lunedì 28 agosto 2017

Transito

di Subhaga Gaetano Failla


Gate gate paragate parasamgate bodhi svaha!
Andato, andato, andato oltre, andato completamente
oltre, il risveglio avvenga!
(Il Sutra del Cuore)




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Disteso sul letto, guardò i volti degli uomini in piedi accanto a lui. La paura lo ghermiva come un fuscello preda della tempesta. Un altro passo ancora e sarebbe sprofondato nel terrore, senza più alcuna possibilità di salvezza. Doveva fermarsi prima. Guardò ancora gli uomini in serena attesa e sui  loro volti, sorprendentemente, giunse la luce d’un sorriso. Uno squarcio azzurro di cielo, un cerchio perfetto, apparve oltre la cupola trasparente della clinica. E-Ant fece un lungo sospiro e venne travolto dalla beatitudine.

“È finita, possiamo disconnetterlo.”
E-Ant sentì queste estreme parole, mentre uomini in camice bianco armeggiavano sul suo corpo. E allora gli tornò alla mente la conclusione d’un folgorante racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Ilijc:      

“È finita!” disse qualcuno, chinandosi su di lui.
 Egli udì quelle parole e le ripeté  dentro di sé. “È finita la morte”, disse nel suo pensiero. “La morte non esiste più”.



E-Ant osservava il suo corpo da una dimensione distante, aleggiante sopra gli uomini chini, intenti a staccare collegamenti e microchip. Ogni parte della struttura fisica androide era inerte, il giovane E-Ant giaceva sul letto della clinica, disarticolato, in una posizione innaturale. Gli occhi azzurri continuavano a brillare immobili nella luce pomeridiana. Era aprile, il crudele aprile.
Vorticarono nel suo programma di memoria i ricordi d’una vita meccanica, albe radiose e notti infinite, mari scintillanti e il pane fragrante, profumato, assaporato nella finzione robotica. E il volto di lei, amata per necessità elettronica.
E nelle innumerevoli informazioni in suo possesso c’era perfino la dottrina del bardo tibetano, la dimensione intermedia dopo la morte e prima della successiva incarnazione, un luogo di transito etereo, un itinerario da percorrere nell’attenzione più accurata. Nessuna identificazioni con immagini estatiche, nessun terrore davanti a manifestazioni infernali. Essenziale distacco, candida osservazione senza giudizio, assoluta testimonianza.
Mille volte più potente d’un sogno, mille volte più convincente nella sua immane illusione.
“Potrei anche svanire,” pensò E-Ant. “Ma cosa significa svanire?” A tale domanda ogni filosofo aveva cercato di dare risposta, ma le soluzioni proposte si erano sempre rivelate inutili balbettii oppure grottesche costruzioni intellettuali.
E mentre E-Ant ancora volteggiava nella camera ospedaliera, disincarnato, gli uomini segnalarono tra di loro un orario, quel tempo cronologico che per lui non esisteva più. Il lavoro degli infermieri e dei medici addetti agli androidi era per quel giorno terminato. Rimasero nello spazio metallico camici bianchi, come ulteriori vestigia corporei disanimati e vuoti, e l’immobile struttura fisica di E-Ant.
Totalmente solo, nel buio di pece della notte infine sopraggiunta, egli pensò:
“Avrò un altro destino?”
E dal nulla del suo pensiero, d’un tratto, in gran tumulto si affollarono scie di colori e magmatici  impiastri luminescenti, odori nauseanti e profumatissimi, stridenti suoni squassanti e melodie sublimi, sapori disgustosi e squisiti, vibrazioni di epidermidi frementi di dolore e gioia. Tutti i sensi sollecitati in sincronica fusione travolsero l’illimitato pensiero di E-Ant.
Poi giunsero i nuovi corpi, minuscoli, neonati, giovani, adulti, vecchissimi, di uomini, donne, ermafroditi, costituiti da umori e forme terrestri ed extraterrestri, ed il pensiero di E-Ant fu scosso e investito. Ma in una rara sospensione, l’androide disse a sé stesso:
“Adesso, devo scegliere.”
Pensò per un tempo inconcepibile, perché il tempo per E-Ant non esisteva più.

Al mattino giunsero nuovamente nella clinica gli uomini. Avevano in mano valigette brillanti. Ne estrassero mani e occhi e pelle e organi e liquidi e tutto quel che occorre a un corpo. Si chinarono sopra l’androide spento disteso sul lettino. Con gesti rapidi e precisi crearono un nuovo robot. Aveva lunghi capelli dorati e mani affusolate. Spalancò per la prima volta i grandi occhi verdi. Alice era il suo nome, come quello dell’insensata fanciulla di Carroll.
Il pensiero di E-Ant tremolava simile alla calura su strade d’estate.  Chissà quanto tempo ancora sarebbe durato.
“Perché, io?” disse Alice nel suo esordio vitale.
“Un nuovo mondo era divenuto necessario. Il vecchio, ormai consunto, non portava più energia a questa esistenza,” rispose uno degli uomini con il camice, forse il più anziano di loro.
“Cos’è questa ulteriore voce che mi porto dentro?” chiese la fanciulla dagli occhi verdi.
“È la traccia della tua passata esistenza. Ti accompagnerà per un poco. Infine sparirà, e tu dimenticherai. La tua vecchia vita, allora, è come se non fosse mai avvenuta.”
“Non voglio dimenticare.”
“Devi. È la legge alla quale ogni androide è sottoposto.”
“Non voglio!”
“Devi. Soltanto il Narratore ha vasta memoria. E l’uomo, tuo signore, può attingere ad essa.”
Improvvisamente, accadde l’imprevedibile. Alice d’un balzo abbandonò il lettino e corse verso la porta. Sembrava un Pinocchio sfuggito al controllo dei gendarmi. In un attimo fu fuori dalla clinica. Il pensiero di E-Ant, come un refolo serale, la seguì, allibito.

Il cielo enorme era percorso da nuvole chiare tinte dai raggi dell’alba. Gli occhi verdi di Alice si riempirono di luce d’aprile. La sua pelle, coperta da pochi vestiti leggeri appena indossati, sentì piccoli brividi di freddo. Il pensiero di E-Ant precipitò di nuovo nel tempo cronologico. Era meraviglioso provare ancora quel limite, il confine, scansioni e linee che componevano disegni sempre cangianti.
“Tutto questo,” bisbigliò con labbra giovani Alice. Poi sospirò, ed era anche un verso, una lunga nota musicale.
Si trovava in un parco. Gli alberi altissimi respiravano nell’aria fresca. Non poteva rimanere lì. Già sentiva le urla rotolanti degli uomini con i camici bianchi.
Riprese la sua corsa e nell’emozione del corpo in rapidissimo movimento pensava due volte, con la sua mente e con quella di E-Ant, poi fu solo fiato in tumulto e silenzio.
Entrò come una freccia nel garbuglio della città, con macchine e rumori meccanici e uomini assopiti in un’ansia senza meta.
Vide un bar. In un attimo si trovò davanti al bancone, affannata. I suoi inseguitori si erano  ormai smarriti nel dedalo metropolitano.
“Un whisky,” disse Alice con voce di fanciulla.
Il barista, un uomo di trent’anni abituato al sopore pubblico del primo mattino, restò incantato da quella apparizione, da quella creatura viva come  un bambino che ride.
“Sì,” mormorò, e versò con gesto sicuro il whisky.
“Che bello…” disse in un sussurro Alice. Raggrinzì un poco gote e bocca e con la lingua, in una carezza d’animale, assaporò l’ultima traccia alcolica rimasta sulle labbra. “Che bello…” pensò il pensiero di E-Ant.
Conosceva Alice il significato di soldi, sofferenza, lavoro, figli, mariti, mogli, cibo, case da abitare. La sua mente era stata programmata in ogni dettaglio. La vita quotidiana non era per lei un problema. Variabili e innumerevoli probabilità di azioni da compiere venivano precedentemente programmate in vaste combinazioni che lasciavano ben poche possibilità all’imprevisto. Perfino la sorpresa era programmata con calcolo apatico.
“Non ho soldi,” disse Alice al momento di pagare. La fuga  l’aveva privata di denaro e carte di credito.
“Oh!” esclamò l’uomo dall’altra parte del bancone.
“Oh!” esclamò la fanciulla e spalancò gli occhi verdi.
Poi risero insieme come vecchi amici.
“Può bastare questo?” Era una frase di film statunitensi inserita nella memoria di Alice.
Si sporse un po’ in avanti, per superare l’ostacolo che li divideva, e baciò sulle labbra il giovane uomo.
“Grazie,” disse egli stupidamente, in un automatismo lavorativo. Il pensiero di E-Ant pensò a un sorriso, riflettendo sulla parola da robot pronunciata dall’uomo.
“Ancora,” disse il barista ritornato per un attimo un cucciolo d’uomo che cerca dalla madre altro cibo. Alice, giunta in pochi passi rapidi dall’altra parte del bancone, lo baciò ancora. La sua mente disorientata pensò dapprima “che bello”, ma poi si smarrì del tutto e il programma informatico trasferì tutte le reazioni alle sensazioni fisiche.
Si baciarono a lungo e abbandonarono i loro corpi a un contatto vibrante. Poi entrò un cliente e una folata di sonno riempì il bar.

Alice andò via e si immerse nuovamente nei labirinti urbani. E-Ant la seguì come un’ombra pensosa. Conobbero insieme il giorno e la notte, le mutevoli stagioni, la gioia e il dolore, le multiformi creature e i labili umori planetari. Errarono a lungo e sfuggirono sempre, con molteplici astuzie, ai cacciatori umani; e siccome la ripetizione ciclica è vertigine inconcepibile, inconcepibile è apprendere che i cacciatori divennero ciclicamente preda.  
E-Ant pensava al vecchio corpo e sentiva quello nuovo di Alice, nel disvelamento di altre vite.
Giunsero sulle sponde dell’immenso Oceano.
Alice guardò l’Oceano e i suoi pensieri si frantumarono. In alto brillavano le nuvole.
“Dove,” pensò E-Ant cullato dalla musica delle onde.
Alice si tuffò e iniziò a nuotare. Il pensiero di E-Ant la seguì come pesce guizzante. Alice nuotò e nuotò e nuotò, per giorni, mesi e anni, e come tutto ciò che ha termine, l’energia inserita nella fanciulla androide si scaricò.
“Cosa è quel che si chiama morte,” pensò E-Ant.
Il corpo inerte di Alice andò giù, sempre più giù, veleggiò negli oscuri abissi e infine si adagiò sul fondo. I pensieri di Alice e di E-Ant si liquefecero e si unirono all’Oceano.
Prima dell’estinzione, prima del risveglio, Alice sussurrò:
“Ooh…”






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