giovedì 9 ottobre 2025

MODE DEI TEMPI ANDATI: LE SARTORIE DELLA NONNA STELLA

di Vincenzo Capodiferro


Vogliamo ricordare la nonna Stella, detta di “Cicerino”. Era una bella donna e tutti la chiamavano per le cerimonie, soprattutto i matrimoni. Il matrimonio era anche l’occasione per lo sfoggio dei migliori abiti. Parliamo di un paesello appollaiato sugli Appennini, versante lucano: Castelsaraceno.  

Castelsaraceno è un paesello allegro, come un bambino cullato da due monti della Lucania: l’Alpi ed il Raparo. È come una pietra preziosa incastonata nella corona delle cime dell’Appennino. Il primo ad occidente e il secondo a settentrione proteggono il paese in modo che l’orizzonte si allarga solo ad oriente, verso un’amena vallata. Tanto è vero che l’erudito di Latronico Gaetano Arcieri, nel descrivere il borgo usava questi termini: «Di angusto orizzonte, di orrendevole aspetto». Diceva un proverbio antico: «Nu pinnineddu e nu pitticeddu, tirituppiti inta Casteddu» (Una salitella e una discesa ed eccoti a Castello!).

Allora i vestiti venivano preparati tutti a mano, non c’erano negozi di abbigliamento. I genitori si mettevano d’accordo: la donna portava la dote e soprattutto il corredo. Il corredo era tutto il patrimonio, fatto di lenzuola, coperte, cuscini, preparato dalle brave donne del paese. Tutte le ragazze sapevano cucire e ricamare, oltre a fare tutto. Nella tradizione era famoso il puntino ad ago di Latronico. Poi il pranzo nuziale era organizzato dai parenti: ammazzavano le pecore, cucinavano e fittavano una sala, o mangiavano nelle case dei palazzi nobiliari. C’era una storia antica che raccontava dello ius primae noctis. Castello si vide conteso e oltraggiato da tre padroni, i quali per diritto tutti ne pretendevano la giurisdizione e soprattutto vessavano il popolo di tasse. Sia il duca Ugone che l’abate Antonio Sanseverino, nonché il Principe di Stigliano, che avanzava pretese nel feudo, imposero un potere intollerabile. Il Principe di Stigliano, con la forza, pretendeva in eguale misura «tutto quanto sopra ed, oltre a ciò, estese i diritti feudali a cose di onore di estrema delicatezza». In pratica esercitava lo ius primae noctis. Probabilmente furono questi soprusi che sollecitarono molti cittadini ad allontanarsi da Castelsaraceno e trasferirsi alle falde del Pollino, dando origine al paese di San Severino Lucano. La leggenda vuole che un marito travestito da moglie picchiasse il signore feudale.

Padre Giuseppe da Campora, cappuccino, si lamentava di questa situazione, traducendo un distico latino, nostalgico del governo dei monaci di Sant’Angelo al Raparo: 


Quanti padroni mi diè barbara sorte, tutti mi diede ad oltraggi, ad infamia, a morte; addio prisca moral, bei giorni aviti quando mi ebbi a signori i cenobiti. 


Stella di Cicerino aveva sposato un allevatore abbiente, Giovanni di Cacoscia. I padrini e le madrine dei matrimoni godevano di uno status sociale importante: il compare di san Giovanni, o la comare di san Giovanni, venivano chiamati. Come vediamo in queste foto la nonna Stella era ambita in più matrimoni e di solito compare a latere agli sposi o appena dietro: 


  


Questa foto risale al matrimonio di Comare Maria di “Repole”. Anche in questa altra: 


al matrimonio di compare Cesare. E poi mangiavano e bevevano nelle case. 



I soprannomi erano tutto: si riconoscevano le persone solo da quelli. Parliamo di moda: pur in un paesello abitato soprattutto da contadini e pastori, però c’era tutto un fermento intorno alla lavorazione dei tessuti. La lana era tutto, perché c’erano tanti allevatori. C’erano i cardatori, coloro che lavoravano questo prezioso tessuto, facevano materassi, cuscini. Le donne, le anziane soprattutto, con i ferri facevano calze, maglie, mutande, mutandoni, sottane. Tra le penelopi, tessitrici che avevano il telaio, c’erano Elena di Falamita, Sabella di Sabelluccia, Angiolina di Ciruzzo, Egidia di Milano, Carmela la Bisiera. Oltre alla lana si usava molto il cotone, importato, tessuto dei poveri. Poi il terital, che veniva chiamato “tiritallo”. Tessuto più pregiato era il castorino, il velluto, usato dai nobili, il lino ed anche la seta. C’erano degli allevamenti serici, come è attestato dalla tradizione e della coltivazione dei gelsi. Comare Gelsomina allevava i bachi da seta. Producevano una seta grezza che poi rivendevano, ma riuscivano anche a realizzare capi delicati. Abbiamo una serie di pregiate casule nel museo della Chiesa, fatte dalle operose mani delle nonne sarte. Poi c’erano dei telati, con cui lavoravano sia il cotone che la lana, la canapa e soprattutto un tessuto resistentissimo che veniva tratto dalla ginestra. La procedura per ricavare il filo di ginestra era lunghissima. Si mettevano a macerare per tanti giorni e poi si sfilacciavano. Con la ginestra si producevano sia capi grossolani, come sacchi, stoffe per materassi, ma anche lenzuola che sfidano i secoli. I materassi dei più poveri erano riempiti con foglie secche di mais, o altro. Ancora abbiamo delle lenzuola di ginestra con le iniziali di nonna Stella Candia - SC. I materassi dei più ricchi erano di lana e tessuti doc come il Sassonia. I cardatori delle lane emigravano e portavano quest’arte fin oltreoceano, in Argentina, ad esempio, la seconda Italia. La canapa era coltivata fin dai tempi antichi, ma dagli anni Settanta in poi, ne venivano usata le foglie per scopi diversi e quindi molte piantagioni furono estirpate. Anche per le calzature facevano tutto i calzolai che ce n’erano tanti. I più poveri andavano a piedi o usavano degli zoccoli con pianta di legname e un pezzo di cuoio. Possedevano solo un paio di scarpe più decenti che indossavano per le occasioni. La nonna ci raccontava che gli stessi vestiti se li passavano tra fratelli o tra parenti e duravano anni e anni. C’erano nel paese tanti laboratori sartoriali, trai più noti c’era la sartoria Lampo, che si trovava in Via Leopardi, in cui lavoravano Ferrante, Minuccio di Calabria, mio zio, Antonio e Felice di Tredici. Poi c’era un’altra sartoria di Attilio in piazza Sant’Antonio. Trai sarti più precisi c’era Generoso il Collegatore. Le stoffe li portavano i moliternesi. Moliterno era un paese di abili mercanti: andavano dappertutto. 

Trai negozi del paese c’era quello di Luigi Natale: 



Poi con il boom economico degli anni Cinquanta cominciarono a sorgere i negozi di abbigliamento. Abbiamo una testimonianza della sorella della nonna Stella, Angelina, che era emig
rata a Milano insieme a zio Minuccio di Calabria, che era diplomato da sarto e poi lavorava presso la Garzanti. Mio zio mi voleva tanto bene e da bambino mi ha inondato di libri. Debbo a lui tanto amore per la cultura e per la letteratura e lo ricordo sempre con affetto. Ad un Natale, la sorella della nonna invia un completino da Milano, affinché lo indossasse, come è riportato in questo stralcio di lettera: 



E così arriva il tempo delle mamme e della generazione nostra, degli anni Settanta. Allora la moda aveva fatto pass
i da gigante. Ma ricordiamo sempre con affetto la moda dei nonni. Le nonne erano avvolte da sottane e recavano lunghi scialli neri, che li portavano a vita, soprattutto dopo i lutti. 

Qui abbiamo degli esempi, anche con un costume di Pisticci: 



Nelle case non c’erano i bagni e ci lavavano così: 



Ma era bello. C’era tanta allegria, anche se non c’era niente. E noi piccolini eravamo felici con niente! 


  

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