di Roberto Morpurgo selezionati dal concorso Faraexcelsior 2016
Ci fu un tempo di cui ricordo tanto quanto
me ne vergogno, un tempo in cui tutto mi appariva bello forse solo perché
estraneo, meglio ancora inaccessibile. Quel tempo non è finito, è ovvio, e
nemmeno finirà con me, perché io lo scriverò, ne scriverò, e anzi non ho forse
già iniziato a farlo? Lei – ancora non avendo ritrovato il suo nome – lei era
la sola ragazza che pur non essendomi appartenuta, nemmeno apparteneva a quel
mondo di schiamazzi e bagliori che io come dall'altra sponda del vetro
osservavo con diffidenza – diffidenza, avrei detto allora, ma oggi: malinconico
sospetto. Lei stava spesso in disparte, pur essendo ovunque bene accetta, e pur
non potendo vantare come me gli appellativi di orsa, o di nevrotica, o di bella
tenebrosa. Bella questa! Si chiamava Francesca, ora posso dirlo che l'ho
rivista in viso. Si fece baciare un seno e offrire una colazione nel suo
piccolo atelier di bricoleuse, e fu tutto. Non ci fu mai
che poco altro: un bacio, numerato nel taccuino di una implacabile memoria, una
mezza passeggiata intorno al suo isolato, qualche telefonata, un complimento,
forse, e solo a lei indirizzato. Sei così
cupo… Non so perché io la ricordi qui, ora che il mio tempo – il suo
passato e così il suo scarno presente – sembra rarefarsi sino al limite del
sortilegio. Oppure lo so, ed è perché molto avrei da dire sull'epoca in cui la
conobbi – e, come dovrebbe essere chiaro, non potrei dire la frequentai – tanto
poco ho da dire, volens nolens, su di
lei, su Francesca. Per tornare a quello che in definitiva fu il nostro mondo,
comune anche se non condiviso, era fatto di salotti, vetrine che ben so più
colorate e variopinte di quelle lungo le quali mi capita oggi di passare, e che
tuttavia io ricordo avvolte in una incessante variazione del grigio – vie più
luminose e fortunate e allegre e altre, fra queste quella che abitavo, più
povere e scarne, quasi sempre in ombra, il cui solo pregio fu forse quella
curiosa variante del coprifuoco che è la mestizia, o nemmeno e forse solo la
certezza di non esserci: di non contare niente e per nessuno. Benché abitassi
un appartamento costeggiato da un lungo terrazzo granuloso, luminoso e
ariosissimo (la Milano dei quinti piani è una specie di 'serra senza fiori', per
chi ricorda l'acredine con cui lo smog delle automobili e dei riscaldamenti
intaccava i muri e le gronde sin oltre il secondo piano. Peccato che Francesca
non lo abbia imparato da me (lei abitava un pianoterra, forse al più rialzato.
Peccato non averle potuto bisbigliare nel suo orecchio snello e flessuoso sino
alla morbidezza: et quoi! Vous,
mademoiselle – veritablément vous habité un drôle de rez-de-chaussée… –
malgrado il terrazzo, dicevo, la mia felicità era spesso adombrata da fattori
di natura varia ma sempre testardamente molesta. La mia felicità! La
dirimpettaia che sorrideva fra i suoi boccoli biondo vaporosi, lasciando a me
l'incombenza del primo passo: tanto più ostica quanto più l'entità del suo
delizioso difetto dentale era tale da recarne la notizia da una parte all'altra
della strada. Un piccolissimo binocolo favoriva il passaggio dell'informazione.
L'una, Francesca, rintanata in un inaccessibile monolocale al pianterreno;
l'altra, là… – relegata sull'opposta sponda di quel fiume – come un
fiumiciattolo si lasciava sognare la mia brevissima via - lungo il quale
anch'io avevo la mia immaginaria palafitta. Una seconda dirimpettaia, un piano
sotto colei che l'arbitrio mi suggerisce ora di chiamare Beatrice, Maddalena, e
una terza donna, anonima condomina, entrambe sposate, mi guardavano con occhio
trepido specie quando facevo ritorno, a sera inoltrata, da giornate di duro
cammino verso la vetta della notte – o almeno così a me pareva che l'avrebbe
definito Francesca, trepido. Ma lei non sapeva niente di me. Aveva accettato
quella colazione una mattina di primavera – quella mattina di quella primavera:
solo perché mattina, o solo perché
io fossi il componente più virile di una coppia di omonimi, l'altro dei quali,
come spesso accade, incidentalmente ci aveva presentati. A quel tempo avevo
dismesso alcune delle insane abitudini che punteggiarono la mia tarda pubertà o
primissima adolescenza: concerti mattinali della domenica, caffè con la nonna,
e nei giorni precedenti cortei e riunioni pomeridiane e fluviali, con la
pioggia che batteva spesso sui vetri però tanto ingrigiti dal fumo che… e le
ronde nella nebbia con i nostri tartari
che non si facevano vivi se non un paio di volte l'anno, le boccette dietro
l'angolo di scuola (alcuni giocavano all'unico scopo di centellinare il secondo
o terzo cappuccino), la lettura del giornale che parlava sempre d'altro sempre
pur parlando di noi – e questa era forse la soddisfazione più intima, più tardi
avrei detto: recondita: più intima rende meglio però la sensazione di avere la
bomba in tasca. Ma non Francesca. Anche i cinema disertavo ormai più volentieri – se si eccettua una specie di ipogeo tappezzato ab origine con pezze sdrucite e smangiate, infeltrito e odoroso di
non so più quali impensabili accoppiamenti, e che Francesca avrà visto credo
due volte, non di più. Tutti mi conoscevano, sebbene superficialmente e stavo
per aggiungere obliquamente, mentre io – non conoscevo nessuno o quasi. O quei
pochi che conoscevo, troppo profondamente. E quelli che invece conoscevo poco,
pochissimo, o per sentito dire, gravitavano intorno a me come presagi di una
strana condanna. E il pettegolezzo vi giocava una parte feroce, come sempre. Io
speravo che lei, o un'altra – si chiamasse costei o meno Francesca – mi avrebbe
'salvato', o per così dire virgolettato l'adolescenza e la prima maturità, ma ciò non accadde né, forse,
avrebbe mai potuto accadere. Grondassi sudore, lacrime o il sangue dei piccoli
tagli di rasatura, di piccoli lavoretti da aiuto elettricista, di piccolissime
e deliziose unghiatine di gatta o di puerili ma già presaghi incidenti di
falegnameria, loro erano – lei era per me una semplice e una mera ripetizione
del vuoto che mi allarmava al solo
e non certo più maturo scopo di perpetuarsi. Di me – non l'ho ancora detto? –
profittavano tutti: il vuoto, la rivolta, e quel barbarico esprit de finesse cui solo una scuola recintata da tre chiese, un
palazzo di giustizia, uno sindacale e uno libresco ci avrebbe potuto
condannare. Io? Ero sempre dalla mia parte, e le donne che allora furono
ragazze non me lo perdonavano – allora come oggi. Dei tanti di cui potrei dire
che come Francesca si sono persi per strada, quasi solo di lei ho un rimpianto
preciso: perché mi trovava cupo ma simpatico (e non viceversa), e perché
malgrado l'eccitazione che il contatto con i suoi seni mi procurò quella
mattina non mi inflisse l'umiliazione di ipocrisia veruna. Non mi disse vattene, o resta così possiamo chiarirci, né non sei il mio tipo, o sei
stato precipitoso (lento, immobile, servile, tirannico…), no niente di
tutto ciò. Anzi non mi disse nulla, e lasciò che a parlare - ad avere quella
sua prima e ultima parola – fosse la piccola porta indifesa del suo piccolo
studio ingelosito dal fatto di trovarsi al pianoterra. Di lì si poteva ben
discernere, sulla strada, chi facesse l'amore e chi invece tirasse avanti senza
voltarsi indietro. Intorno a lei i 'giardini' schiettamente milanesi di piazza
A. suggerivano acri premonizioni (quindici anni dopo, in un luogo identico
dalla parte opposta della città, fui apostrofato 'zio!' da un bullo di
periferia, come me ciclista. Non troppo diversamente dovette vedermi allora la
giovanissima Francesca: un vecchio ragazzo prematuramente votato a una certa
dose di sconfitte). Erano anni spensierati, per me che vivevo nell'angoscia
così come gli altri nel lusso, o nel bagordo, o nelle turpi goliardie delle
biblioteche comunali – dove peggio che in un tempio cattolico del centro urbano
si consumavano le più oscene mascherate sessuali, quasi sempre con una
complicità estorta a Franz Kafka e Albert Camus. Io che mi vergognavo di non
arrossire mai apparivo mio malgrado doppiamente timido, e le ragazze che
sarebbero diventate donne – ma non ancora, non le mie donne – non me lo
perdonavano. In una parola, c'era sempre qualche motivo per non perdonarmi
qualche difettuccio. Ma a quale crudeltà imputare l'anonimato del destino o –
anche – a quale destino imputare la crudeltà dell'anonimato? Doppio rinforzo…
Ecco perché così spesso, sinora, ho alluso a Francesca. Né giudice né
assolutrice, né complice né amica intima, benché erotica, e come tutte puttana,
ma con sé stessa come poche, e come pochissime alte lei era un nome, un cognome
(Z, che condivideva con la bella Luisa, dunque sorella…) che non posso rivelare
oltre questa forse già leziosa fine-alfabeto, un naso quasi egizio e ancora
troppo francese, un profumo di pelo nero che frammisto alla melanina di una
pelle semi-scura e liscia come la seta quando è il cachemire a darle consistenza erano le sue ingenue armi di artista
tuttofare, di preziosa compositrice (ricordo fra i suoi collages una recensione vivente, bruciante, alla storpiata virilità
di Guernica). Molti che la amavano (Guernica), altri che la possedevano
(Francesca), e come se non
bastasse, come se nulla fosse, la sorte che mi indusse a fare di lei un capro
espiatorio, dopo e prima di altre, un parafulmine inutile. Soltanto Iddio sa se
e quanto avrei voluto farne – all'opposto – una capretta non solo
simbolicamente espiatrice! Inutile, data la sua destinazione protettiva contro
saette che il cielo non scagliava mai al mio indirizzo, di modo che i miei
insuccessi, i miei immeritati perché involontari e quasi sabotati successi, la
mia insonnia, tutto dovesse venir racchiuso nel catino di una catapulta la cui
corda si faceva tanto più tesa quanto più il bicipite che la reggeva e
sollecitava si faceva robusto e invincibile. Bei tempi. Belli perché altri, e altri forse
perché, già allora, lontani. Fra quanti non si degnavano di pensare al futuro
con il clin d'œil di chi ben sa come
trattarlo (da ingegnere!), io ero il migliore: il più affidabile, il più –
perdente. Tanto più che i miei trench
facevano l'invidia di tutti e di tutte, e solo lei non li vide mai nemmeno da
lontano. Ma, già pur così lontana nel tempo dalla stagione dei trench e degli eskimo, delle piccole barricate e delle grandi manifestazioni di
nostalgia, Francesca meritava, avrebbe meritato e io ritengo che meriti ancora
il compassionevole sguardo dell'uomo che sa bene qual sorta di privazione le
abbia poi inflitto. Come forse anzitempo dissi, quando la conobbi era
primavera. Anche quando, a distanza di decenni, nuovamente la cercai, era
primavera, e la ritrovai, Dio solo sa se non la ritrovai: Un caffè fra conoscenti che non si vedono da trent'anni? – poi
timidamente - Non mi pare il caso, non è
nel mio modo di fare. E il mio ricordo? Non vola forse subito fuori della
gabbia, verso i dorati e ancora fulgidi lidi di quel It's not my way to love you
just when no one’s looking che solo Keith Carradine cantava in modo
decoroso. Un caffè… ? Non credo che
il marito, eventualmente, avesse messo becco nella del resto non spinosa
faccenda. A un uomo sposato si perdona la metà di quel nulla che si perdona a
un ragazzo scapolo, o mal fidanzato e comunque perennemente infelice. Quanto a
me io rubavo poco e poi quasi soltanto libri: leggevo molto, quasi solo
filosofi fra i quali invece rubavo moltissimo (la ragione: c'era così poco da
portar via, che ogni viaggio era quasi a vuoto, sicché la somma degli
andirivieni risultava infine assai vistosa). Le ragioni della mia sventura - un
insuccesso sempre e solo parziale: una flogosi che sempre esibiva il tumor, immancabilmente mancando di
esibirsi nel rubor – sono tutte qui.
Si consideri poi il fatto che sentirsi dare del bel tenebroso può sortire
sull'attento osservatore dello strumento umano un effetto molteplice e sempre
però scioccamente nocivo. Io non mi sentivo affatto bello – né mai così
'tenebroso' (benché Francesca negasse, sia questo secondo aspetto sia quella
mia prima sensazione) – e per
soprammercato (ricordo questa espressione curiosamente ricorrente in un
autore che da allora forse colpevolmente non lessi pressoché più) la tenebra mi
era sempre parsa talmente bella da condannare quella così diffusa espressione
fra i pleonasmi più stucchevoli – bel
tenebroso. Certo le revérs delle
giacche di velluto e i baveri dei giacconi alla marinara facevano la loro
parte. Ma non con lei. Quando ripenso alle parti del suo corpo che non potei
vedere, toccare, annusare: cosa c'è di diverso nel mondo ovvero al di fuori di quelle inaccessibili mutandine che non poter
conoscere i libri di cui ebbi il dorso ma non il volto, gli amici rivelatisi
estranei da ben prima di essermi estranei – le città fantasma – il cadavere di
Ernesto Guevara – insomma tutto ciò di cui la donna è non già simbolo o
espiazione, ma semplice parte, muta acuta testimone, e povera asina, bipede da
soma che in sé assomma ogni colpa e qualsivoglia dolore, a cominciare da quelle
e quelli in sé e per sé procurati, e
che in rarissimi casi non se ne vanta. Come nel suo per me unico. Tutti i bar,
le osterie, i ritrovi della mia giovinezza sono ringiovaniti in attesa che io
invecchiassi al loro posto. Precoce difensore di Oscar Wilde a dispetto di un genitore
che non ne apprezzava il Dorian Gray, e di una generazione che opinava di
averne gustato le battute – io invecchio. Invecchio e in me (eccomi nella mia
vera veste: di cornice) in me rinverdiscono quei ricordi amari, quelle croci
vuote e tanto più chiodate, le risatine sarcastiche all'indirizzo del mio
piglio e cipiglio, le battute da caserma che fecero poi di me un autentico
militarista - quasi un coscritto del mot
d'esprit. Il vetro che ancora mi accompagna: è a lui che io devo Francesca,
e i ricordi antistanti, i vasi di gerani che mia madre accudiva al posto della
felicità e il colpi di bastone dei Loebl sulle condutture idrauliche che tanto
metalliche quanto inesorabili subito prima risuonavano del mio tam tam metropolitano: la mia chitarra folk, si badi, una Raspagni: non una
Qualunque. Del resto una vita rovinosa non si riassume in una mezza pagina. I
cornicioni brulicavano di pericoli e estasianti attrattive – uno fu inquisito
in età giovanile, avrà avuto sì e no un tardo inizio secolo, da me e dal più
insignificante dei miei affiliati, insieme fermammo il traffico di Viale… con
un getto d'acqua proveniente da un idrante di soprattetto e altrimenti
destinato a riempire una piscina inutilmente destinata al comm. de
Ingegneriis… – le pallottole vi si conficcavano (nei cornicioni) e si
confondevano ai capezzoli: i picciuoli dei baschi ai picciuoli delle mele...
Nero su blu, rosso su giallo. Io scivolavo al di sotto di tutto ciò – è vero –
oppure molto al di sopra – se non è falso è perché ho conservato la vita per
dirlo, e la volontà ad essa debitamente correlata. Già a quel tempo mi piaceva
tutto – quel tutto – farfalle, vetrini colorate, le pietrine da controscarpa
con cui a sette anni sedussi la figlia maggiore di una madre minore, ma non lei,
non ebbi Francesca, mai sino ad oggi, né credo che l'avrò sino alla tomba (mia
o sua che poi si sia). Le tombe (nel frattempo mi son fatto un cruccio e un
piccolo nome come bricoleur di
architetture e di décors tombali),
stoviglie in rame, chiodi medievali, tondi di Della Robbia (ovali, taluni),
materiali di lattoneria che già allora io destinavo all'ornamento ben più che
alla funzione (del resto entrambi hanno sempre a che fare con una o un'altra
forma di sgocciolamento…). Ma mi piacevano anche, se è per questo, taluni
artefatti in stagno (addirittura, soldatini) rimemorantimi la luna, maioliche
sbrecciate (quelle di casa mia), una macchinina rossa (a casa mia) che faceva
pendant con un orsacchiotto rosso che io medesimo chiamai L'Orso Rosso (quello
di casa mia: l'attuale, lui è ancora con me infatti), i frammenti di basalto e
ardesia che recuperavo al Conero o sui tetti dove rubavo una scivolata a René
Clair, Jean Gabin o Georges Brassens… ma anche Francesca. Le Bic: i primi
rasoi di sicurezza (con una barba morbida come le trine del Re Sole ne usavo
due alla volta, per raddoppiare la sicurezza, il va de soi); le Bic doppio marchio dunque: biro e rasoi. Tagli e
sconcezze sopra entrambe le epidermidi, pagine e guance. E io tardivo nel
radermi come nel cambio degli strumenti di scrittura (del resto, parte il mio sangue, impiegai ogni
sorta di inchiostro, mio e altrui). La mia storia – se non già qualche
frammento dell'altra – passò senza colpo ferire da una calligrafia perfetta -
quasi solfeggio prettamente elementare della diteggiatura 'carta righettata' –
a una di tipo clinico, con ascendenze schiettamente neurologiche e allusioni
figurative profondamente ancestrali – tanto che nella mia laboriosa
trascrizione di un vuoto mentale dentro un vuoto cartaceo io nuovamente
ravvisavo l'inanità - solo adesso lo vedo – del lugubre, macabro, funereo
accanimento con cui molti intorno a me si adoperavano per obliterare i miei sogni. A stuccare le
brecce che sulla gran pagina della vita quei tentativi venivano aprendo,
canzoni, manifesti russi a forti grigioscuri, dazebao che spesso non raffiguravano se non l'onomatopeica radice
del proprio nome (al punto che qualcuno, di cui ora provvidenzialmente non
ricordo il nome, ne soprannominò uno di cui non ricordo il volto: dazebao-bab, e un altro, non credo
l'amante di Francesca, peraltro, osò, chiosando il primo, la bocca piena di un
boccone osceno: daze-bao-shis-ke-bab).
E le dattilografe in erba? E spesso in minigonna. E sotto la 'gonna'? i trenta
danari di Giuda. E sotto il prezzo di Giuda? I trenta danatri di Omsa, che
gambe! (ci fu un'epoca, breve per la verità, in cui Omsa! divenne – da marchio industriale di collant – una interiettiva esclamazione sostitutiva di Perbacco!).
E l'erba dei primi inalatori professionali (dosavano il trito per garantirsi
anche la serata: a notte dormivano il sonno dei giusti). Non io. A me sarebbe
bastato… bastata… una vita diversa. Aghi di pino, agopunture… ricordo
addirittura alcuni tentativi di rinvenire l'Ago universale. Ma forse si
trattava dell'Ego universale Ego, non saprei essere né più preciso né meno peccaminoso, nella
mia confusiva retrospezione. Io di quel mondo avrei fatto un rogo, eppure sono
qui a ricordarlo, sebbene non sia propriamente ora che io lo faccio, e sia in sua vece un allora. Sì, piuttosto una sorta di istmica propaggine di un tempo
che già sapeva non si sarebbe rassegnato, a finire, a dettarmi questi appunti
oblunghi e fangosi. Così all'infinito uno potrebbe anche confondersi con il
tutto, dimenticarsi di sé, come io di Francesca. Ma non avendo visto nulla di
lei, alludo all'occulto triangolino nero che immagino completasse il suo bel
bacino di sinuosità medio – e quasi estremo-orientali – e includo la
rivoluzione. Io non ne vidi nulla – malgrado abbia pagato le due rinunce in
modo diseguale, ma per me oggi così aspramente confuse all'identico che non
saprei più dire se le rimpianga entrambe, o soltanto una, o soltanto l'altra.
Pochi anni prima che Francesca mi negasse il suo corpo, e moltissimi prima di
quando or non è molto mi negò di sé addirittura un caffè, io amavo la nebbia di
quella città che allora era la mia ed era tardolagunare, lo scintillio delle
grosse ma non grasse chiavi inglesi che sbucavano (facevano capolino) di
traverso ai giubbotti degli studenti impauriti dalla solitudine, le rane di cui
non potevo rimemorare il gracidio perché le vedevo morte in una friggitoria di
mesta campagna meneghina (esattezza? Peschiera Borromeo), le macchine e lo smog
inondante che solo il mare, il mio unico amore, cancellava per sempre fra
giugno e settembre (ma ci fu chi – non mancò chi, allora, figlio di colleghi
dei genitori, unico esemplare anche nel seguente senso: di ritorno dal mare,
quattro o cinque defatiganti mesi di Isola, in città finalmente poteva respirare
a pieni 'polmoni' - era molto magro, esile, emaciato: Dio non voglia che sia
stato lui l'amante sostitutivo di Francesca! – la 'aria' di Milano, nella cui
persistente evocazione del Petrolio lui sentiva, forse presago, una sorta di
Salvatio Corporis. Sarà stato perchè i suoi avevano quattro automobili in due.
Pochi anni dopo, neopatentato, fu barbaramente ma forse anche allora
profeticamente malmenato da alcuni scalmanati per un contromano che, lui al
volante, loro avevano imboccato, centrandolo in pieno). Nemmeno ricordo adesso
se amai altre Francesche: pur essendo lei - lettori e lettrici non fingano di
poterlo ignorare – ! – un nome da collezione. Ma sbaglio. Una ci fu, rossiccia,
carnagione lattea, lentigginosa quanto basta per una fantasia intermittente,
una che mi piacque da giovanissimo, durante le mie castissime rivolte di strada
milanesi, e che cadde fra le mie ancor giovani braccia fra Milano e Roma
durante una trasferta ferroviaria che… ma non posso aggiungere altro: non è
di questa Francesca che stiamo parlando. (Era sensuale, molto formosa,
infantile, voce languida e anche aspra e pungente, quasi implorante, sterno
prorompente come il seno, fianchi da non dissipata allevatrice olandese, e
petulante quanto bastava per incrinare una qualsiasi imminenza, timida,
candidata ideale a quella sottomissione muliebre che avrebbe dovuto suggerirmi
di tradurre la nostra avventura romanica (romantica) in uno strascico da Gran Galà lombardo (matrimonio). Fu
lei una delle ragazze con cui una volta feci cilecca a metà – il peggio che possa capitare a un uomo
che in trattoria, in barca, sui libri, alla chitarra e in compagnia dei gatti
era dato come uno-e-mezzo, la metà divenendo così il 75 % del tuo (suo) Essere.
Ma anche l'Oriente tramontava a metà, e di lì a poco cominciai a comprendere
che un simile genere di fallimenti ben anch'io potevo permettermeli. Il peggio – l'impotenza, la repressione… – il peggio non era il male in sé ma il male in me. Che pure, come tutto, si
redime e senza perdonarsi perdona, si innaffia e senza idratarsi inebria,
rotolandoci in una ennesima sorsata o in un primo turgore di bicipite
richiamato dalla riserve. L'altra Francesca, quella che non possedetti, e
questa che invece ebbi. E fra le due una rivalità atavica, ancestrale, viscerale,
veemente come le tempeste transcontinentali (non si conoscevano: io, ero io il
planisfero su cui avveniva quel titanico confronto). Fra loro una differenza
minore, nulla, inferiore a quella che poteva passare fra il canale affluente e
il canale effluente di un fiumiciattolo a sua volta artificiale – insomma, alla
differenza fra Milano e Milano. Un numero inesprimibile. Ricordo il suo sapore
rossastro, la sua peculiare equidistanza tra frigidità e abbandono, e l'ago
della bilancia sempre perfettamente indeciso fra il dirla morbida o soda. Ma è
alla prima Francesca, cioè a quella che non ebbi, cioè a Francesca stessa – mi
avvedo di aver parlato dell'altra nella puerile illusione di ricordare il
possesso della stessa… è a lei dunque, infine, che andrebbe una buona volta
indirizzato e anzi, nuovamente rivolto, il mio pensiero. Ci fosse. Tutti
eravamo di sinistra, e tutti estranei a noi stessi; pochi, invece, coloro che
osassero l'inaudito coraggio di dirsi e confessarsi estranei gli uni agli
altri. Alle altre. Con questo ultimo dire e confessare hanno termine anche i
miei ricordi nonché le mie rimostranze nei confronti di quelle due innocenti
(dell'una perché non c'è più, dell'altra perché non ci fu mai). Perciò
autorizzo chiunque a credere che i miei ricordi in questo somiglino alla prima
Francesca, che soltanto a metà mi si concessero, e in quest'altro invece a
Francesca seconda, che solo l'altra metà offrono al tatto, al morso e al dovuto
rimpianto: e ben però per entrambe resta vero, che anch'esse una dopo l'altra
loro rimasero al di là dal vetro.
LODOLA
A tutti fuorché al sottoscritto verrebbe
fatto di sorridere, ah Lodola... a tutti tranne a me, perché io Lodola l’ho
conosciuta, e garantisco della sua identità come della sua persona. Nonché
della singolarità del suo caso: quello di una fanciulla cui il semplice nome
donò corpo e esistenza, sobillando senza mai deluderla l’attesa di un piccolo e
sempre nuovo miracolo.
L'ultima volta che la incontrai, era ancora
del suo ottimo, insondabile umore - ciò che forse rende necessario riferire
come si svolse la prima. Camminavo nel bosco di M. – il 'mio' bosco – era forse
l'alba e forse l'imbrunire – quando un curioso presagio – un doppio
presentimento si prese cura e gioco di me. L'impressione che il tempo fosse
stanco o confuso, che insomma rallentasse e non sapesse esattamente dove
andare, e inoltre di non avere io stesso più alcuna voglia di essere la persona
che ero, e di vivere quella sua vita come se davvero fosse la mia. Non che le cose
sovvertissero un ordine (l'ordine consueto del loro disporsi e contrapporsi),
no, ma che il fluido divenire del tempo, la sua liquida propensione verso
l'avvenire si facesse melmosa, e io, ancora inviluppato nelle sue invisibili
spire, mi invischiassi in quella palude mollemente e lentamente sostituita al
torrente. Ma in effetti: al mio fianco un torrente scorreva, limpido e esiguo,
ed ecco che al mio passo accelerato dal presagio ben presto si oppose un
piccolo lago. Intorno il bosco era uguale e quello di sempre: pochi, i piccoli
animali, e un cielo fatto rado e distante dalla fitta proporzione delle fronde.
Circumnavigai il laghetto - che nulla aveva a che fare col torrente – e mi
ritrovai nel punto dove lo scorsi dapprincipio. Allora – fu allora che mi
avvidi anche di lei. Stava, come un giunco che l'acqua avesse affidato alla
riva, sulla riva opposta alla mia, se così si può dire a proposito di una forma
o figura circolare. Si chiamava Lodola – e la natura tondeggiante del lago non
facilitava certo il compito di dire dove esattamente fosse, sebbene - pensai non appena la vidi – ovunque sia il suo corpo, là sarà lei.
Quasi sottolineando 'lei in persona'. Vieni – disse – mi chiamo sai bene come –
e la sua voce tintinnò come se quelle parole me le avesse sussurrate in un
orecchio. Non ricordo di essermi mai mosso – un breve vuoto accorse a calmare
la mia momentanea ma profonda indecisione – e la sentii accanto (non troppo
diversamente poco prima avevo avvertito l'inattesa prossimità del ruscello).
Non mi chiese il mio nome: lo conosceva. Io vivo qui – proseguì Lodola – perciò
non mi hai mai incontrata – e – come se più che indovinare anticipasse i miei
pensieri – e se oggi è potuto accadere, è che da oggi anche tu vivi qui. Devo
tornare a casa - replicai sommariamente – ma posso tornare quando voglio. Va tutto bene, anche quando non capisci le
mie parole: io non parlo per essere capita, e mi prese la mano. Ci
incamminammo lungo un sentiero celato dalla luce bluastra delle grosse querce,
mano nella mano, estranei come le solitudini di persone che vivano in secoli
differenti, gli occhi dilatati dalla penombra che si indovinavano nella più
assoluta assenza di sguardi. Giunti alla prima radura Lodola sembrò accennare
verso un punto del bosco che ricominciava subito al di là, obbedendo al suo
cenno, come forse le obbedivano le fronde, guardai in quella direzione senza
vedere nulla di diverso, e al mio primo accenno di interrogazione Lodola era
scomparsa. Raggiunsi allora il punto nella cui direzione mi era parso indicasse,
mi voltai e potei dirmi certo di non essere mai stato là dove eravamo un attimo
prima. Passò molto tempo prima che la incontrassi nuovamente, ma da allora non
provai più quel greve senso di mancanza che mi aveva oppresso prima di
conoscerla, e smisi di misurare gli intervalli fra un incontro e l'altro:
smisi, per così dire, prima ancora di aver cominciato. (Se anzi mi si chiedesse
cosa facevo in quel tempo, non saprei rispondere: un vuoto mi era stato donato,
che colmava ogni altra mancanza. E un oblio perfetto come un incantesimo mi
permetteva e mi obbligava a sapere solo di ei, a vivere di lei e dei pur brevi
momenti in cui il bosco – che ormai, dall'epoca di quel primo incontro, dovrei
chiamare il suo bosco – me la
concedeva). Lei mi istruiva su ogni sorta di segreto, mostrandomi così che
nulla di misterioso mi concerneva, e che tutto nella penombra del suo bosco era
rischiarato dalla luce della sua leggera presenza. Era scalza: la pelle dei
suoi piedi non risentiva degli aghi di pino né delle spine che da roseti e
pruni cadevano sul sentiero né dei ciottoli talvolta acuminati e aguzzi che
gremivano quegli stessi intimi camminamenti. Giunsi a pensare che il suo
segreto fosse identico al fatto che non esisteva, sebbene, lo ricordo ora come
se non avessi più pensato ad altro, sebbene il medesimo dubbio che nutrivo in
sua presenza sulla sua realtà si mutasse in sua assenza nella mesta e cullante
certezza della sua esistenza. Paralizzato in questo mirabile equilibrio –
ravvolto in questa gabbia di illusioni cristalline – era incomprensibile il mio
cammino: che pure percorrevo ormai quasi ogni giorno, guidato da una nuova luce
verso i luoghi dove l'avrei rivista. Non accadde mai che la incontrassi due
volte nello stesso luogo, e anzi il bosco stesso, i sentieri, il suo piccolo
lago – tutto mutava di aspetto, e quantunque io continuassi e quasi
perseverassi nel sapere che erano lo stesso bosco, lo stesso sentiero e lo
stesso piccolo lago misterioso (da quali inveduti ruscelli o sotterranee
sorgenti era mai generato?), solo la sua voce rimaneva uguale, e i suoi occhi
nocciola cui le lunghe ciglia castane offrivano la cornice più degna. E l'una e
gli altri incapaci di incantare, ma in compenso così provvidi delle virtù del
risveglio! Vieni – diceva spesso a bocca socchiusa – non devi seguirmi se non
vuoi, ma io so che tu vuoi. Benché il
nostro non fosse amore, nemmeno poteva dirsi amicizia il vincolo che fra noi si
era creato, e nei momenti di
lontananza, nelle lunghe distanze dei giorni, delle settimane… io sentivo nel
suo nome che fra me non smettevo di pronunciare l'eco di quel primo incontro,
quando non dai suoi discorsi seppi che mi era destinata. Se è vero che la
nostalgia, dietro l'apparenza di muoverti verso l'oggetto che suscita i tuoi
sospiri, ti sospinge all'indietro verso un passato tanto oscuro quanto irreale,
lo è anche e a maggior ragione che la mia non era nostalgia, né impazienza.
Vivevo all'ombra di una certezza che mi vietava ogni altra presunzione e a ogni
superstizione vittoriosamente mi sottraeva. Quel che devo a Lodola è la
redenzione dall'affanno che prima
di incontrarla mi faceva maledire, senza conoscerlo, il fatto di non averla mai
incontrata, il tormento di non essere altrove, là dove avrei potuto essere non
avessi io mai scelto, o accettato, di trovarmi invece proprio là dove mi
trovavo. Con lei bastava che un
ciuffo di capelvenere ci sfiorasse le braccia nude – a pochi passi il grottino
di roccia con il suo vispo zampillo trasparente – perché si sapesse che non
c'era e non c'era mai stato nient'altro, alcun uomo, alcuna donna, alcun bosco.
Fu così che ben presto ben più che della sua esistenza mi preoccupai e mi
dedicai al suo insegnamento, quasi una credula condiscendenza governava la mia
nuova inclinazione, e se per esempio lei pur senza affermarlo esplicitamente
lasciava intendere che così come non esisteva nessuno che corrispondesse al
proprio nome, nello stesso modo non c'era nessuno come lei, io le credevo. Come
se mi venisse spogliando di ogni e qualsiasi motivo per sospettare il
contrario. Né mai mi impensierirono le sue fugaci nudità. Forse anche perché ne
gioivo senza fare altro che fingere di non averle notate, e va da sé, più io
fingevo, più la mia stessa nudità, pur protetta da una delle mie molte camice
di lino, in autunno dalla classica giacchetta di fustagno, si annunciava al suo
sguardo assente. La sua veste – assai simile a quelle che nei libri illustrati
indossano le fate – sin dal primo giorno si rivelò cangiante come la pelle di
un animaletto mimetico o lo stesso colore dei mari. Ora torbida e opaca come
foglia, ora diafano peplo di vergine, quella tunica garbatamente stretta sui
fianchi appena sotto i seni non cessava di ondeggiare, mormorare minime ma
insistenti variazioni su un tema che chiunque avrebbe indovinato: la carne.
Nelle giornate afose quando non soffiava il vento, lei lo creava: e io sapevo
(io che del vento avevo bisogno come dell'aria stessa) di doverle tutto, a
cominciare dalla serenità – incoscienza? – con cui in me accoglievo la certezza
di perderla. La conoscenza del futuro nel quale l'avrei perduta. Vieni, seguimi – e le sue gote si
colorivano di rare e generose screziature del rosa – via via che la sua voce
passava da una parola all'altra – seguimi,
vieni… Per due o tre volte la seguii inconsciamente, come una scia
fedelmente ancorata alla poppa che la fa scaturire. Poi, un giorno, prima che
potessi interrogarla o accorgermi che ero sul punto di volerlo fare, non essere preoccupato – disse - vedrai
che ogni cosa si sistemerà, e tutto tornerà al suo posto. Sapevo che si
accingeva a sciogliere ogni nodo e che avrebbe giocato con un nuovo enigma come
con il trastullo più comune e innocente, e in fondo insignificante. Quel
trastullo – quell'ultimo ovvio enigma – ero io – altri non era né avrebbe potuto
essere che io stesso. Il tempo successivo alla nostra conoscenza non fu che il
tempo di questa lentissima rivelazione. Sarei stato libero – avrei in un certo
senso cessato di esistere – grazie a lei. Fu un gioco di cui sulle prime non
ebbi contezza. Quando la prima volta che la incontrai lei disparve sul limitare
della radura, pensai – immobile sull'altra sponda – di avere impunemente
immaginato quell'incontro, e che al posto di Lodola ci fosse stato un sogno a
occhi aperti, come sembrava suggerirmi il fatto di non sentirne nostalgia. Non
la sognai dormendo – la qual cosa mi avrebbe ogni volta lasciato in balia del
caratteristico languore che segue ogni sogno sentimentale, per non dire
erotico. E di lì in avanti mai mi fu concesso o inflitto il tempo per
desiderarla. Talvolta tuttora mi accade di domandarmi se fra noi ci sia stato
qualcosa come un amplesso, un bacio, forse anche un abbraccio, e ogni volta la
chiara coscienza della mia incapacità di rispondere mi riporta nel bosco sulle
orme di Lodola. E – in un certo senso – fra le sue chiome. Tu sei – e allora pronunciò il mio nome - io ti conosco – aggiunse
appena più sentenziosamente - se proprio
ci tieni, puoi lavarmi i piedi. Ci trovavamo sulla sponda del laghetto, per
una pura coincidenza. Quando - quando è già accaduto – mi chiesi – che io le
abbia lavato i piedi? E più ancora che in quale vita o in quale sogno, in quale
specchio d'acqua – se quelle erano, come furono, tali da offuscare il ricordo o
il presentimento di ogni altra forma d'acqua? Tu rimugini e non ti accorgi di agire, proseguì, così ti perdi il
più bello – proseguì spostandomi la mano verso la caviglia con il dorso del
piede opposto. In effetti – come se una lepre avesse drizzato le orecchie – non
c'era alcun bisogno che io riflettessi: lo facevano le acque del lago,
raddoppiandoci al chiarore lunare in una terra e in un cielo. E l'acqua
divenuta la nostra nuova terra ci cullava nel lentissimo tango di un'estasi per
principianti, quasi taciturna, onde tutto il misticismo dell'esistenza tra
ciminiere e depositi svaniva senza che alcuna forma di lutto si insediasse al
suo posto. Solo un rivolo di rimpianto per il fatto di non accorgermi di quel
che pure sentivo, che venivo facendo…
Per lei ero un amico, l'amico del bosco.
Presenze pur vive, gli animali si tenevano alla distanza perfetta della
compiuta discrezione. A non ricordarci il mondo: a non volerci tentare con
alcuno dei loro memorabili incantesimi d'oblio. Indifferenti al poco che
intorno a noi accadeva, passeggiavamo per lo più in silenzio, ma allora
congiunti per il casto caparbio intreccio delle mani, o a brevi passi lontani,
quasi volendo che un'altra passeggiata, quella che ci avrebbe condotti guancia
a guancia, dovesse completare la prima, la cui meta si stagliava pur sempre dinanzi
a noi, chi può dire se al di qua o al di là del Bosco.
Se mi accadde di chiamarlo mio, è perché fu
l'unico in cui mi fosse mai stato concesso di essere solo: il solo disertato da
viandanti, innamorati, evasi, cacciatori. Quello in cui – oggi so – già prima
potei presentire che qualcosa sarebbe successo e allora soltanto a me successo,
alla persona che così intimamente, così meritatamente ne aveva bisogno. Dopo
molto tempo le chiesi di poterci rivedere in un posto che ci fosse familiare,
ne avevo in mente alcuni - non ci fu nulla da fare. Tu – tu non rispetti i patti – disse. Noi non abbiamo stretto alcun
patto, risposi. Tu – e qui nuovamente
mi concesse di sentirla pronunciare il mio nome - non mi vuoi seguire, ed è questo che ti addolora. Sì – dissi
io – capisco, forse è proprio a causa tua che nessun posto è mai lo stesso, e
la mia richiesta fu stupida come le mie giornate prima che ti incontrassi.
Talvolta per non sporcarsi la veste nelle
pozzanghere (che non solo la pioggia ma sporadiche e misteriose falde e
esondazioni creavano lì per lì) la sollevava anche oltre le ginocchia, e
talvolta, benché solo eccezionalmente, mi faceva capire con un semplice
ammiccamento delle spalle e dei piedi che desiderava essere lei stessa
sollevata e trasportata al di là di quell'oceano miniaturizzato. Prima di
allora non avevo mai osservato che una nuvola potesse assumere le sembianze di
un ginocchio muliebre, di una coscia verosimilmente ignota a vestimenti che non
fossero la sua ampia e diafana tunica. E più persistente si rivelava la mia
volontà di distrarmi più il suo corpo si confondeva al bosco, all'aria…
prenderla e tenerla in braccio… sino a quando non sospettai che l'aria stessa
fosse, prima e ultima fonte delle mie visioni, tutta la sua nudità. A che ti serve questa tua bellissima veste? – le chiesi un giorno. A ripararmi dalle
intemperie – replicò Lodola nel più naturale dei modi, e anzi
sottolineando, nel tono, l'involontaria insolenza della mia ovvietà. E io non
seppi più insistere, non più che se avessi chiesto l'elemosina a uno
sconosciuto nel quale proprio la mia richiesta avesse rivelato il mendicante.
Era come se la sua voce e l'ammirevole saggezza dei suoi discorsi fossero
devoluti alla mia sola persona, e lei non ne avesse alcun bisogno, nemmeno per
giocare o distrarsi nelle lunghe ore di silenzio e solitudine. Parlare era per
lei l'autonomo stormire di una fronda disertata dal vento. Io ti sono grata perché, pur essendo tu che hai bisogno di me –
specificò una volta – tu sei il mio
giocattolo, e – in una lievissima attenuazione – non offenderti se aggiungo trastullo. Così dicendo aveva
leggermente inarcato le sopracciglia, come se qualcosa potesse procurarle
dispetto, sicché gli occhi, già grandi, s'erano fatti grandissimi, e luminosi
come due laghi repentinamente restituiti alla luce del sole. Sono tante le cose che avevo in animo di
chiederti – lo so, disse lei come venendo in mio soccorso, quasi che quelle
parole fossero uscite non dalle mie ma dalle sue labbra – così tante che ora
non ne rammentavo alcuna. Prova, ma se ci
tieni ti dirò io qualcosa, qualcosa che ti terrà in mia compagnia e ti
renderà leggero il passo e il respiro. E,
dopo una pausa, questo è un labirinto,
se non lo si sa prendere per il giusto verso. Io lo abito, tu lo attraversi. Non c'è altro, vero? – chiesi io già
rassegnato al silenzio che lei non avrebbe mai accettato di infrangere.
Lodola curava la mia diffidenza con un'arte
che pur essendole propria era l'opposto della magia. Potremmo anche fare l'amore - disse una volta nell'atto di
liberarsi simultaneamente dai fardelli della sua leggerissima veste e di un
raschio alla gola – ma non servirebbe a
niente - ecco che ora raccoglie i capelli sulla nuca, chiedendomi di
sostituirmi al fermacapelli – non
toglierebbe il tuo intestardito dolore – e ancor più enigmaticamente si
tuffò nel suo lago. Aveva ragione, naturalmente, ma subito mi fece cenno di
seguirla, e non potrei dire cosa poi accadde. Agivo senza coscienza col favore
di quelle tenebre che sono le acque nello scintillio del sole penetrato tra le
fronde sino alle superfici… improvvisamente intorbidite dalla nuvolaglia, ci
ritrovammo come tramortiti, foglie di ninfea offerte alla brezza, al ronzio
indolente del calabrone… nuotava piano e solennemente, un poco innanzi a me,
forse sapendo quanto mi piacesse notare i suoi piedi utilizzati come pinne, e
vederli creare quella piccola scia di spruzzi dove mi ostinavo a immaginare una
prua bifida languidamente beccheggiante verso il mio viso. Approdammo, infine,
su una piccola spiaggia bianca, e lei, Lodola, non perse occasione per
redarguire la mia diffidenza. Vedi –
indicandomi un gabbiano che volava basso e di cui individuavamo distintamente i
bellissimi piedi – c'è anche il mare, e
antichi castelli! – io distolsi lo sguardo dal cielo alla terra, osservai
il minuscolo rudere che lei mi stava segnalando, ma al mio accenno di conferma
lei era – c'è forse bisogno che io lo ricordi? – scomparsa nel nulla (e quasi
dovrei aggiungere adesso, il suo
nulla), come sempre, come una nube rapita da un vento forestiero. Continuiamo a incontrarci in attesa di un
congedo degno del suo nome - rimuginai rivestendomi, e proprio con
l'accanimento che lei così spesso e così ragionevolmente mi rimproverava, e non
tornai più sull'accaduto.
Fu questo di allora l'intervallo più lungo.
Lo fu? Davvero non so. Non so quanto tempo sia trascorso da quell'episodio, né
se quella fu l'ultima volta che la vidi.
Ricordo molti altri incontri con Lodola, e
ignoro del tutto se furono precedenti o successivi, e se ricordo invece con
nettezza il nostro primo, è forse che non sono ancora divenuto il suo discepolo
perfetto: e non ho ancora dato propriamente l'addio al tempo. Ed è solo perché
forse senza saperlo decisi che fosse tale, e per così dire senza chiedergli il permesso
decretai che quell'incontro fosse il primo, l'impreceduto. Ma chi potrebbe
garantirlo? Se per caso, per assurdo o invece e all'opposto per una superiore
forma di saggezza io avessi, ignaro, dimenticato tutti i precedenti? Se conoscessi Lodola da sempre? Ma che
importanza può avere ormai, dal momento che Lodola, lei, abitava nel bosco, là
dove il tempo né passava né sostava, e non esisteva salvo per ornare le nostre
brevi, indimenticabili riunioni – e che io grazie a lei avevo finalmente
imboccato la retta via della dispersione e dello smarrimento?
Frammenti
Lodola mi assicurò, indicandone uno in
particolare, dicendo che quello era l'albero della vita, ma non era vero, era
il suo albero, l'albero nel quale, sul quale e per il quale viveva. Quello che
soltanto per me, di quando in quando, abbandonava. Ed era disposta ad
abbandonarlo perché sapeva che così facendo, che solo così facendo mi avrebbe
incontrato, deduzione logica, considerando che io non vivo sugli alberi, e non
mi ci arrampico se non invitato.
Le sole cose che Lodola sapeva di me - e
nulla cambierebbe dire indovinava – erano il mio nome e la mia diffidenza. Li
vinse entrambi. Li ebbe – uno dopo l'altro – come trofei viventi di uno slancio
esaurito nella rinuncia a ogni volontà. Una volta disse: se è per questo io faccio qualcosa di più che non esistere, io amo
il mio mondo (alludendo al nostro bosco e, per quanto riguarda l'affermazione
precedente, al mio terrore che non esistesse) e non lo tradisco per nessuna ragione, non lo lascerei nemmeno per
verificare (in una vetrina di città? Su una sedia di parrucchiere? mi chiesi
mentre parlava) che esisto davvero. Come, del resto? A me non importa sapere,
perché sapere è non saper amare. Io so
che soffri – e qui disse il mio nome, solo a lei noto – e che diffidi. Perciò ti ho esortato a
seguirmi, in un certo senso per distrarti, e d'altra parte anche affinché ti
concentrassi meglio su te stesso.
Dicendo di lei ho talvolta l'impressione di
tradire un segreto, e non importa se suo o mio, quanto che sia stato fra noi
come un silenzio portato dalla perfezione. I luoghi che traversammo insieme –
passando oltre o facendovi soste quasi sempre decise all'ultimo momento – erano
altrettanti stati d'animo di una terza persona che veniva allora ad insinuarsi
fra noi – ma più ancora a nascervi, quasi che la sua inaspettata intrusione
avesse a svelare nelle nostre estraneità precedenti le sorgenti di due ruscelli
chissà quando confluiti in un'antichissima intimità. E così come i gesti – i
fatti del corpo – erano limitati a un'essenzialità quasi orientale, le parole
venivano alle labbra al quasi unico scopo di ritrarvisi, come certe piante che
nello splendore della fioritura si rivelano più caduche di tutte le altre.
Vedi
bene – e qui un ennesimo richiamo al suo attento
interlocutore – che tutti i vostri discorsi non sono che immagini di un regno
proibito, immagini che non dicono niente
se non che a quel regno non appartengono, uno specchio appartiene forse al
volto che specchia? Come il pianto allude alla felicità recentemente ma forse
definitivamente perduta (non è il pianto una bella immagine di un fiume che
sorga sotto i tuoi occhi ma non abbia però più fine, e col suo stesso corso
allontani per sempre le residue speranze di terminare in una foce?) così i vostri
discorsi alludono al regno dove io invece vivo. Vieni a trovarmi ancora, ogni volta capirai qualcosa di più. Ma
perché io non sia rimasto con lei… e non alludo al fatto che lei non mi
congedasse in maniera ordinaria, o che non si assentasse normalmente, per
esempio camminando lungo un sentiero e offrendomi le chiome e le spalle, sempre
più piccole verso il folto del bosco. A ben guardare, qual è o potrebbe essere
la norma di un congedo? Ognuno è fatto a modo suo – e proprio a questo
proposito, nuovamente la perturbante certezza che nella sua voce fluisse alla
luce una sorgente altrimenti segregata nelle mute cecità del sottosuolo. Lodola
appariva e scompariva d'improvviso, e io nemmeno volendo avrei potuto rimanere
al suo fianco, seguirla senza interruzione lungo il fiume del tempo, per
visitare infine la sua dimora. Non si sposta forse l'ombra insieme al corpo? La
sua casa sembrava imitarne l'ironica fuga. Io conoscevo bene il bosco:
dall'esterno lo avevo più volte circumnavigato, era una piccola isola verde e
gialla che gli alberi più imponenti proteggevano da sguardi troppo indiscreti
per potersi dire curiosi e troppo curiosi per non essere abbagliati dalla sua
iniziatica penombra. Alberi che ne avvolgevano i più intimi recessi creando
intorno al suo lago, alle sue minime e impreviste radure come una fitta coltre
di penombra, quasi una nebbia reticolare, attraverso la quale risultasse
impossibile congetturare le reali dimensioni del luogo. Poi, una volta
guadagnati i suoi primissimi meandri, il bosco perdeva ogni relazione con il
mondo reale, a cominciare dal fatto che tutto era salvo la sua sostituzione, e
includendo nel conto la famiglia di tutti gli altri boschi – e così come lo
spazio sembrava volerlo contenere solo per instabili frammenti temporanei, il
tempo pareva librasi, appena al di sopra delle sue fronde, dei suoi mormorii,
dei suoi fogliami – come un insetto innocuo e paziente in attesa che una
corolla, una foglia, un ciottolo gli significassero il permesso di posarsi. La
verità è che quel che siamo soliti chiamare spazio, una volta entrati in quel
suo infinitesimo sottoregno, non trovava più posto nel bosco di Lodola, e lei
si vedeva per così dire obbligata a creargli di quando in quando una nuova
nicchia, un'ennesima svolta del sentiero - ogni volta inedite e a me ignote.
Così per il tempo. Non mancarono mai le circostanze e le relative occasioni:
entrato al tramonto, lei appena intravista per un saluto che quel giorno mi
veniva negato, ne uscivo all'alba, ma come se quel piccolo imprevisto – quell'anonimo,
innocente diniego della sorte – avesse requisito la notte in un luogo a tutti
inaccessibile, del tutto inabitato. Lodola, che vi era dentro e del bosco era
in un certo qual modo l'indisciplinata vestale, non sapeva nulla di tutto ciò,
e la sua profonda saggezza sembrava assorbita dal piccolo prodigio con cui
aveva intuito la fallacia e la meschinità dei 'nostri' discorsi: dei discorsi
di chiunque non abitasse la sua solitaria foresta, e avrei fatto prima a dire
dei discorsi umani. Perciò parlava così poco, sebbene allora così volentieri e
talvolta in modo torrenziale: questo
bosco è qui da sempre, qui non è mai entrato un dio, e la tua presenza non farà eccezione. Oppure: considera la tua presenza qui accanto come quella di un lettore
accanto alla favola che sta leggendo e che nessuno ha scritto, e considera che
la sola cosa reale è che lui la stia leggendo. Considera tutto attentamente. E
ancora: è ben vero che qui è tutto come
se... ma è molto e poi molto più potente di qualsiasi altra realtà, ed è l'ultima cosa a esistere. So - dicendo il mio nome - che ti parrà singolare, ma io non mento
e non fingo: il fatto che qui sia tutto come se ci fosse un altrove, proprio questo lo riporta qui e qui lo
addormenta.
La sua voce, così rara, breve pioggia in
quell'autunno sempre soleggiato, e le sue lentiggini passeggere (una volta
pensai che le avesse soltanto nei giorni dispari, ma un rapido conteggio mi
obbligò a escludere anche questa ricostruzione), di allora ricordo questo e
nient'altro. Come dirlo altrimenti? Ogni volta non un appuntamento ma un
incontro casuale; ogni volta un posto diverso e mai lo stesso, uno che prima
non c'era, ne ero sempre più che certo, e ogni volta un congedo identico al
mistero, alla dissoluzione. E Lodola: sempre uguale a sé stessa, lentiggini a
parte.
Una volta la vicinanza delle sue labbra alle
mie mi fece capire che non ascoltiamo con le orecchie, ma con lo stesso organo
con cui ci facciamo a nostra volta ascoltare, e la sua voce che mormorava sai bene che ti sto baciando, ma è per
il tuo bene e non devi inquietartene, e poi io in silenzio che dubitavo di
quanto mi accadeva, io che mi ero mutato nel suo stesso abbandono e che per lei
avevo rinunciato al mio. Lodola mi stava baciando, e io non potevo sentirla!
(Lei stessa, sentiva forse qualcosa, lei?) Chi potrebbe credermi? E, salvo il
suo caso, quello di una fanciulla cui nulla importava, né essere vista, né
creduta o inseguita, chi altri potrebbe continuare a parlare sapendo di non
poter essere creduto?
Aveva i piedi piccoli e torniti da
un’antichissima indolenza. Ciò non di meno i boschi, specie quello dove la
incontrai, riuscivano a tramutarli in ali: membra di un volatile implume e
ornamenti assoluti, assolutamente indifferenti al compito di trasportarla, che
pure assolvevano con grazia esemplare. Anche la sua bocca era un guscio: dentro
ti saresti aspettato di imbatterti in un boschetto di capelvenere, e invece.
Anziché il verde e il nero della penombra vegetale il rosso il rosa e il bianco
di una dentatura infantile e di una carne tenebrosamente segreta – benché come
il bosco a sé del tutto ignara.
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