lunedì 20 novembre 2017

La figlia delle memoria di Adele Desideri. Recensione a cura di Cinzia Demi

Siamo tutte figlie della memoria


Henri Bergson sostiene che noi siamo il nostro passato e che questo non può essere recuperato se non attraverso la memoria, meccanismo che ci permette di riprodurre l’esperienza passata e renderla nuovamente attuale, nonostante la lontananza sia spaziale che temporale dell’evento. Dalla memoria - operativamente collettiva - al ricordo, quale esperienza soggettiva, il passo è breve se pure, sempre Bergson, lega al tema della memoria, indissolubilmente, quello del tempo e in particolare il tempo della coscienza, il tempo interiore attraverso il quale si recuperano fatti e circostanze, per offrire chiarezza alle radici di ognuno di noi. Così, in un viaggio, che Sant’Agostino chiamava la sala immensa dell’anima, è possibile ripercorrere le esperienze vissute, le sensazioni, ciò che si è appreso… viaggio che sarà affrontato attraverso le sedute di psicanalisi laddove, agli inizi del ‘900, la scienza aiuterà a riscoprire l’identità perduta di ognuno. In letteratura molti esempi ci presentano le tematiche della memoria, una per tutte valga l’opera di Pavese La luna e i falò nella quale, connotando l’esperienza biografica e il vissuto dell’autore in un ritorno al proprio paese di nascita, del protagonista del racconto, verrà consentito a questi e all’autore stesso di effettuare il tentativo di ricerca delle proprie radici sociali e culturali che, nel caso specifico, risulterà deludente, se pure effettuato con la volontà forte di ricostruzione, proprio come detto, della memoria. Vale la pena, inoltre, fare almeno un brevissimo accenno al lavoro di Proust che, partendo da quella piccola e assai nota madeleine si trova a evocare, attraverso il protagonista del romanzo, La ricerca del tempo perduto - titolo ampiamente emblematico -, una serie di ricordi legati fra loro da un processo di tipo analogico.
Dunque sulla memoria si basa anche la trama del romanzo di Adele Desideri, e anch’essa - lo notiamo subito - propone un titolo assai significativo in tal senso, La figlia della memoria, quasi a mettere sull’avviso di primo acchito il lettore che, da lì si parte per questo viaggio interiore dal quale non sarà possibile uscire senza portarsi dietro una qualche traccia, un qualche particolare, una qualche nota, della protagonista Andreina, che non ci risulti familiare o che non diventi parte di noi. La trama del racconto è già di per sé un qualcosa di coinvolgente: le generazioni nate intorno alla seconda metà degli anni ‘50 non potranno non ritrovarsi nel pensiero comune sia familiare che urbano che scolastico, negli avvenimenti politici e sociali, nei moti d’animo di giovani e adulti, e persino nell’abbigliamento scelto e nell’oggettistica descritta per l’uso dei protagonisti. Un tuffo in un’epoca che sembra lontanissima, che il precipitoso sviluppo della tecnologia ha reso oltremodo quasi antica, ma che è appena dietro l’angolo con tutte le sue contraddizioni, i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti, le speranze disattese su cui si fonda per buona parte anche la deriva dei nostri giorni, compreso il pensiero ancora confuso, distorto e irrisolto sulla violenza di genere.
Andreina è il prototipo di un’infanzia abbandonata psicologicamente, di un’adolescenza in preda alle crisi della crescita senza confidenti e rassicurazioni, di un’età adulta incapace di ricucire i pezzi della propria interiorità, circondata  da “nemici fidati” che approfittano, massacrano, tentano di uccidere quel che resta di buono in un animo in cui compaiono impellenti richieste e ricerche di umanità, tentativi ripetuti di riprendere in mano la propria vita. Tutto viene disatteso: l’amore materno e paterno, l’amore per il compagno, l’amicizia, il rispetto per se stessi, tutto rotola verso una rovina sempre più profonda che tende alla distruzione totale della donna, anche e soprattutto in quanto tale.
Si soffre in compagnia di Andreina: quel vuoto interiore diventa il nostro, apre voragini nel corpo e nella mente, matura un sentimento di autodistruzione nel quale, a tratti, sembra di venire coinvolti in toto, non contemplando vie d’uscita.
Si piange per Andreina e insieme a lei si sconfina nella depressione più assoluta, si odono le voci che fanno paura e compagnia, si attraversano tunnel con l’ansia del buio e il senso di soffocamento, ci si isola su scogliere in simbiosi con il solo vento, si prova l’ebrezza dell’alcool unico alleato all’oblio.
Ci si bea della bellezza di Andreina, specchiandosi con lei in specchi che rimandano un fisico snello, dei capelli ricci, un volto volitivo e interessante, sempre in preda alla paura di non piacere, di non essere all’altezza, e con lei ci si veste in quei suoi panni enormi e debordanti - troppo larghi perché dismessi dalla sorella più grande e più grassa – ma anche, e forse proprio per questo, impegnati a nascondere chissà quali tesori e quindi intriganti, ammalianti.
Si sorride con Andreina per le goffe vicende legate all’infanzia, per i suoi tentativi di imitare i cugini maschi, per i suoi innamoramenti corrisposti e non, per quella voglia di crescere e per quella confusione creata dalle famiglie d’origine, a mezza via tra lo stato nobiliare e contadino, con un intercalare di linguaggi, tra cui prevale il vernacolo toscano, quasi a sottolineare l’ironia di certi motteggi, se pur serissimi nelle intenzioni.
Ci manca il fiato quando Andreina inconsapevole prima e smarrita poi, subisce violenze domestiche - se pur fatte per amore, ma per amore malato – violenze dalle quali dipenderanno le sue inquietudini e che continueranno a tormentarla nella crescita e a tornare quale marchio infamante, quale condanna di chi è succube di un destino e persevera nell’accettarlo.
L’epilogo, per niente scontato, ci spiazza. Per ritrovare se stessi, dopo il viaggio nella memoria, ci sarà bisogno della fede, ci sarà bisogno dell’abbandono della vita terrena e delle sue dissolutezze, ci sarà bisogno di isolamento e preghiera, ci sarà bisogno di quell’amore assoluto: L’amore che, solo, resiste nell’eternità. Non ce lo saremmo aspettato questo da Andreina. Forse avremmo voluto che si trovasse nel mondo, e non fuori dal mondo, avremmo preferito che affrontasse di nuovo la vita prendendola tra le mani e ricominciando a lottare con più forza, con più consapevolezza, che avesse detto a quella stessa vita che era tornata, che era la stessa Andreina ma che aveva capito come doveva tenerle testa. Andreina, invece, sceglie un’altra via, non più facile, ma diversa: sceglie la via della carità, della preghiera, appunto, dell’isolamento. Non sapremmo dire se è una scelta giusta, se poteva essercene un’altra, se a quarantacinque anni - questa è l’età in cui la protagonista prenderà i voti, come suora di clausura - non restava altro da fare. A noi piace ricordare Andreina col suo vestito largo e la cravatta sulla camicia sbottonata al collo, coi suoi ricci ribelli e il suo sguardo curioso della vita, sempre in cerca di risposte… una vita che certo le ha rubato e le ha scavato dentro tantissimo, fino a farle desiderare quella pace e quell’amore che solo ha trovato tra le mura del convento.
Un lavoro di scrittura, questo di Adele Desideri, che tiene mirabilmente le fila di numerosi personaggi, oltre che della protagonista, che racconta di tempi e luoghi, di storie e moti, di vicende e avvenimenti intersecati nell’epoca infiammata da tentativi di rovesciamento delle convenzioni sociali, in quella seconda metà del così detto secolo breve, il ‘900, in cui tutto sembrava possibile e in cui a pagare erano ancora sempre le donne: sia quelle più quiete, assuefatte alla mentalità comune ma con un malessere interiore indescritto e indescrivibile, che le consumava e le spingeva verso la distruzione, sia quelle ribelli che non accettavano di essere ancora in subordine rispetto all’uomo, che lottavano per l’indipendenza e l’eguaglianza con l’altro sesso, ma finivano ancora per subirne i ricatti e le soverchierie. L’incompatibilità dei troppi ruoli, l’inconciliabilità tra il ruolo sociale e quello pubblico della donna, in parte presenti sullo sfondo, anche di questo romanzo, - e vorremmo dire tutt’oggi non ancora risolti – sono stati la causa concatenante, insieme all’inadeguatezza sociale e familiare sentita, delle scelte e del declino di Andreina e vorremmo dire, di tutta una generazione di donne che – pur senza concludere la loro vita in un convento – non hanno ancora saputo trovare la giusta dimensione che le renda libere ed equivalenti rispetto all’altro sesso, trascinando in questa direzione forse anche le figlie e le nipoti che, peggio ancora, in quanto non hanno neanche dovuto combattere e poco sanno di queste lotte, non si preoccupano di acquisire consapevolezza dei propri ruoli ritardandone, inesorabilmente, il giusto compiersi.

Un brano dal capitolo 16: “Voglia di cambiamento. Voglia di pulizia. Voglia di cancellare le ombre, le insicurezze, le viltà. Ma le previsioni del tempo avrebbero annunciato il sole? Nemmeno un refolo di vento? Io, sarei divenuta un grande, prodigioso, mare in bonaccia? O sarei stata piuttosto un arenile melmoso, lambito da acque stagnanti, liquami, rifiuti? E, come un delfino, mi sarei di nuovo immersa tra i flutti e i gorghi di un oceano in tempesta, per tornare in superficie e cantare ancora, disperatamente rivolta al cielo impazzito di lampi, la mia gravosa esistenza?”



 Adele Desideri, poeta, saggista e critica letteraria, vive e lavora a Milano. Ha pubblicato i libri di poesia Salomè (Il Filo, 2003), Non tocco gli ippogrifi (Campanotto, 2006), Il pudore dei gelsomini (Raffaelle, 2010), Stelle a Merzò (Moretti & Vitali, 2013), La figlia della memoria (Moretti & Vitali, 2016). Le sue opere – presenti in mostre, volumi storici, antologie pubblicate anche all’estero, plaquettes – sono tradotte in inglese, spagnolo, francese, arabo, russo, albanese, armeno. Nel 2015 è uscita la traduzione in spagnolo di Carlos Sáncez de Il pudore dei gelsomini (El pudor de los jazmines, Raffaelli), e-book. E’ curatrice del volume la poesia, il sacro, il sublime (FaraEditore, 2009: atti dell’omonimo convegno svoltosi a Milano, in collaborazione con Alessandro Ramberti), del convegno Etica e bellezza e del relativo volume con gli atti del convegno stesso (I Quaderni del P.E.N., GuaraldiLab/EUSI, 2014).

Nessun commento: