venerdì 4 gennaio 2019

“Maria sembra stendere fatti che spiegano naturali misteri…”

recensione di Roberto Marconi pubblicata su Pelagos, 2018



Una scrittura in presa diretta, quella in prosa che spesso sembra essere poetica, un flusso di coscienza con una folta punteggiatura, quelle di Certe piccole lune (Fara editore, 2017). Frasi nette e schiette che non lasciano altre riflessioni se non molte in chi le legge e tutto al presente indicativo, come se quello che si vive è sempre oggi, pure in quello che si è fatto. Una raccolta biografica di persone, fatti, emozioni, gioie e dolori. Come il racconto dal titolo Nando al tiro, uno dei tanti personaggi che sembrano proprio reali in questo libro, che scompare dalla circolazione a sua volta dopo la morte della moglie e che da questa botta si “riprende” con altre bòtte, quelle rimediate andando in un poligono a discapito della poesia, che raccoglieva una volta e che poi butta, inesorabilmente, in un cassonetto.
Separazioni, divorzi, amori furtivi in auto, su di un camper, nelle pagine che si sfogliano, due che amoreggiano apertamente in uno scompartimento sfidando forse lo sguardo dell’autrice o magari rendendola complice di quell’amplesso ferroviario.

Maria sembra stendere fatti che spiegano naturali misteri, d’altronde gli astri di riferimento, nel titolo, sono simboli che compendiano e influenzano le persone (femminili) e gli avvenimenti terrestri. Ecco che lei ha una necessità di luce, come denunciano i suoi titoli bibliografici: “Ai piedi del faro”, “Certe piccole lune”, “Sinopia per appunti”, “Cambio di luci”, “Effetto giorno” e “Giardini d’aria”.

Ogni minima proposizione in ciascun conticino – parliamo di due pagine di media a narrazione, solo uno arriva a nove, l’ultimo, un thrillerino, un nuovo genere breve intitolato Il capolavoro del 1953 (una prova in giallo) – affonda in minuziose descrizioni così la protagonista in Rosanna e i savoiardi ci fa capire come ci si deve voler bene, nonostante le dure vicissitudine della vita, allora basta “il piacere dei savoiardi imbibiti di dolcezza” che “Rosanna ha la sua vita nelle sue braccia”.
Termina la giornata come si conclude la scrittura, col punto. In un’altra fermata ecco incontrare un altro ossimoro, Don Fabio che si scalda al solo pensiero che le donne possano diventare sacerdotesse.

L’arte contemporanea oggi è prevalentemente esperienza, lo è ancora di più nella narrativa. Nei racconti della Lenti, genere ancora più congeniale, c’è di continuo uno scambio tra il suo sentire le cose e quelle di chi incontra, anche se a pag. 124 scrive “Personaggi e vicende sono puro frutto di fantasia e immaginazione” io non ci credo. Più vado a ritroso nel leggere e più penso a Robert Walser (è una fissa) però più stringato, dove ci sono troppe cose da dire o da descrivere che rimangono tali o si fa del proprio meglio per esporle; con la voce di dentro che detta naturalmente ed escono fuori, le parole, le congiunzioni, in fila i puntini, le virgole, si sdraiano e decidono quando fermarsi, perché continui il lettore. No, chi legge non rimane inerme, tocca faticare per trovare il capo, perché bisogna ritornare indietro per sapere come finisce. Altre volte si va troppo veloce a leggere per chiudere, per vedere dove l’autrice va a parare, che si salta a piè pari gli ostacoli fondamentali dell’interpunzione e l’immaginazione fa la sua parte. Anche a me capita, come a Maria, di ricercare una parola precisa per connotare un personaggio o una frase, come in “inbibiti” già letto, o “sedulo” nel racconto finale, solo per fare qualche esempio. In fin dei conti è una scrittura quella che ho appena letto “in viaggio” come scrive alla fine di Migliore festa: domenica in città: “La mia vita è questo pranzo sull’alibi di un pendolarismo da sciabordio acustico”. Il viaggio allora è la nostra aria, a volte ci soffoca, fa dolore forte al petto come un incidente, come nell’altro racconto toccante e ripetuto nei punti di vista in Lio e Pinella e il sogno di ieri, dove l’amore, il sogno e il trauma si riverberano. Mi fermo qui nelle descrizioni, non c’è bisogno di aggiungere altro poiché ci deve pensare chi ci prende in mano, quella Mano nella mano di un altro racconto, che ci accompagna per farci perdere piacevolmente nelle storie. Perché nonostante tutto Maria da l’impressione che si sia divertita a scrivere tutto, e io con lei a leggere, quasi come se tutto dovesse essere scritto diversamente e con tante impressioni, come un’urgenza oppure un’opportunità di lasciare una testimonianza della nostra storia in questo paese. Ma un suo racconto qui lo aggiungo:
IL CIGLIO SUL CUORE
Il ciglio sul cuore: Salvador Dali? Un surrealista? Un artista bizzarro? Un fotogramma di Un Chien Andalou di Buñuel? Un bambino o una bambina che mette in atto la sua fantasia?

L’attesa di una lettera: questo il significato del ciglio sul cuore.
Le cose, in quella comunità di collegiali, andavano così attorno al 1953…

Genitori poco alfabetizzati, famiglie lontane e indaffarate, francobolli troppo cari per salari inesistenti o racimolati facendo vari lavori e, magari, vendendo uova, pelli di coniglio, la posta arrivava con una parsimonia tale da intensificare la voglia di essa, di notizie, di un bacio e un abbraccio che chiudevano i fogli spesso di quaderno dentro buste rosse, le più economiche. Qualcuna, lì da anni, ritorno a casa nemmeno d’estate – s’e saputo in seguito che il mestiere della madre non lo permetteva e che il tribunale aveva deciso il collegio per quella bambina figlia occasionale di un cliente occasionale -,  era all’asciutto da capo alla fine dell’anno.

Adalgisa, la più estrosa, quella che leggeva sotto le coperte al chiarore di molte lucciole, tenute nel palmo dopo essere state rincorse nella palestra scoperta, quella che faceva girare illimite la mia immaginazione nella improbabilità dei suoi discorsi leggendari, mitici, lei, mai nemmeno un rigo, se ne era uscita con una novità: mettersi sul cuore un ciglio, caduto da solo nel viso o nel petto lavandosi o asciugandosi, avrebbe portato una lettera, una cartolina postale.
E giù, molte di noi, bambine e ragazzette a scrutarci nell’unico specchio vicino ai lavandini per rintracciare quel peletto.

Seguivo le altre, benché la posta a me non mancasse. Almeno una volta alla settimana avevo la mia lettera sul banco in cui, di pomeriggio, facevamo i compiti. La mia famiglia infatti, era sparsa. In Sardegna, minatore (il babbo), militare (Remo, a Bari-Barletta-Altamura), sposata (Liliana, a qualche chilometro dal mio paese), in Francia a lavorare (Lorenza), a casa (Antonia) a cucinare, pulire, imparare da sarta per uomo, con Romolo che faceva il muratore a Urbino.

La posta, parecchia. Ma il ciglio da posare sul cuore lo cercavo accanitamente. Le compagne, scarsa simpatia, mi guardavano di traverso: «Ingorda. Sei un’avida. Sei in peccato mortale. Ti devi confessare.»
Non avevo mai rivelato che sul pelino ricurvo caricavo il desiderio di vedere tutti i miei riuniti in agosto, nelle vacanze.

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