giovedì 23 agosto 2018

Le Ferrovie dello Sato: emozioni e ricordi.

di Basilio Fimiani 



Tornava in bicicletta, stanco ma sereno, talvolta anche dopo turni di lavoro di mattina e di notte (capo e coda), nello steso giorno.
Lungo la notte, in veglia o in sonno pieno, tante vite erano passate in vagoni veloci, sui binari, sotto la cabina del movimento treni.
Subito dopo la Guerra, e fino agli anni Ottanta, Nocera Inferiore, era un nodo ferroviario principale, con la fermata obbligatoria di tutti i treni, per la spinta verso la salita di Cava.
Tanti i manovali, i deviatori, i frenatori, i macchinisti e i capistazione sotto la guida del titolare col fregio dorato sul berretto rosso.
Dopo le notti di pioggia, anche con gli abiti bagnati, tornava comunque al nido: era mio padre, ferroviere, con la eterna rotense fornita di freni a bacchetta.
In quel tempo, essere componente, a qualsiasi livello, delle Ferrovie dello Stato, era motivo di orgoglio.
La divisa grigio scura, le scarpe di ordinanza, il pastrano costituivano il corredo con la F.S. argentata e ricamata sotto il taschino del petto, con tanto di camicia e cravatta.
Si leggevano, “Le voci della rotaia”; ogni Natale arrivava, per tutti i figli, la befana del ferroviere e, quando proprio occorreva, si acquistavano su un carro-biblioteca, i vocabolari di greco e di latino, pagati con piccole rate mensili dallo stipendio.
Agli studenti, a qualsiasi età, anche universitari si assegnava il permanente per tutta la durata degli studi. Il documento permetteva di viaggiare gratuitamente sui treni fino al conseguimento della laurea.
La grande famiglia della rotaia vantava tradizioni antiche e spesso socialiste come nel periodo post bellico del biennio rosso.
Già dal 1834, in piena epoca Borbonica, con le locomotive Bayard di Santa Maria La Bruna (oggi museo ferroviario), si andava con le cento porte da Napoli a Portici, sede della Reggia estiva, in poche decine di minuti.
La linea ferroviaria del Regno delle due Sicilie era la più efficiente e la più sviluppata, rispetto a tutti gli altri stati dell’Italia ancora disunita.
Persino Franceschiello, nel 1859 inaugurava a Codola vecchia la prima galleria ferroviaria sotto la collina di Santo Apollinare, una altura che separava le starze di Castel San Giorgio dai fertili terreni di Fiano e Lavorate, appena all’inizio della Campania un tempo felix, col suo pomodoro San Marzano già famoso nel mondo.
Proprio sotto questa galleria, diversi ferrovieri, soprattutto manovali, anche nel ventennio nero, si riunivano e con vigili vedette alle due imboccature, a squarciagola cantavano, tra lacrime di rabbia Bandiera rossa e L’internazionale.
Come la tratta da Roma-Napoli, seguiva il tracciato della via Appia, così la linea ferroviaria da Serino a Codola a Sarno e quindi a Napoli seguiva lo stesso cammino sotterraneo dell’acquedotto Giulio Claudio e, con profonde gallerie portava acqua pura di sorgente dalle montagne irpine fino alla piscina mirabilis di Pozzuoli, vicino alla sede della flotta romana di Capo Miseno.
La stessa flotta era sotto il comando di Plinio Il Vecchio fino al 79 d.C., annus terribilis per motum terrae.
Ma torniamo alle ferrovie: tante le reti secondarie o a scartamento ridotto.
Va precisato che la distanza (scartamento regolare) tra un binario e l’altro corrispondeva alla misura esatta dell’asse del carro romano.
Questo per tutte le ferrovie del mondo.
Solo Stalin, in vista di una eventuale occupazione tedesca, modificò gli assi con vagoni e motrici dalle rotaie più distanti e larghi.
Così il generale inverno, dopo Napoleone, senza efficienti mezzi di trasporto sconfiggeva anche Hitler e l’armata tedesca di von Paulus bloccata dal ghiaccio a Stalingrado.
Al contrario, le ferrovie a scartamento ridotto avevano vagoni più piccoli per il trasporto locale di merci e passeggeri.
Sorelle minori delle ferrovie nazionali, già capaci di affrontare grandi distanze, le complementari sarde, le ferrovie siciliane, le calabro-lucane, già costruite da Ricciotti Garibaldi in uno con la Cartona del Sannio, con le linee vicentine ed anche tramviarie, rappresentavano un modello di sviluppo sociale attento ai trasporti pubblici e tale da facilitare gli spostamenti dalla periferia al centro, e viceversa.
Poi si preferì il trasporto su gomma con il mito della 500 Fiat e le tre M, Macchina Moglie Mensile.
Col taglio dei rami secchi, specie in periferia, cominciò il lento declino: mano a mano venivano dismesse le efficienti littorine e le macchine a fuoco, con la abolizione della terza classe.
Grazie alla automazione graduale, con la sopraelevazione di ponti autostradali, si abolirono pure i passaggi a livello e venne meno il ruolo dei relativi assuntori.
Le assuntorie erano piccole stazioni dotate di un modesto appartamento per il ferroviere e la sua famiglia.
Spesso, tra il passaggio di un treno e l’altro, segnalato dal ticchettio di un campanello, il custode aveva il tempo di abbellire il suo giardino con alberi da frutto, di coltivare l’orto attiguo ai binari.
Si arrotondava così il modesto stipendio mensile.
Intanto i treni si facevano sempre più veloci, si accorciavano le distanze e l’Italia registrava un tasso di migrazione interna ed europea pauroso.
E sempre il treno rapido o direttissimo trasportava, diplomato o laureato, con valigie di cartone, il figlio del muratore o del contadino, dai paesi del Sud nell’industria del Nord, nella prospettiva, come per il ragazzo della via Gluck, di un miraggio economico mai sperimentato.
Era il tempo del neorealismo cinematografico con Rocco e i suoi fratelli.
Tanti i drammi già preconizzati nella “Rivoluzione Meridionale” di Guido Dorso:

“Fino a quando il Sud destinerà le sue migliori energie umane al Nord del mondo, nei paesi del benessere dove gli stessi giovani, accolti, faranno fortuna, il Meridione sarà sempre il paese dell’anima, sempre più desolato e senza sviluppo, con una disoccupazione esponenziale ed una precarietà sempre più dilagante.”

In questo ambiente ci saranno sempre i figli di un Dio minore ed i raccomandati, futuri yesman dei raccomandatari (correva l’anno 1929).
Se in verità lo sviluppo dei trasporti pubblici su rotaie fosse stato potenziato, soprattutto con la valorizzazione della periferia e forti agevolazioni alla agricoltura, avremmo avuto uno sviluppo più umano e meno inquinante.
I centri siderurgici, attuali cattedrali nel deserto, foraggiati dallo stato, le industrie tutte che hanno modificato in peius lo stesso ecosistema ambientale, l’inquinante avvelenamento delle falde acquifere, già prefigura malessere, malattia e morte.
Purtroppo con le ferrovie non furono sempre rose e fiori.
In particolare, si ricorda la tragedia del 3 marzo del 1944 tra Balvano, Tito e Muro Lucano.
Lungo la tratta non elettrificata della linea Battipaglia-Potenza ci fu una strage di più di 500 innocenti.
Su un treno merci, l’8017, composto da più di 50 carri, adibiti al trasporto del legno, si erano ammassati moltissimi abusivi che, dirigendosi nel potentino, praticavano la borsa nera, per sopravvivere.
Senza lavoro, col rischio del carcere e del sequestro dei loro beni, cercavano col baratto di guadagnare qualcosa per le famiglie affamate.
Il convoglio, superata Battipaglia, si inoltrava su una linea strategica, gestita dagli americani, che occupavano, come ora, manu militari, il nostro territorio.
Gli amerikani responsabili, almeno sulla carta, della vigilanza della linea ferroviaria gravemente danneggiata, si preoccupavano poco o niente dei piccoli furti o dei viaggiatori senza biglietto.
Quando, poi, potevano profittare, soprattutto di una donna, con le loro am-lire, un po’ di cioccolato o un pugno di farina, lo facevano senza scrupoli e talvolta la avevano vinta sulla miseria.
Vi erano poi anche treni adibiti al trasporto di persone, con la scritta: “cavalli 8 uomini 40”.
Purtroppo a causa dei bombardamenti molte partenze venivano soppresse.
D’altronde, non si poteva nemmeno acquistare il biglietto, per viaggiare sul carro merci.
Ma torniamo a quella maledetta notte del ’44.
Il convoglio era appena entrato nella galleria delle Armi, quando la pessima qualità del carbone delle due locomotive trainanti, già bottino austriaco di guerra (15-18), impediva il movimento delle rotaie sui binari nella galleria.
Intanto, il fumo aveva invaso ogni cosa.
Di qui l’avvelenamento per zolfo e monossido di carbonio di quasi tutti.
I poveri cristi, del lumpenproletariat di Nocera Inferiore, Pagani, Ercolano,
Vietri, avvelenati nel sonno, passarono direttamente al freddo della morte, macchinisti e ferrovieri compresi.
Si salvarono per puro caso, solo i viaggiatori abusivi degli ultimi due carri, che erano rimasti fuori della galleria appena imboccata dalle due vaporiere che slittavano sui binari impedendo al convoglio di andare avanti.
In quel caso si poteva anche andare indietro, ma i macchinisti, con i fumi velenosi, furono i primi a morire.
Ed intanto alla stazione di Balvano così a Tito e a Muro Lucano si aspettava invano il treno.
Dopo circa due ore, allertati da un custode dei binari e da qualche superstite scampato per puro caso, i ferrovieri di tutte le stazioni limitrofe iniziarono la triste operazione degli inutili soccorsi, allineando le salme lungo le banchine adiacenti ai binari.
Non pochi, senza documenti di riconoscimento, furono comunque seppelliti.
Quattro furono le fosse comuni che accolsero più di 500 vittime.
In verità, è ancora difficile attribuire le colpe di centinaia di vittime non coperte nemmeno dalla assicurazione inclusa nel biglietto di viaggio che nessuno aveva.
Gli americani, i padroni del vapore, avevano fornito del carbone slavo di pessima qualità che impediva, pure bruciando, una valida forza motrice.
Lo stesso carbone emetteva fumi di zolfo e di velenoso carbonio, tanto pericoloso da provocare, in assenza di ventilazione, il blocco dei polmoni e quindi la morte.
Ma gli americani erano e sono americani.
Proprio ora essi ci difendono ancora con la NATO e per il loro servizio chiedono il doppio degli importi da sempre versati.
In effetti ha ancora senso mantenere le truppe del Nord Atlantico?
O è tutto un gioco a dadi, tra le due superpotenze, per mantenere sotto il loro tallone protettivo tanti popoli senza avvenire?
Dulcis in fundo o, meglio, in cauda venenum: del più grande disastro ferroviario, in Italia, e, forse, nel mondo non si parlò per anni, se non vagamente.
Ancora oggi, poco o niente si conosce dell’olocausto: così aveva disposto il comando americano che gestiva strategicamente quel tratto ferroviario militarizzato e tutta la stampa nazionale.
E la storia continua con panem, circenses e pallonite.
Non pochi italiani farebbero file chilometriche per avere un autografo dal mitico Ronaldo.
Povera Italia e poveri tanti italiani.
Sed usque tandem, Catilina abuteris patientia nostra?

Agosto, 2018 




P.S. L’Autore, attualmente in pensione, è stato Preside in diversi Licei Statali, componente di diverse Giurie nei Premi Letterari Nazionali; ha sostenuto il Premio Nazionale Biennale di Poesia “Città di Solofra” redigendo, insieme a Vincenzo D’Alessio, l’Antologia del Premio Nazionale Biennale di Poesia XII Edizione 1998.

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