su Adele Desideri, La figlia della memoria, Moretti&Vitali, 2016, pagg. 168, € 15,00
recensione di Beatrice Mencarini
(v. anche la recensione di Antonio Spagnuolo)
C'è
una zona d'ombra che solo la buona letteratura riesce ad esplorare senza
perdersi e senza cedere alla tensione dell'eccesso.
La
buona letteratura sa camminare in equilibrio sullo stretto sentiero che divide
la luce dall'ombra, sa danzare con leggerezza sul precipizio, sa muoversi
elegantemente in punta di piedi sul ciglio del baratro.
La
buona letteratura sa guardare l'abisso e dell'abisso sa cosa salvare e
riportare alla luce.
Il
romanzo di Adele Desideri La figlia della memoria (Bergamo, Moretti
&Vitali Editori, 2016, pp. 165, prefazione di Davide Rondoni) si muove
proprio su questo terreno, angusto e pericoloso, sottile come un filo di lama.
È
la stessa citazione che apre il romanzo «Dai diamanti non
nasce niente, dal letame nascono i fiori» che ci ricorda
l'abisso, il mondo oscuro e materico da cui proveniamo: la palude
dell'indifferenziato, il regno mostruoso e divino dell'infanzia, il senso di
sporcizia che porta con sé la corporalità, la stanza buia con l'odore di
naftalina che striscia perturbante tra i ricordi della protagonista Andreina.
La
storia di Andreina – la bimba triste – la storia intima, perturbante, a tratti
tinta di morbosità e patologia, si insinua nelle viscere del lettore e il
romanzo diventa esperienza non solo intellettuale ma carnale. Un romanzo molto
femminile, una qualità di scrittura che non ha perduto il rapporto con la carne
e che, anzi, dalla carne parte per raggiungere altri orizzonti.
I
rimandi, dal freudismo al mondo biblico, non sono mai forzati: tutt'altro, il
libro mostra come la teoria possa realmente incarnarsi in esperienza. Il tema
della colpa, che nasce nella letteratura con l'adultera dei Vangeli, trova qui
un'altra grande incarnazione in Andreina.
Un
romanzo dedicato a Mnemosyne, alla memoria, non può essere un romanzo lineare,
non può conoscere progressione o futuro e non può condividere la nostra
concezione del tempo occidentale. E difatti la Desideri, ce ne accorgiamo ben
presto, non vuole condurci da nessuna parte ma vuole soltanto perderci in un
romanzo circolare, una storia che tende all'indietro, un romanzo che scava e
che cerca. Un libro che si muove tra saga familiare, romanzo di formazione al femminile,
romanzo psicologico: etichette che rimangono troppo rigide per definire quella
che rimane una lettura di qualità che avvince il lettore soprattutto grazie al
potere della scrittura.
La
prosa della Desideri, soffusa di lirismo, accompagna il lettore una pagina dopo
l'altra, avvincendolo al romanzo. Il dono della narrazione non manca di certo a
questa scrittrice che, con pochi tratti, ha dato vita a una serie ben nutrita
di personaggi forti e carismatici che emergono e prendono vita pagina dopo pagina.
E così la madre, con “i seni debordanti dalle trine”, la sorella Tude “scaltra
e teatrale”, la terapeuta “tragicamente freudiana” (o alternativamente “boia
psicanalitico in gonnella”) e lo zio Zeno, lo zio sordo che scrive lettere
senza punteggiatura alla sorella morta. A fare da sfondo alle vicende intime e
famigliari di Andreina c'è l'Italia del Dopoguerra, un'Italia che cresce e che
cambia insieme alla protagonista, un'Italia in bilico tra gli strascichi del
Fascismo e le ribellioni del Sessantotto, un'Italia ancora divisa tra mondo
rurale e l'espansione delle grandi città, Torino e Milano.
Il
mondo rurale, rappresentato dalla campagna toscana dove Andreina passa le sue
vacanze estive assieme ai cugini, viene pavesianamente rappresentato come una
sorta di paradiso perduto, un mondo fatto di piccole cose che incarnano
l'essenza stessa della felicità e della spensieratezza infantile; a cui si
contrappone puntualmente la vita in città, luogo dello studio, del lavoro,
dell'isolamento e dell'angoscia. Il dialetto toscano compare diffusamente nel
testo come bagaglio di un passato non solo linguistico ma emotivo, relazionale.
Alcune pagine del romanzo sono dedicate proprio alla ricostruzione di quel “lessico
famigliare” che ha punteggiato la vita di Andreina: anche il linguaggio è parte
essenziale e costituiva della propria storia e dunque merita di essere scavato,
ricordato, riportato alla luce. Molto interessante anche l'analisi che il
romanzo propone sul dialetto toscano: un veicolo per entrare in relazione
emotiva con l'altro ed accorciare le distanze superando gli ostacoli.
L'aspetto
emotivo del linguaggio e della narrazione è sicuramente ciò che questo romanzo
porta con
sé
e che lascia generosamente in dono al lettore. Un aspetto davvero importante
del linguaggio che oggi, probabilmente, stiamo dimenticando.
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