Henri Bergson
sostiene che noi siamo il nostro passato
e che questo non può essere recuperato se non attraverso la memoria, meccanismo
che ci permette di riprodurre
l’esperienza passata e renderla nuovamente attuale, nonostante la lontananza sia
spaziale che temporale dell’evento. Dalla memoria - operativamente collettiva -
al ricordo, quale esperienza soggettiva, il passo è breve se pure, sempre
Bergson, lega al tema della memoria, indissolubilmente, quello del tempo e in
particolare il tempo della coscienza, il tempo interiore attraverso il quale si
recuperano fatti e circostanze, per offrire chiarezza alle radici di ognuno di
noi. Così, in un viaggio, che Sant’Agostino chiamava la sala immensa dell’anima, è possibile ripercorrere le esperienze
vissute, le sensazioni, ciò che si è appreso… viaggio che sarà affrontato
attraverso le sedute di psicanalisi laddove, agli inizi del ‘900, la scienza
aiuterà a riscoprire l’identità perduta di ognuno. In letteratura molti esempi
ci presentano le tematiche della memoria, una per tutte valga l’opera di Pavese
La luna e i falò nella quale,
connotando l’esperienza biografica e il vissuto dell’autore in un ritorno al
proprio paese di nascita, del protagonista del racconto, verrà consentito a
questi e all’autore stesso di effettuare il tentativo di ricerca delle proprie
radici sociali e culturali che, nel caso specifico, risulterà deludente, se
pure effettuato con la volontà forte di ricostruzione, proprio come detto, della
memoria. Vale la pena, inoltre, fare almeno un brevissimo accenno al lavoro di
Proust che, partendo da quella piccola e assai nota madeleine si trova a evocare, attraverso il protagonista del
romanzo, La ricerca del tempo perduto
- titolo ampiamente emblematico -, una serie di ricordi legati fra
loro da un processo di tipo analogico.
Dunque sulla memoria si
basa anche la trama del romanzo di Adele Desideri, e anch’essa - lo notiamo
subito - propone un titolo assai significativo in tal senso, La figlia della memoria, quasi a mettere
sull’avviso di primo acchito il lettore che, da lì si parte per questo viaggio
interiore dal quale non sarà possibile uscire senza portarsi dietro una qualche
traccia, un qualche particolare, una qualche nota, della protagonista Andreina, che non ci risulti familiare o
che non diventi parte di noi. La trama del racconto è già di per sé un qualcosa
di coinvolgente: le generazioni nate intorno alla seconda metà degli anni ‘50
non potranno non ritrovarsi nel pensiero comune sia familiare che urbano che
scolastico, negli avvenimenti politici e sociali, nei moti d’animo di giovani e
adulti, e persino nell’abbigliamento scelto e nell’oggettistica descritta per
l’uso dei protagonisti. Un tuffo in un’epoca che sembra lontanissima, che il
precipitoso sviluppo della tecnologia ha reso oltremodo quasi antica, ma che è
appena dietro l’angolo con tutte le sue contraddizioni, i suoi entusiasmi e i
suoi fallimenti, le speranze disattese su cui si fonda per buona parte anche la
deriva dei nostri giorni, compreso il pensiero ancora confuso, distorto e
irrisolto sulla violenza di genere.
Andreina è il prototipo di
un’infanzia abbandonata psicologicamente, di un’adolescenza in preda alle crisi
della crescita senza confidenti e rassicurazioni, di un’età adulta incapace di
ricucire i pezzi della propria interiorità, circondata da “nemici fidati” che approfittano,
massacrano, tentano di uccidere quel che resta di buono in un animo in cui compaiono
impellenti richieste e ricerche di umanità, tentativi ripetuti di riprendere in
mano la propria vita. Tutto viene disatteso: l’amore materno e paterno, l’amore
per il compagno, l’amicizia, il rispetto per se stessi, tutto rotola verso una
rovina sempre più profonda che tende alla distruzione totale della donna, anche
e soprattutto in quanto tale.
Si soffre in compagnia di
Andreina: quel vuoto interiore diventa il nostro, apre voragini nel corpo e
nella mente, matura un sentimento di autodistruzione nel quale, a tratti,
sembra di venire coinvolti in toto, non contemplando vie d’uscita.
Si piange per Andreina e
insieme a lei si sconfina nella depressione più assoluta, si odono le voci che
fanno paura e compagnia, si attraversano tunnel con l’ansia del buio e il senso
di soffocamento, ci si isola su scogliere in simbiosi con il solo vento, si prova
l’ebrezza dell’alcool unico alleato all’oblio.
Ci si bea della bellezza di
Andreina, specchiandosi con lei in specchi che rimandano un fisico snello, dei
capelli ricci, un volto volitivo e interessante, sempre in preda alla paura di
non piacere, di non essere all’altezza, e con lei ci si veste in quei suoi
panni enormi e debordanti - troppo larghi perché dismessi dalla sorella più
grande e più grassa – ma anche, e forse proprio per questo, impegnati a
nascondere chissà quali tesori e quindi intriganti, ammalianti.
Si sorride con Andreina per
le goffe vicende legate all’infanzia, per i suoi tentativi di imitare i cugini
maschi, per i suoi innamoramenti corrisposti e non, per quella voglia di
crescere e per quella confusione creata dalle famiglie d’origine, a mezza via
tra lo stato nobiliare e contadino, con un intercalare di linguaggi, tra cui
prevale il vernacolo toscano, quasi a sottolineare l’ironia di certi motteggi,
se pur serissimi nelle intenzioni.
Ci manca il fiato quando
Andreina inconsapevole prima e smarrita poi, subisce violenze domestiche - se
pur fatte per amore, ma per amore malato – violenze dalle quali dipenderanno le
sue inquietudini e che continueranno a tormentarla nella crescita e a tornare
quale marchio infamante, quale condanna di chi è succube di un destino e
persevera nell’accettarlo.
L’epilogo, per niente
scontato, ci spiazza. Per ritrovare se stessi, dopo il viaggio nella memoria,
ci sarà bisogno della fede, ci sarà bisogno dell’abbandono della vita terrena e
delle sue dissolutezze, ci sarà bisogno di isolamento e preghiera, ci sarà
bisogno di quell’amore assoluto: L’amore
che, solo, resiste nell’eternità. Non ce lo saremmo aspettato questo da
Andreina. Forse avremmo voluto che si trovasse nel mondo, e non fuori dal
mondo, avremmo preferito che affrontasse di nuovo la vita prendendola tra le
mani e ricominciando a lottare con più forza, con più consapevolezza, che
avesse detto a quella stessa vita che era tornata, che era la stessa Andreina
ma che aveva capito come doveva tenerle testa. Andreina, invece, sceglie
un’altra via, non più facile, ma diversa: sceglie la via della carità, della
preghiera, appunto, dell’isolamento. Non sapremmo dire se è una scelta giusta,
se poteva essercene un’altra, se a quarantacinque anni - questa è l’età in cui
la protagonista prenderà i voti, come suora di clausura - non restava altro da
fare. A noi piace ricordare Andreina col suo vestito largo e la cravatta sulla
camicia sbottonata al collo, coi suoi ricci ribelli e il suo sguardo curioso
della vita, sempre in cerca di risposte… una vita che certo le ha rubato e le
ha scavato dentro tantissimo, fino a farle desiderare quella pace e quell’amore
che solo ha trovato tra le mura del convento.
Un lavoro di scrittura,
questo di Adele Desideri, che tiene mirabilmente le fila di numerosi
personaggi, oltre che della protagonista, che racconta di tempi e luoghi, di
storie e moti, di vicende e avvenimenti intersecati nell’epoca infiammata da
tentativi di rovesciamento delle convenzioni sociali, in quella seconda metà
del così detto secolo breve, il ‘900, in cui tutto sembrava possibile e in cui
a pagare erano ancora sempre le donne: sia quelle più quiete, assuefatte alla
mentalità comune ma con un malessere interiore indescritto e indescrivibile,
che le consumava e le spingeva verso la distruzione, sia quelle ribelli che non
accettavano di essere ancora in subordine rispetto all’uomo, che lottavano per
l’indipendenza e l’eguaglianza con l’altro sesso, ma finivano ancora per
subirne i ricatti e le soverchierie. L’incompatibilità dei troppi ruoli,
l’inconciliabilità tra il ruolo sociale e quello pubblico della donna, in parte
presenti sullo sfondo, anche di questo romanzo, - e vorremmo dire tutt’oggi non
ancora risolti – sono stati la causa concatenante, insieme all’inadeguatezza
sociale e familiare sentita, delle scelte e del declino di Andreina e vorremmo
dire, di tutta una generazione di donne che – pur senza concludere la loro vita
in un convento – non hanno ancora saputo trovare la giusta dimensione che le
renda libere ed equivalenti rispetto all’altro sesso, trascinando in questa
direzione forse anche le figlie e le nipoti che, peggio ancora, in quanto non
hanno neanche dovuto combattere e poco sanno di queste lotte, non si
preoccupano di acquisire consapevolezza dei propri ruoli ritardandone,
inesorabilmente, il giusto compiersi.
Un brano dal capitolo 16: “Voglia
di cambiamento. Voglia di pulizia. Voglia di cancellare le ombre, le
insicurezze, le viltà. Ma le previsioni del tempo avrebbero annunciato il sole?
Nemmeno un refolo di vento? Io, sarei divenuta un grande, prodigioso, mare in
bonaccia? O sarei stata piuttosto un arenile melmoso, lambito da acque
stagnanti, liquami, rifiuti? E, come un delfino, mi sarei di nuovo immersa tra
i flutti e i gorghi di un oceano in tempesta, per tornare in superficie e
cantare ancora, disperatamente rivolta al cielo impazzito di lampi, la mia
gravosa esistenza?”
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