V DOMENICA QUARESIMA – Anno liturgico A
di fra Paolo Barani
Nel cammino – simbolico ed esistenziale – di questo tempo, siamo giunti alla V tappa, la Domenica della risurrezione di Lazzaro, della vita che vince la morte. Veniamo così proiettati e condotti verso l’evento centrale di tutto l’anno liturgico e della nostra fede: la memoria annuale della Pasqua del Signore, crocifisso, sepolto e risorto per la nostra salvezza. È ormai davanti a noi la celebrazione di questo grande mistero, che si apre con la Domenica di Passione e ci si presenta in un modo assolutamente imprevisto, inedito, unico: quest’anno sarà la prima volta nella storia, da quando Gesù ha mangiato la Pasqua con i suoi discepoli, che tantissima parte del popolo di Dio, in quasi tutte le chiese sparse nel mondo, non potrà radunarsi per farne il memoriale… solo i sacerdoti – e qualche ministro per il servizio liturgico – potranno celebrare i sacri riti, ma senza la presenza e partecipazione dell’assemblea…una vera e propria contraddizione, una stridente realtà!
Costretti ad un isolamento forzato, innaturale, preventivo o terapeutico a motivo della pandemia che ha paralizzato gran parte dell’umanità, ci troviamo impauriti e smarriti, impotenti di fronte ad una tempesta inaspettata e furiosa che ci ha presi alla sprovvista (come ci ha ricordato papa Francesco commentando il Vangelo in quella preghiera che da una deserta e silenziosa piazza S. Pietro ha abbracciato il mondo intero) e ci ha letteralmente travolti. E in questo sconvolgimento ci ritroviamo come lasciati soli – come se Lui, il Signore, si fosse addormentato – disorientati e privi del segno tangibile, il sacramento della Sua presenza, che dà senso e speranza al nostro camminare, faticare, gioire, piangere… in tale vuoto desolante ed assordante si alza un forte grido, un’impellente domanda, un’intensa preghiera: «Quando si acquieterà questo mare in tempesta, quando potremo riunirci insieme e sedere a mensa per spezzare il Pane di vita… quando, Signore?»!
Un appello, quello che sale dal profondo del cuore, reso ancor più urgente dalla promessa, dalla parola dello stesso Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete … L’ho detto e lo farò» (cfr. I lettura, Ez 37, 12-14). Una promessa che non lascia spazio a dubbi o incertezze, non dà adito ad equivoci, una parola certa e chiara quella di Dio, garanzia di fedeltà, pegno di sicuro compimento. Il popolo d’Israele non si trova più nel deserto ormai da molto tempo, da secoli e secoli (!); è già entrato nella Terra promessa ed ha subìto per la seconda volta l’esperienza amara e triste dell’esilio…non ha imparato la lezione, ha dimenticato anziché ricordare. Eppure la promessa del Signore non viene meno, la sua parola è fedele; è annunciato nuovamente un tempo di ritorno, di rinascita, di libertà. In tale prospettiva risuona ancor più forte il grido: “quando…?!”; quando avverrà questo ritorno alla vita e alla gioia, quando sarà il tempo in cui Dio realizzerà le sue promesse, compirà ciò che ha detto…? A tal grido fa eco la nostra voce, la nostra preghiera, che si eleva dal profondo fino al cielo nell’ora presente, nel qui della nostra esistenza, e non solo mosso dall’emergenza “covid-19”: «Quando aprirai questo mio “sepolcro”, le nostre “tombe”, o Signore? Quando finirà questa intima sofferenza, quella situazione opprimente, questa mia schiavitù o dipendenza? Quando farai entrare il tuo spirito in me, in noi per ridonare vita, quando saremo finalmente liberi e potremo riposare nella nostra terra?»! Sì, a fronte della promessa divina, resta viva, aperta e vacillante – a tratti disperante – la nostra attesa di un’ora futura in cui verrà la risoluzione, l’intervento di Dio.
Entro tale attesa, s’innesta e giunge puntuale la parola del Vangelo (cfr. Gv 11, 1-45): «“Signore, ecco, colui che tu ami è malato”. All’udire questo, Gesù disse: “questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio”». Essa illumina le tenebre che sono calate su di noi e si sono impadronite delle nostre vite ed apre una via dove ricercare le risposte vere alle nostre legittime, giuste domande. Lazzaro, amico amato di Gesù – insieme con le sorelle Marta e Maria –, è simbolo della richiesta di ciascuno di noi; incarna ogni situazione di malattia, del corpo o dell’anima, che attende guarigione, liberazione, salvezza; esprime la speranza di una condizione migliore, rinnovata, di libertà e di pace; dà voce alla domanda di senso per la nostra esistenza, una vita più bella e felice, pienamente realizzata. Lazzaro è malato, come anche noi, e mandano a dirlo a Gesù. Di fronte a tale appello accorato e pieno di speranza, alla domanda implicita di intervento e salute, Egli – il Figlio di Dio – prima di recarsi dall’amico per guarirlo («svegliarlo»), si ferma inaspettatamente e rimane inspiegabilmente altri due giorni dove si trovava… attende paradossalmente la sua morte: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là …»! Come intendere, come leggere questa “attesa di Dio”, questo Suo star fermo, non rispondere né esaudire subito la nostra domanda, addirittura “essere contento di non essere presente”?! È il medesimo atteggiamento di quando Gesù, in mezzo al lago in tempesta, sulla barca sballottata dalle onde, con i discepoli allarmati e disperati, se ne stava sul cuscino e dormiva (cfr. Mc 4, 35-41). Comprendiamo molto bene la reazione dei discepoli – «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» – poiché è anche la nostra: di fronte al pericolo che incombe e ci sovrasta, alla concreta possibilità della morte che s’avvicina con la sua ombra, noi “siamo perduti”, ci vediamo in balia delle onde, sconvolti e sopraffatti, ed attendiamo-pretendiamo un intervento di Dio, che ci tiri fuori dai guai, che ci liberi; il Suo silenzio, il Suo “dormire tranquillo e beato”, senza rispondere subito al nostro urgente appello, ci lascia sconcertati e lo percepiamo come un disinteresse, un non curarsi di noi, come pensassimo: “non t’importa di me?”. Abbiamo l’idea che dinanzi ai bisogni, alla sofferenza dell’uomo Dio non può stare a guardare senza far nulla, rimanere indifferente e inerte; perciò quando le cose non cambiano o piuttosto volgono al peggio, quando il “miracolo” sperato non avviene o accade l’irreparabile, allora pensiamo che Egli sia “assente” o addirittura “impotente”. È quanto Marta e Maria dichiarano apertamente a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!»; è in fondo quanto sentiamo profondamente anche noi: “se il Signore fosse presente, questo male dovrebbe finire, quella disgrazia non doveva succedere …”. Abbiamo l’intima convinzione – e forse dovremmo riconoscere a volte la presunzione – che Dio deve ascoltare (nel senso di “soddisfare”) le nostre richieste, e se a maggior ragione uno è “credente”, non può, anzi non deve accadergli nulla di male, tutto deve “andare bene”!
In verità la parola che Gesù annuncia, il segno che Egli compie ci mostra un’altra logica, una sapienza divina e non soltanto umana, ci richiama allo sguardo di una fede autentica. Alle sorelle di Lazzaro, come ai discepoli sulla barca e così anche a noi , il Maestro riporta l’attenzione su cosa sia veramente credere, “aver fede”: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Ciò non significa solo credere alla vita eterna – «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno», confessa Marta – ma piuttosto “credere in” colui che è la vita senza fine già ora, nella realtà presente, e che in Lui possiamo risorgere fin da subito, anche se infettati dal male o avvelenati dalla morte. Come annunciava il Papa – in quella sera densa e tenebrosa dall’alto del Vaticano – il Signore rivolge un appello alla nostra fede, che “non è tanto credere che Lui esista, ma venire a Lui e fidarsi di Lui”. Ecco, se tu riponi in Gesù questa fiducia incondizionata, in quel preciso momento entrerai nella luce e nella dinamica della risurrezione: «Tuo fratello risorgerà», adesso, anche se è lì nel sepolcro da quattro giorni; anche quando la più dura e cruda realtà ci pone davanti all’ineluttabile, anche se umanamente non c’è più speranza … in Cristo è sempre possibile rialzarsi e “venire fuori”; per Lui la morte è come un “sonno”, da cui Egli stesso viene a risvegliarci, poiché questa è la forza di Dio – ci ricordava papa Francesco – “volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte, perché con Dio la vita non muore mai”… anche quando sopraggiunge la morte!
Egli infatti ha cura di noi, ci ama infinitamente, è turbato, profondamente commosso e “scoppia in lacrime” di fronte alla tragedia mortale dei suoi “amici”, alla nostra malata e fragile umanità … ma questa malattia è accettata e subita «affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato»: “credi questo?”. Se anche noi – con Marta – risponderemo: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo», potremo veder iniziare a realizzarsi la profezia di Ezechiele: «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri».
L’ultimo “segno” compiuto da Gesù, prima del “segno” grande e definitivo della Sua risurrezione, ci offre la chiave di volta, il punto fermo su cui far leva in ogni malattia o morte quotidiana e con esso possiamo seguire le orme del Cristo dentro al mistero della Pasqua, Sua e nostra (cfr. II lettura, Rm 8,8-11).
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