnare una preziosa e profumata perla colorata, costruirei collane per giganti vanitosi.
Se i giganti vanitosi, m’incaricassero di scrivere versi per loro, lo farei nelle vele
delle loro ciclopiche barche.
Se ogni ciclopica barca che naviga nell’uragano dei miei pensieri, avesse una
destinazione da raggiungere, indicherei – sempre diritto al mio semplice cuore.
Infine, se il mio semplice cuore chiedesse per chi battere ogni giorno, gli
risponderei di farlo per ogni sogno che progetto e che ha come simbolo una
preziosa, profumata, perla colorata…
Piegò il foglio per farne un aeroplanino, alitò sulla punta, come da bambina, si sporse dalla finestra e lo lanciò lontano…
Fly me to the moon
Un tavolo da colazione come amico: alto e discreto.
Un foglio di carta e una busta.
Sul grande frigo americano un post-it: sap. piatti, olio, scottex.
“Fly me to the moon” suona alla radio.
La penna comincia a scrivere. Decisa.
- Ho appena concluso anni di sedute.
Mi hanno insegnato a ricontestualizzare ogni pensiero e immagine poco
produttiva.
È vero, sul cuore ho tante cicatrici, ma la tua è sempre viva: si sente anche
sfiorandomi la pelle.
Per dimenticarti, la penso come a una ruga di troppo.
Quel tuo profumo di vita, diventa fumi di scarico, odore pesante di binari
rugginosi in stazione, asfalto caldo che esala dopo una pioggia d’agosto.
La luce penetra come effluvio di caffè.
C’è tanta voglia di burro e marmellata.
L’inchiostro scorre sul foglio come succo d’arancia.
I semi, rimasti nello spremitore.
- Per scordare anche il tuo nome, ogni volta che la mia mente lo vede, ne frantumo la parola in lettere e a ciascuna ne assegno una di città.
Risultato finale: penso ogni istante di fare con te, due volte, il giro del mondo
stringendoci la mano fino a diventare vecchi.
Mi sa che mi hanno rubato tanti soldi…
Sinatra fa il resto “ fammi volare fino alla luna/ fammi giocare tra le stelle/ fammi vedere se è come saltare tra Giove e Marte/ in altre parole prendi la mia mano e baciami.”
Il caffè è finito. Il succo d’arancia lo segue.
La luce entra come pioggia obliqua.
La lingua umida lambisce la striscia adesiva e la busta chiusa, senza indirizzo, finisce nel cestino.
Sul post-it un’altra voce aggiunta subito dopo: carta da lettere.
Mi sento come un ginnasta del cielo pronto ad afferrare un trapezio fra le nuvole.
Non ti nascondo però che ho vissuto minuti infiniti.
I tuoi desideri: ho gridato senza capirne i loro messaggi.
La tua bontà: ho sempre pensato non fosse genuina.
A volte, anzi, spesso, ti ho odiata, lo riconosco; specialmente nei giorni che hai solcato le mie guance come graffi sulla pelle, in quelli che mi hai spinto verso braccia sbagliate, negli altri che mi hai calato in notti profonde e mattine senza sole.
I tuoi valori: per farmeli assorbire hai seccato le mie parole come cemento al sole, scosso le gambe come treni sugli scambi.
Così, a poco a poco, come un vagone in salita, ho capito che è meglio vivere ascoltandoti.
Ho deciso che i tuoi messaggi sono l’unico binario da considerare.
Allora, inseguire il mio sogno è diventato come lanciarsi felice dal cielo; è afferrare quel trapezio sospeso in aria, è gioire dei tuoi preziosi, incantati, misteriosi, sentieri.
E se, nella peggiore delle ipotesi, il trapezio mi scivolerà o non sarò capace di afferrarlo, o ancora, se nell’afferrarlo finirò in un’altra dimensione lontana da questa, avrò comunque la certezza di aver vissuto la mia vita al massimo con te, cara e magica, Anima mia.
Parole in volo
Erano giorni di festa e di ferie.
Di progetti passati e futuri.
In quella notte che sapeva di febbre e tremito, alcuni esseri stravaganti, navigarono a lungo nei pensieri di Sara.
Era buio come tra le pagine di un libro chiuso.
La Luna iniziava a mostrarsi in punta di piedi. Come per non disturbare.
Nessun capello era al suo posto.
Nessun battito era quello di sempre.
Nessuna mano da stringere.
Planò un Airone. Grande. Bianco. Luminoso.
La stanza divenne un bellissimo stagno limpido.
L’eleganza di quell’uccello rassicurò Sara.
Il letto cominciò a fluttuare nell’acqua bassa.
Poco dopo venne a visitarla una grossa Farfalla. Tutta azzurra.
Ogni battito d’ali, che faceva spostare le tende, annuvolava il soffitto.
Così, piovvero perle colorate e una grande mano, sbucata dal tetto, sfiorò delicatamente, i capelli della donna.
Poi giunsero le onde. Alte e profumate.
Un sentore delicato come schiuma in vasca.
L’Airone e la Farfalla volarono via.
Sara si strinse al letto per non scivolare.
A bocca aperta osservò vascelli giganteschi cavalcare quel mare curvo.
Le lanterne a olio le illuminarono gli occhioni.
Salutò gli imponenti capitani che ricambiarono con tuono di cannone.
Infine, volarono parole che s’infransero nella porta e nelle finestre.
Alcune lettere s’inabissarono, altre rimasero appiccicate come foglie ad un tronco.
Poi, lentamente tutto sparì.
I capelli di Sara rimasero perfetti, il battito tornò quello di sempre.
L’ultima ad andarsene fu quella mano.
Si congedò così com’era apparsa. Lentamente. Dal tetto.
Prima di lasciarla, però, le porse un piccolo foglio verde con una piccola penna che scriveva di bianco.
La ragazza, oramai serena, anche se ancora affascinata da quelle visioni, aprì la finestra, guardò fuori, lontano, molto lontano.
Poi scrisse:
- Se per ogni sogno che progetto, dovessi assegnare una preziosa e profumata perla colorata, costruirei collane per giganti vanitosi.
Se i giganti vanitosi, m’incaricassero di scrivere versi per loro, lo farei nelle vele
delle loro ciclopiche barche.
Se ogni ciclopica barca che naviga nell’uragano dei miei pensieri, avesse una
destinazione da raggiungere, indicherei – sempre diritto al mio semplice cuore.
Infine, se il mio semplice cuore chiedesse per chi battere ogni giorno, gli
risponderei di farlo per ogni sogno che progetto e che ha come simbolo una
preziosa, profumata, perla colorata…
Piegò il foglio per farne un aeroplanino, alitò sulla punta, come da bambina, si sporse dalla finestra e lo lanciò lontano…
Fly me to the moon
Un tavolo da colazione come amico: alto e discreto.
Un foglio di carta e una busta.
Sul grande frigo americano un post-it: sap. piatti, olio, scottex.
“Fly me to the moon” suona alla radio.
La penna comincia a scrivere. Decisa.
- Ho appena concluso anni di sedute.
Mi hanno insegnato a ricontestualizzare ogni pensiero e immagine poco
produttiva.
È vero, sul cuore ho tante cicatrici, ma la tua è sempre viva: si sente anche
sfiorandomi la pelle.
Per dimenticarti, la penso come a una ruga di troppo.
Quel tuo profumo di vita, diventa fumi di scarico, odore pesante di binari
rugginosi in stazione, asfalto caldo che esala dopo una pioggia d’agosto.
La luce penetra come effluvio di caffè.
C’è tanta voglia di burro e marmellata.
L’inchiostro scorre sul foglio come succo d’arancia.
I semi, rimasti nello spremitore.
- Per scordare anche il tuo nome, ogni volta che la mia mente lo vede, ne frantumo la parola in lettere e a ciascuna ne assegno una di città.
Risultato finale: penso ogni istante di fare con te, due volte, il giro del mondo
stringendoci la mano fino a diventare vecchi.
Mi sa che mi hanno rubato tanti soldi…
Sinatra fa il resto “ fammi volare fino alla luna/ fammi giocare tra le stelle/ fammi vedere se è come saltare tra Giove e Marte/ in altre parole prendi la mia mano e baciami.”
Il caffè è finito. Il succo d’arancia lo segue.
La luce entra come pioggia obliqua.
La lingua umida lambisce la striscia adesiva e la busta chiusa, senza indirizzo, finisce nel cestino.
Sul post-it un’altra voce aggiunta subito dopo: carta da lettere.
Gianluca, Lucchese
di cognome ma Pisano, esordisce
con Buttafuori per caso, prefaz. di Klaus Davi. In seguito,
pubblica racconti in antologie della Giulio Perrone Editore e Delos Book. Con La
spiaggia perfetta, Miele Ediz., vince il concorso letterario “Favole,
cammini e percorsi” ed è tradotto nel 2010 in inglese con The perfect beach. Attualmente tiene
una rubrica su Ihf (Magazine Fashion). Tra alcune
registrazioni audio, si segnala “L’elogio
al coglione”, caricatura ironica e sarcastica sulla banalità e superficialità
di un mediocre rappresentante
della razza umana, interpretato magistralmente da Paolo Rossini.
Basta
l'anno di Davide Barbieri (Ferrara) – geniale, breve ma geniale
Gianni, il postino, e Gil erano davanti alla fermata
dell’autobus. A Gianni, nel salire, cadde un espresso, Gil lo vide, raccolse in
fretta la busta e riuscì con tempestività a salire sull’autobus, entrando dall’ultima
porta, che stava ormai per chiudersi. Il tram era stracolmo di gente, Gil, che
aveva la busta in mano, si chiese il perché gli fosse caduto proprio
quell’espresso, e non una comune lettera. Si guardò intorno e vide Gianni,
inconfondibile con gli occhiali spessi due dita, al centro del tram, sommerso
dalla gente che era dentro. Il primo pensiero di Gil fu di farsi spazio e di
dargliela, ma la voglia di curiosare era talmente tanta che girò le spalle e
aprì la busta; quando lesse il contenuto, all’improvviso diventò pallido, le mani e la fronte sudavano freddo, e si
appoggiò con la testa contro il vetro. Dopo alcuni secondi la lesse ancora e
poi ancora. Intanto, la sudorazione aumentava e Gil, per non attirare
l’attenzione della gente che gli era intorno, col fazzoletto, facendo finta di
starnutire, si asciugò il sudore e cercò di tranquillizzarsi, il più possibile.
Rilesse per l’ennesima volta l’espresso e scoppiò in un’incredibile,
incontrollabile e fragorosa risata; questo perché quell’espresso conteneva
poche parole, quelle giuste. Quelle che nessun uomo si aspetta di leggere in
vita: il giorno della propria morte, erano indicati anche il mese e l’anno. La
sua risata fu perché a lui non interessava il giorno e il mese, ma l’anno: era
il 2033. Gil, che aveva 65 anni, fece velocemente due conti: a quel punto, si
fece largo in mezzo alla folla, andò da Gianni, si lasciò andare a un grosso
abbraccio e scese dal tram fischiettando. Gianni scosse la testa e proseguì la
sua corsa sul tram.
Davide Barbieri nasce a Ferrara il 29 aprile del 1962, ha lavorato come impiegato presso un'azienda metalmeccanica e oggi si occupa di facilitazione sociale. Appassionato di scrittura a vari livelli, segue oggi laboratori di scrittura creativa per trovare sempre nuove parole. Vive nel cuore della sua città.
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