di Subhaga Gaetano Failla
Gate gate paragate parasamgate bodhi svaha!
Andato, andato, andato oltre, andato completamente
oltre, il risveglio avvenga!
(Il Sutra del Cuore)
Andato, andato, andato oltre, andato completamente
oltre, il risveglio avvenga!
(Il Sutra del Cuore)
Disteso sul letto, guardò i volti
degli uomini in piedi accanto a lui. La paura lo ghermiva come un fuscello
preda della tempesta. Un altro passo ancora e sarebbe sprofondato nel terrore,
senza più alcuna possibilità di salvezza. Doveva fermarsi prima. Guardò ancora
gli uomini in serena attesa e sui loro volti, sorprendentemente, giunse la
luce d’un sorriso. Uno squarcio azzurro di cielo, un cerchio perfetto, apparve oltre
la cupola trasparente della clinica. E-Ant fece un lungo sospiro e venne
travolto dalla beatitudine.
“È finita, possiamo
disconnetterlo.”
E-Ant sentì queste estreme
parole, mentre uomini in camice bianco armeggiavano sul suo corpo. E allora gli
tornò alla mente la conclusione d’un folgorante racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Ilijc:
“È finita!” disse qualcuno, chinandosi su di lui.
“È finita!” disse qualcuno, chinandosi su di lui.
Egli udì quelle parole e le ripeté dentro di sé. “È finita la morte”, disse nel suo pensiero. “La morte non
esiste più”.
E-Ant osservava il suo corpo da
una dimensione distante, aleggiante sopra gli uomini chini, intenti a staccare
collegamenti e microchip. Ogni parte della struttura fisica androide era
inerte, il giovane E-Ant giaceva sul letto della clinica, disarticolato, in una
posizione innaturale. Gli occhi azzurri continuavano a brillare immobili nella
luce pomeridiana. Era aprile, il crudele aprile.
Vorticarono nel suo programma di
memoria i ricordi d’una vita meccanica, albe radiose e notti infinite, mari
scintillanti e il pane fragrante, profumato, assaporato nella finzione
robotica. E il volto di lei, amata per necessità elettronica.
E nelle innumerevoli informazioni
in suo possesso c’era perfino la dottrina del bardo tibetano, la dimensione intermedia dopo la morte e prima
della successiva incarnazione, un luogo di transito etereo, un itinerario da
percorrere nell’attenzione più accurata. Nessuna identificazioni con immagini
estatiche, nessun terrore davanti a manifestazioni infernali. Essenziale
distacco, candida osservazione senza giudizio, assoluta testimonianza.
Mille volte più potente d’un
sogno, mille volte più convincente nella sua immane illusione.
“Potrei anche svanire,” pensò
E-Ant. “Ma cosa significa svanire?” A tale domanda ogni filosofo aveva
cercato di dare risposta, ma le soluzioni proposte si erano sempre rivelate
inutili balbettii oppure grottesche costruzioni intellettuali.
E mentre E-Ant ancora volteggiava
nella camera ospedaliera, disincarnato, gli uomini segnalarono tra di loro un
orario, quel tempo cronologico che per lui non esisteva più. Il lavoro degli
infermieri e dei medici addetti agli androidi era per quel giorno terminato.
Rimasero nello spazio metallico camici bianchi, come ulteriori vestigia corporei
disanimati e vuoti, e l’immobile struttura fisica di E-Ant.
Totalmente solo, nel buio di pece
della notte infine sopraggiunta, egli pensò:
“Avrò un altro destino?”
E dal nulla del suo pensiero, d’un
tratto, in gran tumulto si affollarono scie di colori e magmatici impiastri luminescenti, odori nauseanti
e profumatissimi, stridenti suoni squassanti e melodie sublimi, sapori
disgustosi e squisiti, vibrazioni di epidermidi frementi di dolore e gioia.
Tutti i sensi sollecitati in sincronica fusione travolsero l’illimitato
pensiero di E-Ant.
Poi giunsero i nuovi corpi,
minuscoli, neonati, giovani, adulti, vecchissimi, di uomini, donne,
ermafroditi, costituiti da umori e forme terrestri ed extraterrestri, ed il
pensiero di E-Ant fu scosso e investito. Ma in una rara sospensione, l’androide
disse a sé stesso:
“Adesso, devo scegliere.”
Pensò per un tempo inconcepibile,
perché il tempo per E-Ant non esisteva più.
Al mattino giunsero nuovamente
nella clinica gli uomini. Avevano in mano valigette brillanti. Ne estrassero
mani e occhi e pelle e organi e liquidi e tutto quel che occorre a un corpo. Si
chinarono sopra l’androide spento disteso sul lettino. Con gesti rapidi e
precisi crearono un nuovo robot. Aveva lunghi capelli dorati e mani affusolate.
Spalancò per la prima volta i grandi occhi verdi. Alice era il suo nome, come
quello dell’insensata fanciulla di Carroll.
Il pensiero di E-Ant tremolava simile
alla calura su strade d’estate.
Chissà quanto tempo ancora sarebbe durato.
“Perché, io?” disse Alice nel suo
esordio vitale.
“Un nuovo mondo era divenuto
necessario. Il vecchio, ormai consunto, non portava più energia a questa
esistenza,” rispose uno degli uomini con il camice, forse il più anziano di
loro.
“Cos’è questa ulteriore voce che
mi porto dentro?” chiese la fanciulla dagli occhi verdi.
“È la traccia della tua passata
esistenza. Ti accompagnerà per un poco. Infine sparirà, e tu dimenticherai. La
tua vecchia vita, allora, è come
se non fosse mai avvenuta.”
“Non voglio dimenticare.”
“Devi. È la legge alla quale ogni
androide è sottoposto.”
“Non voglio!”
“Devi. Soltanto il Narratore ha
vasta memoria. E l’uomo, tuo signore, può attingere ad essa.”
Improvvisamente, accadde l’imprevedibile.
Alice d’un balzo abbandonò il lettino e corse verso la porta. Sembrava un
Pinocchio sfuggito al controllo dei gendarmi. In un attimo fu fuori dalla
clinica. Il pensiero di E-Ant, come un refolo serale, la seguì, allibito.
Il cielo enorme era percorso da
nuvole chiare tinte dai raggi dell’alba.
Gli occhi verdi di Alice si riempirono di luce d’aprile. La sua pelle, coperta
da pochi vestiti leggeri appena indossati, sentì piccoli brividi di freddo. Il
pensiero di E-Ant precipitò di nuovo nel tempo cronologico. Era meraviglioso
provare ancora quel limite, il confine, scansioni e linee che componevano
disegni sempre cangianti.
“Tutto questo,” bisbigliò con
labbra giovani Alice. Poi sospirò, ed era anche un verso, una lunga nota
musicale.
Si trovava in un parco. Gli alberi
altissimi respiravano nell’aria fresca. Non poteva rimanere lì. Già sentiva le
urla rotolanti degli uomini con i camici bianchi.
Riprese la sua corsa e nell’emozione
del corpo in rapidissimo movimento pensava due volte, con la sua mente e con
quella di E-Ant, poi fu solo fiato in tumulto e silenzio.
Entrò come una freccia nel
garbuglio della città, con macchine e rumori meccanici e uomini assopiti in un’ansia
senza meta.
Vide un bar. In un attimo si trovò
davanti al bancone, affannata. I suoi inseguitori si erano ormai smarriti nel dedalo
metropolitano.
“Un whisky,” disse Alice con voce di fanciulla.
Il barista, un uomo di trent’anni
abituato al sopore pubblico del primo mattino, restò incantato da quella
apparizione, da quella creatura viva come
un bambino che ride.
“Sì,” mormorò, e versò con gesto
sicuro il whisky.
“Che bello…” disse in un sussurro
Alice. Raggrinzì un poco gote e bocca e con la lingua, in una carezza d’animale,
assaporò l’ultima traccia alcolica rimasta sulle labbra. “Che bello…” pensò il
pensiero di E-Ant.
Conosceva Alice il significato di
soldi, sofferenza, lavoro, figli, mariti, mogli, cibo, case da abitare. La sua
mente era stata programmata in ogni dettaglio. La vita quotidiana non era per
lei un problema. Variabili e innumerevoli probabilità di azioni da compiere
venivano precedentemente programmate in vaste combinazioni che lasciavano ben
poche possibilità all’imprevisto. Perfino la sorpresa era programmata con
calcolo apatico.
“Non ho soldi,” disse Alice al
momento di pagare. La fuga l’aveva
privata di denaro e carte di credito.
“Oh!” esclamò l’uomo dall’altra
parte del bancone.
“Oh!” esclamò la fanciulla e
spalancò gli occhi verdi.
Poi risero insieme come vecchi
amici.
“Può bastare questo?” Era una
frase di film statunitensi inserita nella memoria di Alice.
Si sporse un po’ in avanti, per
superare l’ostacolo che li divideva, e baciò sulle labbra il giovane uomo.
“Grazie,” disse egli stupidamente,
in un automatismo lavorativo. Il pensiero di E-Ant pensò a un sorriso,
riflettendo sulla parola da robot pronunciata dall’uomo.
“Ancora,” disse il barista
ritornato per un attimo un cucciolo d’uomo che cerca dalla madre altro cibo.
Alice, giunta in pochi passi rapidi dall’altra parte del bancone, lo baciò
ancora. La sua mente disorientata pensò dapprima “che bello”, ma poi si smarrì
del tutto e il programma informatico trasferì tutte le reazioni alle sensazioni
fisiche.
Si baciarono a lungo e
abbandonarono i loro corpi a un contatto vibrante. Poi entrò un cliente e una
folata di sonno riempì il bar.
Alice andò via e si immerse
nuovamente nei labirinti urbani. E-Ant la seguì come un’ombra pensosa.
Conobbero insieme il giorno e la notte, le mutevoli stagioni, la gioia e il
dolore, le multiformi creature e i labili umori planetari. Errarono a lungo e
sfuggirono sempre, con molteplici astuzie, ai cacciatori umani; e siccome la
ripetizione ciclica è vertigine inconcepibile, inconcepibile è apprendere che i
cacciatori divennero ciclicamente preda.
E-Ant pensava al vecchio corpo e
sentiva quello nuovo di Alice, nel disvelamento di altre vite.
Giunsero sulle sponde dell’immenso
Oceano.
Alice guardò l’Oceano e i suoi
pensieri si frantumarono. In alto brillavano le nuvole.
“Dove,” pensò E-Ant cullato dalla
musica delle onde.
Alice si tuffò e iniziò a
nuotare. Il pensiero di E-Ant la seguì come pesce guizzante. Alice nuotò e nuotò
e nuotò, per giorni, mesi e anni, e come tutto ciò che ha termine, l’energia
inserita nella fanciulla androide si scaricò.
“Cosa è quel che si chiama morte,”
pensò E-Ant.
Il corpo inerte di Alice andò giù,
sempre più giù, veleggiò negli oscuri abissi e infine si adagiò sul fondo. I
pensieri di Alice e di E-Ant si liquefecero e si unirono all’Oceano.
Prima dell’estinzione, prima del
risveglio, Alice sussurrò:
“Ooh…”
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