domenica 5 gennaio 2020

STEP


A tutti i buoni lettori
di Charles Dickens


https://it.wikipedia.org/wiki/William_Turner
William Turner, autoritratto (1799)


Fuori pioveva. Una pioggia indolente, buona solo a respingere chiunque avesse la malsana intenzione di far quattro passi per sgranchire un po’ le gambe indolenzite. Step diede una rapida occhiata dalla sua finestra che richiuse subito, pensando e imprecando: “Che il diavolo se la porti!”. Quindi, indossò un barbour blu col cappuccio e uscì dalla stanza.
Percorrendo lo stretto corridoio che conduceva alla scala, il bel ritratto di chi sa quale Rettore del passato lo fissò con sguardo severo e gli domandò: “Ehi tu, ragazzino, dove credi di andare?”. Step, con passo deciso, giunse al pianerottolo della scala, ma prima di scendere ascoltò il silenzio. Era un silenzio non temibile, normale, lo stesso che aveva ascoltato tante altre volte, forse però con meno attenzione. I gradini di legno cigolarono, uno dopo l’altro. Un cigolio lamentoso, sopportabile. Probabilmente, questo rumore non disturbò nessuno tranne il vuoto, tutto attorno.
Erano partiti proprio tutti, qualche ora prima, per le vacanze natalizie. Tutti i suoi compagni avevano lasciato il grande edificio ottocentesco portandosi dietro pesanti valigie e borsoni e tanti frettolosi saluti. Li aveva osservati dall’alto della sua finestra andar via, partire, uno dietro l’altro, dentro le loro station wagon accompagnati dallo sguardo e dal mezzo sorriso, una specie di ghigno, del Rettore, un bell’uomo sulla sessantina, che era rimasto sulla soglia d’ingresso sino all’ultima auto scomparsa in fondo al viale.
Step li aveva osservati siano all’ultimo e durante tutto quel via vai non aveva provato nessun sentimento, non aveva pensato a nulla. Solo, ogni tanto, appoggiava la punta del suo naso sul vetro per assaggiare quanto fosse liscio e freddo. Dopo l’ultimo studente, era partito anche il Rettore con la sua Mini Minor color crema e la marmitta un po’ difettosa.

Dopo esser sceso per le due rampe al piano terra si fermò e diede una occhiata qua poi una là e ascoltò. Niente, tutto era immobile, silenzioso, al buio o in penombra. Sapendo dove andare non accese nessuna luce. Si diresse verso la fine dell’ampio corridoio di sinistra per poi aprire la porta che dava accesso alla prima cucina. Solo allora accese la luce e andò nell’anti dispensa, dove appeso c’era il quadro contenente tutte le copie delle chiavi dell’edificio. Cercò e subito trovò quella della porta di servizio che afferrò sorridendo. Dopo tre decise mandate la porta si aprì. Quindi, tirò la porta dietro di se e uscì all’aria aperta.
La pioggia non era poi una vera pioggia, piuttosto una specie di vapore che, pensò, non lo avrebbe bagnato più di tanto. Comunque, istintivamente tirò su l’ampio cappuccio. Con le mani nelle tasche, fatti alcune decine di passi si fermò e si voltò. Osservò il grande edificio muto, spento, e lo sentì triste, inespressivo come non mai.
Gli edifici come questo son tutti così quando restano soli, vuoti; quando, dopo tutto, non sono altro che una montagna di pietre, mattoni, legno. Solo la luce lasciata accesa della sua stanza al primo piano sembrava guardarlo, quasi spiarlo.

Step avrebbe voluto saper volare per poterlo ammirare dall’alto, per poterlo abbracciare con un solo colpo d’occhio. Dovette accontentarsi di scrutarlo dal basso, da una prospettiva che metteva in evidenza la sua antica facciata, quella che era lì da ormai oltre tre secoli. Dunque, si voltò di nuovo e continuò la sua passeggiata.
Il tardo, nordico pomeriggio stava per aggredire ogni cosa iniziando a gettare come leggeri mantelli qualche ombra qua e là, sfumando in timidi acquarelli vari colori, facendo in modo che fosse a tutti ben chiaro che il sole, pur molto flemmaticamente, proprio senza alcuna fretta, stava per andarsene in chi sa quale parte dell’universo, a baciare altro e altri. Step amava il pretramonto, quel tempo che ti dà tutto il tempo che vuoi per sganciare il freno, per lasciar andare tutto quello che solo qualche ora prima era importantissimo, intanto, poi, di lì a poco, il sonno e qualche strano sogno si porta via tutto in fretta e furia. Rallentando il passo, mise degli auricolari e dopo aver digitato dallo smartphone l’applicazione iniziò ad ascoltare.

Ascoltò l’aria: Kind health descends on downywings, dall’Ode for the Birthday of Queen Anne, di Handel, una volta, una seconda e una terza volta, affascinato, smarrito, catturato. L’aveva ascoltata per la prima volta cantata da un suo compagno di corso, uno dei tre solisti del Coro, quello al quale permetteva certe confidenze e di accompagnarlo nelle sue gite in bici nei dintorni non lontani. Era un’aria difficile, impegnativa, ma da alcuni giorni s’era messo in testa di impararla e, segretamente, di superare proprio quel suo compagno a dire il vero molto dotato, ma anche troppo sicuro di sé.
Per questo, dopo averla ascoltata tre volte, spense lo smartphone e iniziò a cantarla. La sua voce, magicamente, prese a batter le ali e a volare sopra il viale, gli alberi, il parco, oltre il muro di cinta.  Camminava a piccoli passi, tenendo gli occhi chiusi e le braccia aperte, a croce, per dilatare la sua gracile cassa toracica e poter così maggiormente riempire quei suoi polmoni ai quali sembrava non bastassero mai le pur grandi e ritmiche boccate d’aria. Da oltre un mese aveva capito e sperimentato quanto nel canto si doveva alla corretta, giusta respirazione. Imparata la tecnica, le note uscivano e si libravano secondo il respiro, l’aria incamerata, la capacità di somministrare la sufficiente dose. Con tanto caparbio esercizio aveva capito che la sua voce dipendeva dalle corde vocali, uniche e irripetibili, ma anche dell’aria come per qualsiasi altro strumento a fiato.

Ogni tanto si fermava e riprendeva da capo, allargando ancor di più le braccia e stringendo forte le mani a pugno. Sentì i polmoni dilatarsi, mentre le corde vocali vibravano come mai prima avevano fatto e le note uscire con naturalezza, senza sforzo. Ripeté l’aria finché le luci crepuscolari esterne all’edificio non iniziarono ad accendersi, come per magia, una dopo l’altra. Era il segnale che il tramonto era giunto con tutto il suo carico di rubacolori e che molto presto avrebbe fatto razzia di tutti i pigmenti portandoseli via in un solo batter di ciglia.
Per questo, iniziò a tornare sui suoi passi, con le braccia abbassate e un pochino indolenzite, ma continuando a tenere le mani chiuse a pugno, però senza tensione. Man mano che riconquistava la strada fatta e si avvicinava all’edificio, sentiva l’aria di Handel, cantata e ricantata, ronzargli dentro e fuori, in modo potente, emozionante, passionale. Pur tenendo le labbra chiuse, la cantava con una tale dolcezza che proprio non poté, ad un certo punto, non fermarsi, portare le mani sul volto e scoppiare in un pianto soffocato, ma liberatorio, che sentì non doloroso, ma felice. Fu un pianto di gioia che gli mancava da troppo, troppo tempo.
Giunto davanti alla porta esterna della cucina, prima di aprirla, si soffiò forte il naso e con il dorso delle mani si asciugò le lacrime, calde e salmastre.

Riposta la chiave, andò ad aprire uno dei frigoriferi e ne tirò fuori una bottiglia di latte. Quindi, ne trangugiò un po’ direttamente. Poi, uscì ed andò dritto dritto in un’aula poco distante. Era quella con al centro un pianoforte a coda Steinway & Sons, quello delle noiose lezioni di tecnica vocale, di impostazione della voce, degli estenuanti esercizi. Cercò e trovò lo spartito dell’aria e sedette al piano. Lo sfogliò più volte. Dunque, iniziò a suonare e a cantare, ma presto s’interruppe. Una violenta pioggia picchiava sui vetri decisa a sostituirsi a qualsiasi scala di note del piano e della sua voce. Però, Step non si infastidì, ma si mise ad ascoltare. Ma che bel suono emetteva quella pioggia sui vetri! Ma che bella musica! L’indolente pioggia era diventata un vero musicista che ben sapeva come colpire i vetri delle finestre. Restò così in ascolto per un bel po’ di tempo, assorto in pensieri che presto lo ovattarono e isolarono dalla pioggia, dall’aula, dall’edificio. Scivolò dalla sedia, si accasciò a terra e si addormentò.

Al risveglio, la pioggia continuava a infrangersi contro i vetri, ma non delle finestre dell’aula. Intontito, si guardò attorno. Una grande stanza lussuosamente arredata aveva occupato il posto dell’austera aula. Ricchi addobbi natalizi la rivestivano, coloravano, illuminavano. In un camino decorato da tarsie marmoree di diverso colore, incorniciato da ghirlande di pungitopo, la legna crepitava con tanta gioia, esultanza. In uno degli angoli della stanza un alto albero di Natale, coloratissimo, emanava luci sfavillanti a intermittenza. Sotto i suoi rami, dai quali pendevano piccole e grandi sfere di vetro colorato, nastri d’ogni fantasia, caramelle e cioccolatini, scatole di diverse dimensioni, incartate a festa, attendevano pazientemente l’arrivo sicuramente di qualche bambino.
Step annusò un sottile odore di cannella, caramello, pudding, anice, menta, noce moscata, uva passa, che si librava per tutta la sorprendente stanza. Lungo le sue pareti, tavoli riccamente imbanditi di ogni ben di Dio, leccornie prelibate, sotto quadri raffiguranti foreste e castelli innevati, villaggi colorati di autunno e inverno. Osservò, incantato, il tutto più volte non riuscendo a dare una spiegazione di quel che i suoi sensi catturavano avidamente.
Mentre la pioggia continuava a picchiettare sui vetri, Step non riuscì a resistere alla tentazione di staccare da uno dei rami dell’enorme albero natalizio un cioccolatino a forma di stella cometa. Aveva il gusto dell’arancia amara. Ne prese, poi, un altro a forma di mezza luna. Questo aveva il gusto della ciliegia. Mentre lo masticava con vero piacere ad occhi chiusi, udì una voce grave: “Ehi, figliolo, calma, calma!”. Bloccò, perciò, il movimento della mascella e aprendo gli occhi si voltò dalla parte dalla quale avevo udito provenire quella voce misteriosa. Non vide nulla. Ingoiato il cioccolatino, stese la mano per prenderne un altro e riecco la stessa voce di prima ammonirlo: “Ora, basta così, Step!”. Si voltò di scatto e ancora una volta non riuscì a vedere nulla. Ma, questa volta rimase immobile, pronto e riascoltare la voce che non tardò a farsi risentire: “Vieni, vieni, su avvicinati!”. Step, però, indietreggiò anziché avanzare in direzione della voce. “Sono qui, su vieni!”. Pur non riuscendo a vedere l’autore di quell’invito, decise di fare qualche passo verso un quadro raffigurante un castello rinascimentale circondato da una fitta foresta innevata. Dopo il terzo passo, ebbe come un brivido di freddo, ma pur lentamente si avvicino sino a qualche palmo di distanza dal quadro.

Mentre fissava il quadro, ecco di nuovo la voce: “Avvicinati di più, sono qui!”. A un solo palmo di distanza, a una finestra del castello, vide un volto paffuto, sorridente. Allora, si accostò ancor di più. Dall’interno una mano lo salutava e gli faceva cenno di avvicinarsi. Aveva uno strano copricapo sulla testa e indossava un maglione dai colori sgargianti. Gli occhi, grandi e verdi, irradiavano un senso di maturità e saggezza. “Ed eccoti qua, caro Step!”. “E tu chi sei? E com’è che sai il mio nome?”, gli domandò Step quasi ficcando il suo naso oltre la finestra. “Il mio nome è Abra. Sono il signore di questo castello e della foresta. E di te so anche che sei solo al mondo, che qui canti come nessuno dei tuoi compagni e che un giorno vorresti esibirti nei teatri più famosi”. Step stette ad ascoltarlo e ascoltandolo il timbro di quella voce gli risuonò familiare. Perciò, gli disse: “Ho già sentito la tua voce, ma non ricordo dove e quando”. “Dai, aiutami ad uscire e ti dirò”, gli chiese Abra sporgendosi dalla finestra. Step gli porse il mignolo destro che Abra prontamente afferrò. Quindi, tirò e tirò. In un batter d’occhio Abra fu fuori e si mostrò in tutta la sua figura. Era più alto di Step quasi il doppio, indossava pantaloni alla zuava di velluto verde scuro e calzava scarponi dalle fibbie d’argento. Notò anche un grosso anello nell’anulare della mano sinistra.

Con tanta meraviglia di Step, Abra si sedette all’indiana sul pavimento invitandolo a fare altrettanto. “Non ricordi? Non puoi ricordare!”. “Perché?”. “Perché eri lì e ora sei qui!”, gli rispose indicandogli il quadro dal quale era stato estratto. “Non capisco, non capisco! Ti prego, parla!”. La bella voce implorante di Step giunse in una piccola cavità del cuore di Abra e dal suo occhio destro sgorgò una lacrima azzurra che rigò la guancia grassoccia sino a fermarsi sotto la mandibola tremante. Quindi, dopo aver sospirato disse: “Prima della solitudine e del canto tu eri… - s’interruppe come per raccogliere e scegliere le giuste parole - il signore del castello e della foresta. Io ero il tuo servo, il tuo maestro, il tuo custode. I tuoi genitori ti affidarono a me nella notte durante la quale, per non sacrificarti, si sono sacrificati lasciandosi abbracciare e divorare da uno dei vecchi alberi della foresta il cui nome è Mangiacuore. Quando una mattina, avevi iniziato a parlare da circa un anno, ti sentii cantare un motivo che tutte le sere ti canticchiavo per aiutarti a prender sonno, capii che era giunto il tempo e decisi a malincuore di darti al Dottor Richard, che con grande sorpresa all’alba ti trovò che giocavi inseguendo il suo cocker spaniel davanti all’ingresso del College. Ti prese con sé e con l’aiuto della domestica - la moglie era morta qualche mese prima - ti ha allevato scoprendo presto il tuo talento. Ed io, allora, tornai dentro il tuo passato dove sono stato sino ad oggi”.

Step, terminato il racconto, lo guardò commosso. Si guardarono l’un l’altro. Non dissero una sola parola. Non c’era bisogno di nessuna parola. Lasciarono che gli occhi e i volti dicessero molto più delle parole. Poi, Abra domandò timidamente: “Posso, posso riabbracciarti?”. Step non se lo fece dire due volte. Si gettò tra le braccia di Abra e i due piansero a lungo. Allora, tutti i profumi divennero più intensi, i colori più luminosi, le fiammelle impazzite si accendevano e spegnevano con maggiore velocità e danzavano in modo sinuoso. Il grande albero di Natale vibrando fece tintinnare i suoi addobbi producendo una musica poetica, romantica. Nel camino la legna, bruciando, emanò una delicata fragranza di resina festeggiata dal crepitio di fuochi artificiali. Poi, improvvisamente, più nulla, silenzio, buio e penombre sparse qua e là.

Step si destò come da un lungo, piacevole sonno. Aprì, quindi, gli occhi e si stiracchiò come faceva tutte le mattine al risveglio nel suo letto. La stanza di Abra non c’era più, era scomparsa. Al suo posto, riecco l’aula di sempre con il suo pianoforte al centro, gli scafali con gli spartiti, le sedute a semicerchio per i cantori. Si alzò di scatto e riguardò il tutto.
Ogni cosa era al suo solito posto, ma non c’erano più il camino, l’albero, gli addobbi natalizi. Anche i profumi e gli odori si erano volatilizzati. Ed insieme, anche i colori e i suoni. Proprio tutto, come per magia, era scomparso. Però, di Abra qualcosa era rimasto: il suo strano copricapo. Step lo notò sopra la scrivania, quella dove c’era un po’ di tutto: spartiti sgualciti, carta da musica, matite, gomme. Lo prese e lo indossò e come l’ebbe infilato nella testa, lo sentì caldo e avvolgente. Andò, quindi, davanti a una delle grandi finestre della stanza. Appoggiò la punta del naso sul freddo vetro e vide che fuori albeggiava. Una pallida, smorta luce filtrava tra le maglie di un tessuto fatto di nebbia finissima. Fuori ancora pioveva. Una pioggia confusa tra un grigiore gelato e una luce molto, troppo timida. Dunque, la notte era trascorsa: “Così in fretta?”, pensò Step. Sì, giusto e solo il tempo per rivedere, riascoltare e riabbracciare Abra, il suo passato. Il suo ricordo gli provocò come una scossa. Le lacrime vennero, ma visto che era solo, a Step non dispiacquero, anzi li lasciò sgorgare. Non le asciugò. Colarono sino alle labbra e leccandole le sentì calde, salmastre, buone. Per questo, pensò: “Ci sono anche lacrime buone”, e sorrise. Andò, poi, a sedersi davanti al pianoforte. Intonò l’amata aria e lasciò che la musica fosse sua amica insieme alla pioggia. 




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