venerdì 11 marzo 2016

Vincitori del Concorso Pubblica con noi 2016 sez. Racconto

Fara Editore e i giurati
Angelo Leva, Francesco Di Sibio, Laura Grassiccia,
Marco Fratta, Massimiliano Bardotti e Nino Di Paolo
sono lieti di proclamare vincitori della XV edizione
del concorso Pubblica con noi (2016) per la sezione Racconto
i seguenti autori: complimenti vivissimi a loro, e un grande grazie ai giurati e a tutti i partecipanti.
Per la sezione Poesia v. qui 


opere 1^ classificate ex aequo


Eterogenesi dei fini di Corrado Giamboni (Porto Mantovano, MN)



Corrado Giamboni ha pubblicato da poco Il Porsche a metano (romanzo balneare, Fara 2015). Nasce nella seconda metà del secolo scorso e muore presumibilmente nella prima di questo / per snobismo o timidezza o vigliaccheria difficilmente è diretto / diciamo che preferisce essere capito / diciamo pure di nicchia / ha molto da dire o meglio qualcosa o perlomeno ne è convinto // nasci, muori. Cosa c'è in mezzo sta anche a te / per questo stai attento, non vivere disattento / non sai neanche cos'è il coltan / dove vivi è meno importante / quando e quanto è meno importante / paga per il silenzio / per avere meno / per essere.





L'espressione eterogenesi dei fini, in tedesco Heterogonie der Zwecke, fu coniata dal filosofo e psicologo empirico Wilhelm Wundt. Con essa si fa riferimento a un campo di fenomeni i cui contorni e caratteri trovano più chiara descrizione nell'espressione «conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali».



La mia carica sessuale era altissima. Mi feci uno shampoo. Non avevo ancora completato il primo risciacquo quando qualcuno suonò dal citofono, una lunga scampanellata alla quale ne seguì un’altra altrettanto lunga. Che fretta. Uscii e andai istintivamente nella tromba delle scale per vedere chi fosse - il citofono era rotto. Non capivo, non si vedeva nessuno di sotto, la luce delle scale era sempre così fioca. Un forte colpo secco alle mie spalle mi fece sobbalzare. La porta di casa si era richiusa. Succedeva sempre così, si formava una corrente d'aria con il portone di sotto e la porta si chiudeva sbattendo. Tubo di Venturi lo chiamano in fisica. Fatto sta che adesso per colpa di questo tubo di Venturi ero chiuso fuori. Lo sapevo per esperienza di quella porta, nonostante i miei pochi giorni di permanenza lì. Mi era già successo il primo giorno, ma quella volta per fortuna mi avevano aperto da dentro. Ora era diverso, ero solo.

Mi resi conto della situazione. Ero in canottiera e mutande, le chiavi rimaste dentro casa, io rimasto fuori, era inverno e avevo la testa bagnata e insaponata, era circa mezzanotte, mezzanotte e un quarto. Non avevo idee precise sul da farsi. Tanto più che quella non era casa mia, ero ospite di un amico del circuito Operazione Ratto. Amico, meglio dire contatto.

Operazione Ratto era il nome in codice di un’attività segreta legata a un'azione internazionale congiunta che seguiva una pista più o meno legale di commercio di coltan congolese via Transnistria destinazione Europa centrale, e ho già detto troppo. Strano giro, ma nulla è strano quando ci sono i soldi, nulla è strano quando è segreto. Prova a pensare ai giri che fanno le armi o a quelli che fanno gli organi espiantati ai prigionieri cinesi.

La nostra organizzazione faceva riferimento ai servizi segreti per così dire ufficiali, ma godeva di una certa autonomia organizzativa, soprattutto economica. Per tenerci operativi ci facevano fare anche delle operazioncine di basso profilo, ma ci pagavano sempre bene. Io lo facevo un po’ per convinzione - ero sinceramente terrorizzato dal fatto che i comunisti potessero prendere il potere – e un po’ per arrotondare il mio magro stipendio da bibliotecario part-time alternato ad attività di catsitter, che non mi permettevano di uscire dallo status di bamboccione mio malgrado. Metà dei miei coetanei italiani erano all'estero e io sinceramente non volevo sentirmi da meno. Era anche un modo per viaggiare, cambiare ambiente, conoscere gente, abitudini diverse. Una volta ho potuto anche vedere da vicino Putin. Certo non era sempre così, di solito non vedevi molto, eri in missione mica in gita, ma comunque la seratina o l’uscitina al localino ci scappavano sempre. Io ero approdato all’organizzazione quasi per caso, per vie traverse e in definitiva fortuite, conoscenze di conoscenze, ma non mi era dispiaciuto e avevo deciso di rimanerci. Ma ho già detto troppo. (…)





Giudizi


«È un racconto che suscita una aspettativa ad ogni riga. Mai ripetitivo, rispetta i canoni della scrittura creativa: sintesi, ritmo, aspettativa, sorpresa, ampio vocabolario. Credibile in quanto reale negli eventi e nelle prospettive. Soggetto interessante e intrigante.» (Angelo Leva)

«Un agente segreto a cavallo tra Mr. Bean e l’ispettore Coliandro. Potrebbe aprire la strada a una serialità.» (Francesco Di Sibio)

«Scorrevole e godibile, si ha l'impressione che non ci sia una parola di troppo nella narrazione. La storia è avvincente e ilare, intelligenti i suoi risvolti e, dunque, anche le sue intenzioni. È una scrittura che ha stile ma non desidera ostentarlo.» (Lucia Grassiccia)

«Godibile e originale, riesce a catturare fino alla fine, grazie al clima di attesa e di suspance “rallentata” al limite del grottesco (tecniche dosate e ben calibrate in tutto il racconto).» (Maria Pina Ciancio)





Paradiso facile di Daniele Rublev Elmo (Torino)


Daniele Rublev Elmo nasce a Castellamonte il 26/12/1977 da due professori di lettere. Si appassiona in età giovanile a mitologia psicologia e filosofia seguendo le orme e i consigli del padre filosofo-scrittore-pittore e maestro di yoga. A queste passioni si aggiunge subito quella della musica che lo porterà a suonare (come bassista) in molti locali del torinese e in Italia col gruppo L’Inferno di Orfeo. Padre di due bambini nati nel 2008 e 2012 prosegue lo studio delle proprie passioni alla ricerca di una “vita altrove”. 

Mio zio Lucio mi descrisse il suo paradiso, il Paradiso facile.

Mi diede una serie di istruzioni per utilizzare la sua vasca magica e raggiungere questo posto e quanto segue è ciò che vidi all’inizio del mio viaggio.



L'incontro e l'amore folle



E quindi ancora sul corso di Taormina.

Mi perdo tra le maioliche e le ceramiche. I loro grappoli di malvasia sono tanto gravidi da sentirne l’afrore che si mischia con l’aria di mare, con gli spaghetti ai ricci, con le bouganville dei balconi dei tanti signori del posto. L’immancabile trinacria in tutte le sue versioni. Semplice d’argilla, colorata o antropomorfizzata. Lo sguardo è sempre sornione, di chi sta bene e la sa lunga o forse di chi ha mangiato sì bene, ma decisamente troppo.

Ci sono altre persone insieme a me.

In questa passeggiata per il corso, si possono fare incontri molto particolari oltre a quelli che normalmente ci si aspetterebbe, s’intende. Un continuo brusio di sottofondo portato forse dalle sagome confuse che, come meteore spaziali, riempiono il Paradiso Facile di presenze e suoni confusi. Queste sono le anime che vagano per questa dimensione per giungere là dove consumeranno l’ultima ombra d’identità che gli appartiene, il cimitero delle anime o la rampa di lancio per un percorso di reincarnazione, se possibile – anche se ci credo meno, ma qui pare che se te lo puoi immaginare… – ma l’importante è capire che questa è una cornice che qui è presente ovunque, queste scie contengono sì altre persone ma non si fermeranno e non mi parleranno, stanno andando altrove, anime di passaggio.

Ci sono invece altri che, come me, hanno per un motivo o per l’altro, Taormina come sede della deriva del loro io, come base di partenza del loro caleidoscopico e iperbolico ultimo sogno.

Mi rendo conto che, aver a che fare col prossimo qui, vuole dire avere a che fare non solo con persone felici e serene che ritornano in un posto a loro caro, ma anche con altre meno gioiose in un’estasi quasi carnevalesca se non da tragedia greca.

Mi trovo a ripercorrere i luoghi belli della mia vita ma incontrando solo gente che si ritrova a giocarsi le sue ultime sinapsi in questo posto, nel proprio paradiso, il più delle volte, ma anche purgatorio o inferno a seconda dei casi. Improvvisamente vedo un uomo che passeggia non a piedi ma in groppa ad un elefante seguito da un orda folle e festosa con un altro individuo che inveisce con forza a tutto il mio quadretto. Manda maledizioni, sputa e bestemmia, fino a che una scia scende e lo divora; forse comincio a riconoscerli questi Elementi fagocitatori delle ultime volontà umane. Questo è il fascio della Rabbia, se esiste, in ogni caso è sempre quello che si porta via gli oltraggiosi, i violenti e i derelitti che sfogano le loro pene con invettive piuttosto che con apologie. È rosso, si intravedono le scaglie della sua pelle sinuosa che, della freddezza dei rettili, non pare aver nulla; questo è più un fuoco, ma lascia lunghe bave appiccicose da cui è impossibile liberarsi, almeno fino a che questo mostro da libro fantasy non svanisce e con lui il suo tremendo furore viscoso.  Ma la parola tremendo, pur ben rispecchiando la tensione emotiva che umanamente sarebbe più naturale provare al loro cospetto, non basta perché questa visione provoca meraviglia e a volte anche giubilo; le parole sono sempre troppo umane ed i pensieri quasi mai e non solo in questo posto.

Come il corpo si decompone negli elementi essenziali, allo stesso modo fa l’anima. (…)





Giudizi


«Una prosa dallo stile onirico e dai connotati poetici guida il lettore nel viaggio verso il Paradiso facile, un luogo (più luoghi in verità) che l'autore raggiunge mediante un tragitto dal profumo dantesco grazie ai consigli di un personale Virgilio: lo zio Lucio. Dall'incontro con una donna ai toccanti momenti condivisi con i genitori, dai luoghi di mare alle serpeggianti catene montuose dell'anima, il tutto condito da un'ispirazione pura e da postulati a dir poco affascinanti: “se mai esistesse una verità, non potrebbe che nascere da una finzione”. Decisamente efficace anche la scelta di arricchire la narrazione con degli autentici capolavori della musica, dai brani dei Motorpsycho a quelli dei Pink Floyd. (Marco Fratta)

«Che senso ha amare se poi non puoi soffrire? Questa frase già in sé per me ha un interessante valore, ma il modo in cui viene posta all'interno del racconto la rende fondamentale. Ci sono storie che colpiscono o possono colpire per innumerevoli ragioni. Tra l'altro in Paradiso Facile ce ne sarebbero di caratteristiche: L'atmosfera onirica, gli incontri familiari eppure sorprendenti, i viaggi da un luogo all'altro dell'anima eppure sempre a Taormina!, i risvolti interiori, inconsci, spirituali, la filosofia che trova spazio nella mente di una ragazzina durante le lezioni di danza... A me hanno colpito piccoli dettagli come la frase che ho citato. Forse mi scopro, e non lo sapevo, amante di certi discorsi intorno all'amore, trovo nelle parole che seguono uno struggimento degno di nota: lì dove riesco a trovarti che ci si baci o che ci si ammazzi non riesco a non farmi rapire voluttuosamente dal tuo pensiero... Così come ho trovato struggente il capitolo intitolato La Mamma. Complimenti.» (Massimiliano Bardotti)

«Per questo passaggio: Che senso ha amare se poi non puoi soffrire? Mi ha sempre dato fastidio vedere come le persone si adoperano per scansare il dolore, come se non fosse figlio di tanto piacere. Io, invece, non aspettavo altro che crogiolarmi nel delirio del nostro amore, del nostro dolore e del nostro piacere.» (Nino Di Paolo)

«Paradiso Facile è sognante e reale al tempo stesso, una narrazione dotata di gambe su cui sostenersi, che porta con sé il lettore senza costrizioni. Sa raccontare scene molto specifiche ma anche sentimenti comuni, schivando la retorica. I frammenti si intrecciano tra loro armonicamente.» (Lucia Grassiccia)





opera 2^ classificata



Centro Astalli di Giacomo Ruggeri (Pordenone)
 



Giacomo Ruggeri (1969). È stato ordinato sacerdote diocesano nel 1994 a Fano, dove ha svolto a lungo il ministero di parroco, occupandosi anche di comunicazione. Da alcuni anni è impegnato nell’approfondimento di tematiche formative in ambito pastorale (per laici, sacerdoti, religiose), con particolare attenzione alla pedagogia degli Esercizi spirituali secondo il metodo di sant’Ignazio di Loyola.


«Non siamo dei santi». Appunti di un rifugiato per un rifugiato




Premessa



Quando inizi un viaggio, hai ben chiara la meta che vuoi raggiungere. Non parti tanto per viaggiare, senza una destinazione cui approdare. Così è lo spirito che anima questo libro: non scrivo tanto per scrivere, ma perché io stesso mi sono ritrovato a vivere in un lungo corridoio sotterraneo denominato "Centro Astalli". La meta è raggiungere sempre più in profondità la trasparenza e la verità della coscienza, dell'animo. In questo percorso incontri la persona – l'uomo, la donna – all'interno di stanze, ambienti, luoghi che non sono mai quello che in apparenza sembrano. Persone e luoghi ti rimandano sempre oltre, altrove, più in là rispetto a dove avevi deciso di fermarti.

Questo libro non è un viaggio che spiega che cosa sia o non sia il Centro Astalli, a Roma. Non è un sussidio informativo sulle attività che il Centro svolge. Piuttosto, è un diario, con l'unico desiderio di bussare alla porta del Centro così come fanno tante persone ogni giorno: rifugiati, richiedenti asilo politico.  Bussare alla porta, attendere il mio turno, ricevere una carta gialla e azzurra, scendere le scale, ricevere un bicchierino da caffè con dentro il sapone per la doccia, caricare il mio vassoio con il pasto quotidiano, prendere le medicine per curarmi, parlare con chi mi può aiutare per il permesso di soggiorno, la carta di identità, il codice fiscale, un corso per imparare la lingua italiana…

Nelle pagine che seguono cerco di annotare quale tipo di grammatica sia alla base del linguaggio usato, e quale “lingua” – che non ha bisogno di traduzioni – venga parlata al Centro Astalli. È la lingua della dignità. Quando bussi al portone verde scuro del Centro entri in un anagramma: secondo il dizionario italiano, l’anagramma è il risultato della permutazione delle lettere di una o più parole compiuta in modo tale da creare altre parole o frasi di senso compiuto.

Ci vuole umiltà per bussare al portone verde del Centro, entrarvi e camminarvi in silenzio e con occhio attento, non curioso. È la frequentazione di una persona che mette in moto il cambiamento, in un luogo che innesca il passo nuovo della conversione. È la frequentazione di una lingua, e di chi la parla, che fa sentire meno isolati e muti verso l'altro. Per entrare al Centro Astalli non è sufficiente passare per il portone verde scuro: è necessario penetrare nel suo anagramma, lettera dopo lettera.

Per sei mesi ho servito in cucina al fianco del cuoco pieno di tatuaggi; ho tagliato polli, cucinato riso, scrostato tegami, lavato pavimenti con il sale grosso. La mia anima è stata tatuata dalla dignità di queste persone, per sempre. Ecco perché parlo di loro. E fa bene all’anima.



n. 18

Sono i gradini che mi trovo a scendere – e a salire – al Centro Astalli. Ad una lettura in superficie, mi appaiono come un mezzo per raggiungere una stanza, un luogo. Comprendo che cosa invece siano realmente quando li consumo, li vivo, li sento: a volte più pesanti, altre volte più leggeri. Mi parlano se non sono sordo, mi accolgono se non scappo, mi guariscono nelle mie ferite se non le nascondo. I 18 gradini del Centro Astalli sono vissuti, ogni giorno, da tante persone che hanno fame, sete, paura, rabbia, rassegnazione, stupore, delusione, pazienza. Scendono quei gradini con tanta fame nello stomaco da riempire: uno stomaco vuoto, ma ancora più vuoto è il senso di solitudine ed emarginazione dal quale ogni giorno devono difendersi. Risalgono quei 18 gradini con lo stomaco pieno, almeno per un giorno, ma con l'attesa di un dopo e di un domani che non sai che cosa riserverà. Nessun gradino è anonimo: ha un nome ben preciso. (…)



Giudizi


«Fragilità, debolezza, contraddizioni, ma soprattutto grande ascolto e umanità arricchiscono questi appunti in prosa di un rifugiato. Di chi parte lasciandosi tutto alle sue spalle, in cerca di un aiuto, un "rifugio" in un paese straniero, che letteralmente vuol dire riparo, ricovero, asilo, protezione, ma anche pace, serenità, difesa. Sono parole a cui l'autore ne aggiunge altre, come ascolto, abbraccio, libertà, dignità. E riconoscimento. Ed è ciò che emerge dalle tracce di questi appunti, nel descrivere l'impegno e l’umanità del Centro Astalli per rifugiati di Roma, che dal 2000 ha l’obiettivo di promuovere una cultura dell’accoglienza e della solidarietà, a partire dalla tutela dei diritti umani.» (Maria Pina Ciancio)

«Mi ha colpito fin dalla prima riga. Scrittura sobria, essenziale e drammaticamente incisiva. Sono stato catapultato nel Centro Astalli immediatamente, pur ignorando cosa fosse. E il primo termine che ho sentito gridare più forte dentro di me, fra i vari importanti usati, è stato: dignità. Chi ha scritto questo racconto ne trabocca e mi inchino umilmente di fronte a tale prova letteraria ma soprattutto al contenuto umano e spirituale. Credo sia una lettura importante che mi sento di consigliare a chiunque. Mi ha costretto continuamente a un rigoroso esame di coscienza. Una delle parole con le quali si chiude questo lavoro è: gratitudine. È con gratitudine che mi rivolgo a chi ha scritto questo testo, lo reputo davvero un ottimo lavoro.» (Massimiliano Bardotti)

«È un racconto che sembra un resoconto giornalistico da reportage. Ma descrivendo la realtα ne porta la forza della verità e innesca nei ricordi del lettore un'assonanza con vere esperienze personali in un momento, questo, dove il tema dei migranti ci colpisce nel profondo per i significati e i carichi di umanità. (Angelo Leva)

«L'approccio è diaristico e a tratti racconto e riflessioni saggistico-filosofiche si compenetrano. L'attualità del tema, la delicata concretezza con cui questo è affrontato, ne fanno a mio avviso una lettura da consigliare. Il rischio è che a momenti possa apparire buonista nei contenuti.» (Lucia Grassiccia)





opera 3^ classificata



Scene mute: descrizioni e induzioni di Simone Mazza (Parma)




Simone Mazza è nato e vive a Parma; coniugato, con due figli. Insegnante, esperto di ITC, provider di servizi web, formatore, la scrittura è la sua grande passione. Dal 2006 a oggi ha pubblicato cinque ebook di didattica, quattro raccolte di racconti (una per Fara) e altri suoi racconti sono presenti in sei antologie.





PORTOS, OVVERO DELLA NOSTALGIA



Sembrava un moschettiere in pensione. Fondamentali, un antico taglio lungo alla paggetto e baffi, naturalmente.

Ma l’occhio, all’inverso, era prima di ogni cosa colpito dai piedi, piccoli e tracagnotti, con dita ben tornite e a rincalzare la pianta, come se vi cercassero un riparo; infilati poi in sandali di sughero con una banda verde, ingiustificabili, se non fosse stato per il gran caldo.

Però la canicola non impediva al nostro di consumare un piatto di cannelloni fumanti, con la calma e la circospezione di uno stagionato epicureo (ma che preferisce comunque il barbecue di casa propria).

A salire, due gambe corte, leggermente da fantino, sostenevano una pancia che un tempo doveva essere d’atleta. Il tono degli abiti era dimesso e blu. La maglietta popolare ma pulita.

Un po’ di peluria, sul petto, si faceva largo attraverso i discreti varchi della t-shirt. Sulle spalle si appoggiava subito il mento, perché il collo pareva quasi inesistente, a dire la verità.

E finalmente il viso, meraviglioso. Un Portos di sessant’anni passati da poco. La bocca piccola, che intanto ruminava (e mai trangugiava, perché ci dev’essere dignità anche nella soddisfazione degli istinti primari), era di quelle che parlava poco e preferibilmente a bassa voce, ma sempre per dire cose che valeva la pena ascoltare. Difficile il sorriso, come di chi deve mostrare di aver vissuto tali esperienze che ormai pare impossibile sorprendersi. Ma, per amicizia, quello sì, tutta la testa poteva annuire lentamente, posatamente, se un commensale chiedeva la sua attenzione ad un aneddoto fuori programma; o l’opinione su una diatriba di paese, come ad un Mosè di seconda categoria.

I baffetti, non “di primo pelo”, aiutavano la bocca a curvarsi in un disegno, se non triste, diciamo serioso. Chi ha vissuto deve mostrare un po’ di disincanto, che diamine! Anche le ampie gote, assecondate dalla gravità, ispiravano la giusta rassegnazione, ma al tempo stesso ammonivano che, in mezzo a tante battaglie, Portos se l’era goduta, la vita. E infatti, in quel momento, non disdegnava la bistecca. Se la gustava anche per posa, a dire il vero, giacché il locale l’aveva scelto lui: il silenzio d’oro di chi esprime retti giudizi, quella parvenza di filosofo del borgo, di Trimalcione dei poveri, in certi contesti, ce la si può permettere solo dopo il teatrino dell’ospite privilegiato che saluta il proprietario e ottiene (per finta) il tavolo migliore. Erano le guance, un po' da criceto, a raccontare tutto questo. E gli occhi.

Gli occhi, minuscoli, tondi e grigi, avrebbero anche ispirato una vaga idea di arguzia, di fiera resistenza (ancorché non troppo ribelle) alla vecchiaia. Ma erano circondati, ahimè, dalle due più incipienti occhiaia mai viste. Quei due sacchi di mangime, quelle due altalene per bambole, quei due cuscini abusati, sembravano fare a gara con le guance a chi trasformava per prime la faccia in un grosso culo. Va bene aver vissuto, Portos, ma perdio! cosa ci vuoi dire? Che postura dobbiamo assumere? qual è il protocollo? il rito? Di fronte a quelle due palpebre branchiali, a quei due clamidi, a quelle estroflessioni che i polli hanno sotto il becco e tu sopra, cosa possiamo effettivamente dire? Quali verità ci nascondi, dentro? Non hai ancora svelato tutti i misteri, Portos, tutti i duelli, le conquiste, le fatiche che ti hanno portato ad essere ciò che sei, a permetterti di salutare l’oste come un complice d’alcova o di discettare sul tempo atmosferico come un augure! (…)



Giudizi


«Per la vastità di osservazione dell'interiorità delle persone, la limpidezza della lingua e la sintetica espressione delle immagini.» (Nino Di Paolo)

«Un elegante ma severo collage di personaggi dai risvolti loschi, ambigui e subdoli. L'autore offre un'interessante retrospettiva dell'animo umano e nel farlo, consapevolmente, sceglie individui di tutti giorni, nei quali ciascuno di noi si è sicuramente imbattuto nel corso della vita. Ne emergono ritratti infelici sui quali, però, è doveroso fermarsi a riflettere. Voto positivo anche per la prosa scorrevole: il ritmo di lettura è straordinariamente coerente con le storie raccontate, un'abilità non facile da maturare.» (Marco Fratta)

«Non tutti i brevissimi racconti sono degni di nota: aspetto una spiegazione sulla fobia narrata ne I piedi lunghi. Full di donne, invece, incita un ignorante di poker come me a studiarlo.» (Francesco Di Sibio)





opera 4^ classificata



La minaccia di William Protti (Santarcangelo, RN)



William Protti, nato nel 1965 a San Marino, vive a Santarcangelo di Romagna. Appassionato di fumetti, ha ideato innumerevoli strisce e tavole a livello locale; ha disegnato la copertina di Poesie in soffitta e l’illustrazione a corredo del racconto conclusivo de Le Favole dello zio Oliviero (Ed. La Sfera Celeste, Riccione). Sua la traduzione visiva di Filastrocche piccole così (Danilo Montanari Editore, Ravenna). Il suo impegno in ambito culturale e artistico lo ha portato a collaborare all’impaginazione di alcuni libri, tra cui spicca Terre Splendenti - La Via Crucis di Giulio Liverani (Ed. Il Ponte, Rimini). Nel 2015, con il racconto Un giorno di follia, lasciato a stagionare per ben trentaquattro anni in un cassetto, si è classificato quarto ex aequo nel concorso Rapida.mente inserito da Fara Editore nell’omonimo volume.





Era un paesino del quale s’è perso ormai il ricordo, adagiato ai piedi di un colle, in una qualche vallata remota della Francia.

Quel giorno l’aria era calda ma tutto sommato sopportabile; neanche una nube oscurava il cielo e una sottile brezza, insinuandosi a cicli regolari fra le querce, le accarezzava, accompagnando così l’interminabile cantilenare delle cicale.

La piccola Geneviève, incurante di quanto le accadeva all’intorno, si trastullava con una bambola di pezza, mentre se ne stava seduta sul retro del carretto del babbo. Canticchiava un motivetto allegro insegnatole dalla nonna Clara e, agitando su e giù le gambe oltre il bordo del mezzo, ne scandiva il ritmo.

Ogni qualvolta che le ruote incontravano un grosso sasso o una buca, il carro sobbalzava e la piccola, esile come un fuscello, rischiava di volare per aria e ruzzolare a terra, lungo il sentiero, che, simile a un fiumiciattolo bianco, si snodava fra i colori rigogliosi della campagna.

Giunti che furono nei pressi di una fonte, papà Antoine fermò i buoi; sceso dal carro, prese quindi la figlia fra le sue robuste e sicure braccia di contadino e la pose a terra.

«Siamo ormai arrivati» le disse, «ma è meglio fare una breve sosta per dissetarci e riposare un poco, le bestie e noi. Sgranchisciti pure le gambe, ma non ti allontanare troppo» si raccomandò, quindi si sedette sull’erba e, asciugatosi il sudore, bagnò il fazzoletto nell’acqua trasparente, lo strizzò e se lo passò prima sulla fronte e poi sulle guance e sul collo.

Geneviève intanto inseguiva con lo sguardo e con le sue manine piccole e tozze le farfalle dalle ali rossicce che danzavano sui fiori di campo.

A un certo punto scoppiò a piangere.

«Ah, sciocchina! Per badare alle farfalle non ti sei accorta d’aver posato le mani sull’ortica. Non ti preoccupare: vieni qua, vedrai che tra poco il bruciore passa» le disse Antoine, e intanto con una mano le accarezzava i lunghi capelli biondi raccolti in trecce, mentre con l’altra le sfiorava le dita con il fazzoletto inumidito.

La piccola si distrasse e rimase incantata nell’osservare quelle mani tanto enormi rispetto alle sue. Per completare l’opera e strapparle un sorriso, Antoine si mise a suonare un’antica ballata popolare con la sua fedele armonica.

Trascorse così una mezz’oretta; stavano per rimettersi in viaggio quando udirono un lamento agghiacciante.

Antoine si portò di scatto verso il sentiero e scorse il suo vicino André con le mani appoggiate dietro la nuca, intento a rimirare, incredulo, con gli occhi che gli parevano schizzare fuori dalle orbite, il suo toro, stramazzato improvvisamente al suolo.

«Che cosa è successo, André?» chiese Antoine.

«Lo sa il cielo!» rispose quello, non riuscendo a capacitarsi dell’improvvisa morte della bestia.

«Chissà, forse questo caldo...» replicò Antoine.

«Non è possibile: era un animale sanissimo, robusto come pochi... no, no, non è possibile! Sto sognando!» insistette André.

«Non resta che chiamare il veterinario: lui saprà certo trovare una spiegazione» disse Antoine. (…)





Giudizi


«Una metafora delle nostre paure, quanto mai attuale. Lo schema classico del racconto aiuta la lettura.» (Francesco Di Sibio)

«Una domanda che non si riesce a fare, una domanda che fa tremare la voce. E una risposta: Il male esiste, figliolo, com’è vero che esiste il mondo… E a rispondere è un prete… Della storia non rivelo altro, è tutta da leggere! Grande prova di scrittura, a mio modestissimo avviso. Avvincente, scritto in maniera impeccabile. Mi ha molto coinvolto fino alla fine, non ha mai cadute di ritmo né di tensione. Si rimane sempre avvolti in un fitto mistero e non si può non sentirsi minacciati. E il finale, il finale è un piccolo capolavoro, secondo me, e dà un importante significato all'opera. Riuscitissimo racconto.» (Massimiliano Bardotti)





opera 5^ classificata



Tetra di Lorenzo Piscopiello (Pesaro)




Lorenzo Piscopiello (foto Mirko Pucci) è nato a Pesaro nel 1975. Attualmente divide la sua vita tra famiglia (una moglie e due figli), lavoro (architetto) e una serie di attività amatoriali che spaziano dalla musica alla scrittura, dal fumetto al teatro e altro ancora. Non sarebbe male se le passioni diventassero prima o poi il vero lavoro: forse un giorno, su Marte...




NEL BOSCO

Giulia è sparita nel bosco.
Ieri era qui, con me, e oggi è morta.
Nel bosco.
Dio è misericordia infinita, è bontà infinita, e forse è per questo che non capisco la sua misericordia, la sua bontà… perché io sono finito e non posso concepire i meccanismi dell’infinito.
Giulia.
Le strade del Signore sono innumerevoli, ma quella dell’uomo rimane una, e così si soffre.
E non si comprende… ma si accetta.
Io ero la tua strada, Giulia, la strada che passava tra i ruderi di una famiglia distrutta e le nebbie di un futuro incerto.
Ed io riuscii a portarti lontano da quelle paludi di una solitudine mai affrontata e dai temporali di una paura immensa.
O almeno lo credetti.
Infatti, col tempo, un secondo sentiero si staccò dal mio, da me, e tu rimanesti incerta sulla direzione in cui proseguire.
E decidesti.
Ti vidi allontanarti sempre più, sprofondare in quell’abisso di ipocrisie, di felicità illusoria, di gioia chimica.
Poi ti vidi tentare di ritornare a me, ma ormai il baratro in cui eri finita andava oltre il mio braccio teso verso di te, e così ti vidi perderti, osservavo la strada che stavi percorrendo sciogliersi attorno ai tuoi piedi, alla tua anima.
E così rimanesti sola.
Nel bosco.
E oggi sei morta. Morta di solitudine, di rimpianti, di dolori soffocati e mai battuti.
Di me, impotente a guardarti mentre morivi.
Sono stato la tua incerta strada, lo sghembo percorso della tua vita, della tua morte.
Sarei dovuto essere più forte, più deciso.
Non saremmo giunti a questo punto. Non sarei giunto a questo punto.
Perché come lo fui io, anche tu eri strada, la strada che io percorrevo.
E adesso mi ritrovo perso, senza nessun sentiero, senza una strada battuta.
Nel bosco.
Come lo sei stata tu.
E il bosco fa paura, e so di non essere così forte da poterlo affrontare. Tu hai sperato di trovare un alleato di battaglia nelle tue droghe, ma mi hai insegnato che queste non bastano. Con la tua vita me lo hai insegnato.
E allora penso che il piombo sia la soluzione migliore…
E sono sicuro che da qualche parte ritroverò un sentiero che porta il tuo nome. (…)




Giudizi


«È un racconto denso, da meditazione, sembra la poesia in prosa di Cesare Pavese. La scansione in quarti fa eco alla metrica in quartine delle poesie e alla tetraggine del buio e della morte, filo conduttore avvincente per i legami che rivela. Da rileggere più volte, sembra quasi un progetto ingegneristico che svela una nuova abilità, prima nascosta, ad ogni ripasso.» (Angelo Leva)

«Una raccolta di eventi scanditi dai versi di una poesia: nel bosco / appena in tempo / stella cadente / di notte. Un esperimento che risulta senza dubbio originale, attraverso il quale l'autore non ostenta l'espressività del flusso di coscienza ma, per fortuna del lettore, si limita a carezzare ed esternare con genuinità le sensazioni che lo travolgono. Per quanto le esperienze narrate siano del tutto slegate tra loro, un filo rosso di inquietudini sfiora tematiche di pari delicatezza: la morte, l'abbandono, la tristezza e la scoperta della propria malattia letale. Forse acerbo nella forma, ma sicuramente adeguato nel binomio stile-emozioni.» (Marco Fratta)





opera 6^ classificata



Avvento di Alessandro Chiarini (Molinetto di Mazzano, BS)



Alessandro Chiarini, bresciano, classe 1978. Coniugato, con figli, libero professionista, 173 cm, numericamente molti meno i chilogrammi... Segni particolari: nessuno. Interpellato dalla scrittura, in particolare modo da quella sacra, con la scrittura ad essa risponde. Un azzardo necessario in primis per sé. Quanto raccolto in queste pagine trova spazio anche on-line, in Facebook alla voce il pane della domenica. Un azzardo che spinge al confronto quindi, perché la domanda: “Adamo, dove sei?” non resti senza risposta.



In principio



In quel tempo, a Betlemme, l'amministrazione neoeletta non aveva ancora approntato il piano di illuminazione pubblica, un buio oleoso e assoluto invischiava la terra da sera a mattina.

Conoscevano bene quel buio i pastori, il nero vestiva a perfezione certe loro non proprio limpide azioni.

Al buio là fuori si sommava per Maria la percezione di un buio interiore, a intermittenza, nero assoluto in corrispondenza di ogni contrazione e a seguire una breve pausa di luce, fioca debole, il tempo del respiro e poi una nuova spinta.

Non da meno Giuseppe, inquieto e irritato, misurava tutta la sua inutilità con passi nervosi e lo sguardo fisso sul niente, un niente nero perfettamente indifferente.

E fu in quella notte che venne alla luce la luce.

LUCE urlò Dio in faccia all'abisso e la parola fu così potente che si ruppe il buio, si aprirono le acque e subito ne uscì un bimbo -Cristo- che segnò il principio.





Molti anni dopo



Cristo ho la netta sensazione che tu sia passato, bussando all'ingresso della mia abitazione, senza che alcuno dalla casa si sia affacciato.

Ero via o ero troppo impegnato, il lavoro, la scuola, il centro giovanile, sono sopraffatto.

Hai forse lasciato un biglietto? Sai, Bartolini lascia sempre l'avviso con scritto: "effettuato un tentativo di consegna". Io poi chiamo e mi accordo.

Potresti prendere esempio, passi e non mi trovi, lasci un biglietto, io ti chiamo e fissiamo un appuntamento, funziona così.

Ricorda: via Marconi 17 in quel di Mazzano, ti aspetto.

A presto, con stima ed affetto, Marco.





Qualche giorno dopo



Bzz, suona il citofono. Io: «Chi è?»

Dall'altra parte:«Sono Giovanni dalla Palestina».

Io:« No, non serve niente, grazie, ciao».

Bzz, il suono del citofono ancora una volta. Io: «Chi è? »

Si sente: « Sono Giovanni, il figlio di Elisabetta, il precursore.

Voce che gracchia al citofono e annuncia il Signore».

Io:« No scusa, sono preso, non ho tempo, ripassa in un altro momento».

Bzz. Bzzzzz.

Io esasperato:« Basta! Chi sei e che vuoi? Sappi che sono cattolico, frequento. Vero, non sempre, ma tutto sommato frequento. Conosco la storia di Gesù, ricordo ancora i comandamenti!»

Lui:«È fra voi. È fra voi. Ma chi lo riconosce? Chi si converte? Da tempo percorro le strade al di qua del Giordano, ma temo a volte di camminare invano».

Ciò detto se ne andò mesto. (…)





Giudizio


«Perché è sempre un bell'azzardo riaggiornare quei fatti.» (Nino Di Paolo)






Fara Editore

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