Classifica Racconti Rapida.mente
1. classificato
Tutti bambini e altri racconti
di Adalgisa Zanotto
(Marostica, VI)
[Adalgisa Zanotto è nata a
Bassano del Grappa (VI), vive a Marostica (VI). È coniugata e madre di tre figli. Lavora presso un Ente Pubblico.
Collabora con gruppi di scrittura creativa e laboratori di poesia. È attiva in
associazioni impegnate nel volontariato sociale. La passione per la scrittura
l’accompagna da sempre, “scompagina la sua vita, fa crescere la sua libertà,
allunga i passi del suo cuore”. Da alcuni anni partecipa a concorsi letterari
ed ha ricevuto vari riconoscimenti e molteplici segnalazioni. Nelle sue prose e
poesie, inserite in diverse antologie, risaltano sentimenti, emozioni, attese,
esperienze di donna, madre, lavoratrice, persona che ama la vita.]
- Basta. Ferma.
Stai allagando tutto. Al solito fradicia e felice.
Si gira. Mi
guarda con tenerezza. Mi confonde.
- Come hai fatto
inginocchiarti? Non vedi che il
bidet tracima. Forza, usciamo. Bisogna cambiarsi.
- Bagno. Bambina.
- Prendi questo
asciugamano, è soffice.
Le sue mani forti
e grandi carezzano delicatamente la bambola spoglia. Qualcosa mi stringe
dentro. Un dolore roccioso frana nello stomaco. Accetterei tutto, ma stare con
lei senza poter essere riconosciuta è atroce. C’è stato un lungo periodo in cui
non ci parlavamo. Non avevamo niente da dirci ed essere madre e figlia era
scomodo per entrambe. Ora ci parliamo senza capirci.
- Acqua. Bambina.
- Sì mamma, con
le mani in acqua ti senti regina, vero?
- Regina. Acqua.
- Ti ricordi
quando mi facevi il bagno nella bacinella blu? Mi dicevi “basta, è ora di
uscire”. Invece continuavi a giocare con l’acqua e la mia pelle e ti divertivi
più di me. Non ti lamentavi neanche di dover risciacquare il bucato nella
roggia dietro casa. Mi pare ancora di vedere il lavello in pietra, sul ciglio
della Moranda. T’inginocchiavi. Ti curvavi a immergere il bucato. Sembrava un
inchino all’acqua che scorreva.
- Inchino. Acqua.
- Poi strizzavi
cantando. Anche d’inverno. Le tue mani rientravano violacee e intirizzite.
Affamate di tepore andavano incontro al tubo della stufa. Ero là al calduccio
quando ti ho chiesto perché l’acqua scorreva dietro la Bruna.
- Bruna. Acqua.
- Avevo sentito
dal nonno che stava per nascere un vitellino. Ho finto di allontanarmi. Poi
sono tornata a sbirciare nella fessura della porta della stalla. Ho visto solo
tutta quell’acqua, tanta, uscire dietro la vacca Bruna. Il nonno è uscito
improvvisamente in cerca di una corda. Mi ha scoperto e si è arrabbiato. Con il
bacio della buonanotte mi hai semplicemente sussurrato: “È l’acqua che fa
nascere il vitellino.”
- Vitellino.
Acqua.
- Mamma, non te
l’ho mai detto che quella notte, quando sei partita in fretta con papà
bisbigliando “ora dormi, fra poco arriva la nonna; domani troverai una
sorpresa”, mi sono alzata subito per andare nel lettone. Ho trovato le lenzuola
bagnate. Anche il pavimento era bagnato. Non capivo come l’acqua avesse potuto
scorrere fino alla camera e salire sul letto. Stando rannicchiata al cuscino di
papà a un certo punto, limpida, come sorgiva, una certezza: quell’acqua portava
il fratellino. E così è stato. È nato Giuseppe.
- Giuseppe.
Acqua.
- Mamma, ti
voglio bene. Sei sacra. Che strano, ora che tutto mi costa, che tutto è
sacrificio, ogni tua parola è goccia preziosa.
- Goccia. Acqua.
- Aspetta. Guarda
questo foglietto, era nella tua giacca invernale. Li conosci questi versi?
Goccia
Come
si chiama il giorno quando non ci sono
Chi
sono quando guardo il presente dal passato
Riconosco
l’istante miracoloso del presente
Prigioniera
del tempo
Ho
bisogno di una goccia ogni giorno
La
cercherò, piano, nella vita attorno
Sono
acqua che scorre. Irraggiungibile
(…)
Giudizi
Mi piacciono questi racconti; in poche righe riescono a condensare stati d’animo e sfide, piccole e grandi, che arrivano quando meno te lo aspetti e mettono alla prova quello che sei, le persone che hai intorno e quelle che hai avuto intorno. Ciò che ti ha formato e ciò che hai imparato. Piccole sfide che assomigliano agli esami finali dove ti trovi di fronte alle nozioni che hai imparato o che avresti dovuto imparare nell’anno appena trascorso. (Stefano Martello) Un botta e risposta particolare per raccontare una storia tra affetto e evocazione grazie a una scrittura piacevolmente sincopata. (Stefano Gorla)
Un'intelligente indagine sui sentimenti, che alterna punti di vista differenti nella ricerca di un comune punto di contatto. (Alessandro Zaccuri)
Secondo classificato
Il guaio dell'Africa
di Andrea Mauri (Roma)
Prendo la strada del mercato. Non so dove
andare. Almeno in quella piazza c’è tanta gente e non mi sento solo. Quando ci venivo con la mamma, lei aveva sempre paura che mi perdessi.
Mi prendeva per mano e io mi lasciavo trascinare. Facevo il peso morto. Lei mi
strattonava e io le facevo i dispetti. Mi divertivo un mondo. Lei faticava, mi
sgridava e io mi lasciavo trascinare su quella strada polverosa.
Oggi è arrivato un acquazzone. La polvere
del mercato si è trasformata in fango. Scivolo sulla terra bagnata. I piedi
nudi vanno giù giù nella terra e perdo l’equilibrio. Con questi piedi sporchi
di fango la mamma non mi avrebbe fatto entrare in casa. Quando erano i giorni
in cui l’acqua arrivava al villaggio, facevo presto a pulirmi. Sennò passavo
parecchio tempo in quel piccolo prato vicino casa a strofinare i piedi. A dirla
tutta speravo che non ci fosse acqua nei rubinetti, perché il solletico dei
fili d’erba sotto i piedi mi faceva ridere. Oggi il fango me lo tengo. Non ho bisogno di pulirmi. Non
torno a casa e poi si asciugherà al sole.
Mi siedo vicino a una signora che vende pane
rotondo. Mi stanco presto a camminare da solo. Mi annoio. Gli altri fanno finta
di non vedermi. Questa signora, no. Si gira a guardarmi. Mi piace il suo
vestito blu. Mi sembra tutta colorata. Quel vestito è quasi uguale a quello che
portava la mamma. Toccavo sempre la stoffa quando lo metteva. Era morbida e
liscia. Era il suo preferito. Non se l’è tolto nemmeno quando stava male.
Rimaneva stesa sul pavimento tutto il giorno e diceva cose strane. La pregavo
di alzarsi perché in quel modo rovinava il vestito più bello. Ma non mi dava
retta.
Non ho capito che cosa le è successo. Deve
essersi ammalata di fatica. Non dormiva più per stare accanto a papà. Lui si è
ammalato prima di mamma. Lei lo ha aiutato tanto. Quando usciva per andare a
chiamare il dottore mi lasciava dai vicini. Tornava dopo due ore almeno. La
mamma e il dottore avevano delle facce tristi. Poi si è ammalata pure lei, dopo
qualche settimana. Quando la accarezzavo per farla stare meglio, si tirava
indietro. Mi respingeva. Piangevo tutte le notti, di nascosto. Non volevo farmi
sentire. Mamma e papà avevano già parecchi guai e mi avrebbero punito per non
essere grande abbastanza da non fare capricci. Però io ci soffrivo per non
poterli accarezzare. Ho sofferto tanto che non li ho più toccati. Il dottore
veniva a visitarli spesso. Rimaneva poco. Parlava con i vicini. Non riuscivo ad
ascoltarli. Ogni tanto nominavano una febbre molto pericolosa. La chiamavano il
guaio dell’Africa. Prima di andare via, il dottore mi guardava con gli occhi
tristi. In quei giorni rimanevo a casa. Guardavo il vestito blu della mamma e
non mi avvicinavo per accarezzarla. (…)
Giudizi
Tenero come
un bimbo. (Roberto
Battestini)
Non è solo
l'Africa vista da un bambino… sono i colori caldi dell'Africa, i suoi ritmi
naturali, i suoi silenzi pieni di sentimenti semplici e per questo fortissimi nella
loro umanità. Un'Africa nella sua più delicata intimità. (Stefania
Zanetti)
Terzi classificati ex aequo
Cerco Diogene
di Elena Varriale (Napoli)
Una
città vale l’altra, ma in questa sembra proprio esserci qualcosa che mi
respinge ed emargina, qualcosa che non può o non vuole accogliermi. Di certo,
c’è solo il fatto che non ho una casa, un amico o un posto dove andare. Cammino
senza méta, strisciando le suole delle mie scarpe rotte sui marciapiedi. Il
freddo pungente dell’asfalto risale lento ed inesorabile dai talloni fino alla
mia testa, gelandomi la schiena. Brrrr… il freddo! Un unico grande brivido che
mi attraversa e fa oscillare le ossa e i miei poveri muscoli intirizziti.
Dietro
ogni mio passo s’insinuano insidiosi il gelo, i fantasmi e i ricordi. Un tempo
ho avuto un’altra vita: dirigevo una piccola azienda, avevo una moglie giovane
e bella ed abitavo in un attico con vista mare. Poi è sopraggiunta la crisi
economica, mi sono indebitato a tal punto che le banche hanno rilevato e messo
all’asta tutte le mie proprietà. In un solo giorno ho perso tutto, compreso la
mia bella e poco devota moglie!
Da
allora, vivo per strada e non so più neanche chi sono e dove vado. Mi accompagna una sola
certezza: – Diooogeneee… io cerco Diogene!
Lui
cercava l’uomo, l’essenza dell’essere, lo scopo e il fine del vivere. Domande
su domande. Una montagna di domande nei pensieri e solo una collinetta di
risposte nel cuore. Quante volte, Diogene si sarà arreso innanzi al dubbio, al
dilemma, al non risolto? E quante volte, invece, avrà resistito, ceduto o
perduto il senso di realtà?
–
Diogeneeee… dove sei Diogeneee?
Devo
avere un aspetto terribile: non c’è passante che non si scosti da me
disgustato. Vorrei tranquillizzarli tutti: non scostatevi, non sono pericoloso,
né infettivo. Sono solo un invisibile, un out… Tranquilli, io non esisto. Sono
il nulla ed il nulla è il nulla. Non si teme e non si evita. Non si cerca e non
si trova. Ma esisterà davvero?
Brrr…
il freddo punge anche i miei pensieri. Penso a Diogene o parlo di me? In fondo,
saremmo una coppia perfetta. Due poveri pazzi alla ricerca dell’essenza umana!
Intorno
a me, non ci sono risposte, ma la solita folla indistinta di volti e di
sguardi. Chiunque di loro potrebbe essere Diogene. Forse, mi ha appena sfiorato
e preso dai miei sciocchi pensieri non me ne sono accorto.
–
Diogeneeeee? Sei Diogene? – ho gridato ad un passante infreddolito. Mi ha
guardato con pietà, poi ha fatto scivolare un biglietto di cinque euro nella
mia mano. Ho guardato i soldi e senza perdere tempo sono corso a comprarmi
del vino rosso.
Il vino è il
miglior antidoto al gelo della notte, nonché il mio più affidabile compagno
nelle spirali di domande che mi travolgono e stordiscono.
Sono
ormai tre anni che vivo per strada e mi piace sentire scorrere la vita al mio
fianco. E’ un magma caldo che scivola lungo i marciapiedi, un flutto
ondeggiante che si confonde nei rumori. La vita freme nei corpi, poi irrora la
strada col suo fiotto di aromi. Ah! Il profumo della vita! Peccato che nessuno
se ne accorga, che procedano tutti a passo spedito verso qualche direzione:
metrò, uffici, studi, negozi o scuole. (…)
Giudizio
Descrizione efficace di una solitudine senza domani. (Roberto Battestini)
Mens sana
di Giuseppe Perciabosco
(Palombara Sabina, RM)
A
mio padre
-
Non possiamo usare sempre quelli che arrivano da incidenti o i terminali -
disse Reclutatore. - Le caratteristiche sono troppo casuali e noi abbiamo
bisogno di soggetti selezionatissimi.
-
Abbiamo un piano, ora – replicò Selezionatore. - Una serie di individui con le
caratteristiche idonee, a cominciare dal livello intellettivo.
-
Speriamo che non si sfascino: sono così fragili!
-
Sì, sono fragili, ma in alcuni di loro il potenziale è elevato. Occorre solo un
po’ di tempo e tanta pazienza.
La prima volta avvenne sulla spiaggia, in
un’assolata mattina d’agosto mentre si avviava a casa dopo le consuete
chiacchiere da anziani fatte con gli amici di sempre sulle solite cose, la
politica che è sempre la stessa mentre i giovani non sono più quelli di una
volta e la salute anche lei, porca puttana! non è più quella di una volta.
Paolo, con il suo solito fare istrionico aveva completato il quadro commentando
che anche le loro mogli non erano più quelle di una volta! Il che, con una
risata, aveva sancito la fine della chiacchierata, richiamati verso casa per il
pranzo proprio da una delle signore.
Stavano ancora ridendo, quando Stefano si
fermò di colpo, lo sguardo fisso nel nulla, le labbra spalancate e un rigagnolo
di saliva che faceva capolino da un angolo della bocca.
Quando Paolo e Luigi si accorsero della cosa
erano già andati avanti di qualche metro.
- Che fai non vieni? – Chiese Luigi
rivolgendosi indietro all’amico.
Stefano era immobile, gli occhi ora
rovesciati all’indietro mostravano il bianco della cornea attraversata dalle
sottili venature dei capillari.
- Che hai? – Disse Luigi tornando indietro. –
Non ti senti bene? Paolo, Paolo vieni a vedere! Cosa succede a Stefano?
Paolo aveva studiato medicina per alcuni
anni, pur senza completarla, e spesso si atteggiava con gli amici a medico di
provata esperienza; in quella occasione però rimase senza parole ma con un
espressione visibilmente preoccupata in volto.
- Beh, che avete da guardare tutti quanti? –
Chiese all’improvviso Stefano.
- Stai bene? – Disse Luigi.
- Benissimo! Perché?
- È che avevi un’aria assente, gli occhi
rovesciati all’indietro e sei rimasto immobile per qualche secondo. (…)
Giudizi
Dispersione di un uomo e della sua famiglia. (Roberto Battestini)Un racconto sul tempo che passa dove si incontrano quotidianità e un pizzico di fantastico. (Stefano Gorla)
Una carezza in un
pugno
di Sabrina Zanoni (Brescia)
Accidenti, arriverò in ritardo. E cosa dirò
poi in ufficio? Quelli mi squadrano sempre da capo a piedi, soprattutto da
quando sono con Mirko. Quella volta c’erano anche loro al locale, quelli
dell’ufficio, quando Mirko aveva appoggiato a terra la chitarra, era sceso dal
palco ed era venuto dritto dritto verso di me per offrirmi una birra. A loro
non sembrava vero. E non lo sembrava nemmeno a me. Proprio io? avevo pensato,
io che non ero mai stata granché – certo, quella sera mi ero messa in tiro per
il compleanno di Leo – e Mirko, bello come un dio, bello e dannato come direbbe
qualcuno, mi aveva scelta. Si vedranno i segni sotto gli occhiali? E il foulard
al collo li copre bene i graffi? Fammi controllare nello specchietto… È sempre
così quando facciamo l’amore… mi è piaciuto fin dall’inizio l’impeto con cui mi
cercava, l’urgenza con cui mi voleva… certo, a volte mi fa male, ma nessuno mi
ha mai amata così. E che guardino pure i segni quelli dell’ufficio: la loro è
tutta invidia.
Che
strano, mi viene in mente una vecchia canzone di Celentano … e da un pugno
chiuso una carezza nascerà … la la la la la….
Devo
chiamare in ufficio e avvisarli che nemmeno oggi andrò al lavoro. E che mandino
pure la visita fiscale, così almeno evito la tortura di tornare al pronto
soccorso. Questa volta però mi sa che c’è qualcosa di rotto, non riesco a
muovere il braccio né ad alzarmi dal letto. E Mirko si arrabbierà come una
bestia se torna e mi trova ancora così. Lui dice che lo faccio apposta, che
faccio tante scene ma che in fondo mi piace e quando mi guarda con quei suoi
occhi infuocati mi convinco che è così… Poi diventa gentile, mi riempie di baci
e mi dice “È tardi, ora alzati che ti aspettano i tuoi amiconi…”. Gli amiconi
sono i colleghi dell’ufficio. Lui non li può vedere. Da quando siamo insieme io
e Mirko non esco più con loro la sera. A dire il vero non esco più molto. Anzi,
non esco per niente. Mirko è geloso e questa è una cosa che non può che far
piacere ad una donna… I miei colleghi proprio non capiscono, ultimamente mi
guardano addirittura con commiserazione, chissà perché. Ma loro non sanno
quanto sono felice con Mirko!
Adesso
però ho bisogno di un antidolorifico…
Giudizio
Ottobre 2015. Nel momento in cui scrivo, il tema di questo racconto – il racconto stesso – è ancora tristemente attuale, indegnamente presente e schifosamente presente in molte delle cronache che leggiamo svogliatamente tra una fermata di metro e l’altra. Quindi l’Autore o l’Autrice mi perdoneranno se, in questo specifico caso, ho abbandonato volontariamente i panni del giurato tenendomi, nel contempo, ben stretto i 5 punti a mia disposizione che mi consentiranno di dare una chance a questo breve scritto. Perché, in questo caso, non servono sfumature semantiche; non serve nemmeno apprezzare la lingua o i vocaboli o la struttura. Serve parlarne, per guardare in faccia la nostra vergogna e rimanerne inorriditi. Così inorriditi da prevedere una Legge sempre più dura e proporzionata alla miseria di quel gesto. (Stefano Martello)
Riproduzione vietata
di
Angela Ambrosini (Città di Castello, PG)
Sono di nuovo qui, a elaborare la registrazione capillare,
pervicace e oggettiva di un comportamento disturbato, nei limiti in cui può
essere oggettiva una simile operazione che difficilmente consente un’analisi
fidedegna. Vogliate scusarmi quindi se la mia trascrizione non è specchio fedele
della materia che mi impongo di documentare, ma non dipende unicamente da me,
anche perché non sono solo. Se fossi solo sarei libero di scrivere e in pace
con me stesso. Se fossi solo forse non avrei neppure bisogno di scrivere.
Il
primo sospetto risale agli anni universitari. Come tutti i sospetti fu solo una
pressione fugace, lasciò l’impronta tenue di un livido e si dissipò nel nulla,
come dal nulla era comparso. Tuttavia da quel livido, da quel nulla, si generò
un vuoto. Insondabile, impalpabile, inesprimibile, ma ormai il seme era stato
piantato, o era caduto lì per caso. Non è dato saperlo. Il seme di un vuoto
dunque (e vogliate perdonarmi l’espressione quasi ossimorica, ma non saprei
dare diversa definizione) che avrebbe a poco a poco innescato quel sabotaggio
permanente delle relazioni umane, stimmate della sua vita, che ha finito per
investire anche me. Se lui sapesse, se lui scoprisse che in tutti questi anni
l’ho controllato da vicino annotando in segreto le sue impercettibili,
inesorabili fibrillazioni verso l’alterità inconfessata e strisciante, non me
lo perdonerebbe. Nel mutismo dei suoi sonni farmacologici, nella quiete di un
benessere transumante sull’onda delle fasi lunari, nelle tregue di un’apparente
normalità che ha permesso anche a me una più trasparente convivenza nelle sue
giornate meno umorali, ho trascritto devotamente la bava di viscoso disagio che
come una lumaca, lenta e inappellabile ha tracciato anno dopo anno dietro di
sé, dentro di sé. E dentro tutti coloro che gli vogliono bene, come me. E io,
più di un buon amico, più di un buon fratello, ho cercato di lenire in tutti i
modi i parossismi di livore e vendetta rabbiosa che sempre riecheggiano nei
suoi deliri di vittimismo patologico, accresciuto dalla graduale riproduzione trasmigratoria
dei sintomi dei suoi pazienti verso il reclusorio occulto del sé, del “suo” sé.
Riproduzione vietata, quindi, dalla quale non ha saputo né voluto proteggersi,
intento com’è a prendere a carico con estrema professionalità e con brillanti
risultati solo i casi dei suoi pazienti, per di più da lui assistiti in modo
amorevole. (…)
Giudizio
Un racconto impastato con l’atmosfera densa delle Memorie del Sottosuolo e la lucidità tenebrosa di Kirillov dei Demoni. Tellurico nei contenuti, snervante nella narrazione e lacerante nell’effetto immaginativo. Un pugno allo stomaco. Meraviglioso. Nella scia dei “soli neri” – contorti e rivelativi del cuore umano – del Dostoevskij che cita, l’Autore affonda il suo bisturi con precisione e consapevolezza nel sottosuolo antinomico del mero apparire. È coinvolto ma non è invadente, tanto da centrare l’intera narrazione sull’altro più che sulle personali reazioni emotive. Ha la preoccupazione di mostrare, ma non la fretta di dire né di spadroneggiare come scrittore. “Proietta un simulacro, ha per compagna la paura” credo siano le espressioni più potenti; a dire forse che questa sottile e carnevalesca idolatria di sé non può che rifuggire la vita – “hanno occhi e non vedono, hanno bocca e non parlano…sia come loro chi li fabbrica” (Sal 134). (Emanuele Rimoli)
Il mio fiume
di
Franca Fabbri (San Mauro Pascoli, RN)
[Franca Fabbri è nata a Rimini. Ha svolto attività di insegnante a Milano e a Rimini. Vive a San Mauro Pascoli (FC). È Accademica Pascoliana e Membro dell’Accademia “Le Tre Castella” (Repubblica di San Marino). Pubblica articoli di attualità, storia, costume, piccoli saggi su riviste letterarie e giornali. Appassionata di Storia dell’Arte, si occupa di pittura e pittori. È presente in antologie poetiche, cataloghi d’arte, poster, pubblicazioni turistiche. Ha ricevuto premi e segnalazioni per poesie e racconti. Sue pubblicazioni: Il Re fioraio (poesie, Longo Editore, Ravenna, 1997); Molecole di poesia tra antica pittura e vecchie parole (poesie e dipinti, Studio Stampa, Repubblica di San Marino, 1999); L’Albero del Melograno (poesie, Longo Editore, Ravenna, 2000); Donne. Vita Amore Passione (poesie e racconti, Raffaelli Editore, Rimini, 2003); A tavola, il girotondo della vita (narrativa-saggistica, Raffaelli Editore, Rimini, 2007); Sto consumando l’ultima casa (Fara 2010); Ore di luce strangolate da clessidre (Fara 2013); Il re fioraio (Longo Editore 2015, tradotto in lingua tedesca con il titolo Der blumen verkaufen König, dalla poetessa Irmentraud ter Ver). Nel 2014 è stata nominata Accademica della Rubiconia Accademia dei Filopatridi.]
“ … le sorgenti del Marecchia sono più misteriose delle sorgenti
del Nilo” (anonimo)
È concepito nel ventre di un bosco all’Alpe
della Luna. È partorito sotto un cespuglio. Intravedi il brillio di un piccolo
specchio. È lui. Lo guardi, ti guarda, allunghi una mano a conchiglia e con una
carezza raccogli e assaggi un po’ d’acqua, è l’acqua del fiume Marecchia, il
mio fiume.
Una volta scoperto vuole presentarsi, far sapere
chi è, vuole farti sentire il suono dello zampillo. L’ascolti, lui intanto
cerca la sua strada, affronta con coraggio i primi dirupi, li scavalca con
decisione, divertendosi a creare allegre cascatelle. È ancora un fiume bambino,
ma sta crescendo in fretta, scivola svelto sul letto di bianca pietra, inciampa su rotondi ciottoli,
gli gira intorno, poi continua a scendere, scorge ai bordi ciuffi di erba e,
quando si alza, piante di lecci, boschi
di faggio e roverella, e
più lontano, prati e pascoli. Fa amicizia con foglie di ruta, con bacche di
ginepro, saluta passando i fiori
di violacciocca, abbarbicati su basse rocce. Alle sue fresche acque,
piante e fiori si dissetano, si rinfrescano, godono del loro fruscio.
Scopre di avere un fratello quando si sente
abbracciare da un piccolo corso d’acqua, il canto di alcuni uccelli festeggia
la loro unione e così il mio fiume s’allarga, comincia a sentirsi importante e
si regala una cascata.
Nelle sue acque sono rotolati enormi
macigni, la pietra dura lo costringe a restringersi in un budello, lui cerca
spazio, fa delle curve, riesce ad allargarsi di nuovo quando arrivano gli
abbracci dei nuovi fratelli che portano altra sabbia e ghiaia. E l’acqua
cresce, canta, si diverte a cambiare colore,il verde,l’azzurro, il trasparente
dove luccicano spinarelli, carpe, trote e tra boscaglie di salici e ontano si
posano il passero solitario, il pendolino e, nei canneti, l’usignolo di fiume.
A metà percorso, il mio fiume è cresciuto
ancora, si è fatto ragazzo, si guarda intorno e vede apparire delle rupi che emergono nella valle come
zolle galleggianti, si ergono in scoscese pareti rocciose, lui alza gli occhi e
vede in alto rocche e castelli, ha tempo e voglia, curioso com’è, di ascoltare
i loro racconti di storia, di
guerre, le loro leggende misteriose.
Sa che di lassù si godono splendidi panorami
e magnifici paesaggi, anche “lunari” per i calanchi dalla forma curiosa e
crudele. (…)
Giudizi
Semplice e immediato nella schiettezza e nell’affetto per i
protagonisti, quello “detto” e quello che emerge chiaramente solo alla fine. Lo
stile genuino e limpido permette di seguire lo scorrere della vita del fiume
con la meraviglia con cui si vedrebbe crescere una persona cara. Armonioso
nella visione globale dei rapporti tra uomo, tempo, ambiente, dando un senso di
compattezza e solidità mai statico e fissato, al contrario sempre in movimento,
sempre in fieri come lo scorrere
continuo dell’acqua dalla fonte. La vetta è certamente costituita dai versi
finali: uno sguardo gentile, delicato e allusivo del mistero del fiume e
dell’uomo. (Emanuele
Rimoli)
Tra memoria e contemplazione, un coinvolgente viaggio controcorrente nel passato personale e di una comunità. (Alessandro Zaccuri)
Quarti classificati ex aequo
Di castello in bosco
di Vincenza Scuderi
(Catania)
Ogni stanza
del castello è ampliamento della principale, in tutte risuona equamente la mia
voce e si diffondono i riflessi e i tremolii d’ombra delle mie lampade, accese
la sera e durante le giornate poco luminose. Ognuna di esse è insomma
ampliamento di me, e non le abbandono mai come non abbandono mai me stessa agli
spazi esterni. I tempi degli incantesimi sono passati, mi dicono a volte
visitatori occasionali, la magia non ha posto in un mondo che non è più neppure
moderno. Qui tutto è “dopo” e io mi ostino a vivere nel “prima”. Ma ricordo con
ebbrezza di visione il giorno in cui fui condannata a queste mura, l’intimo
piacere d’essere costretta – ma la strega lo ignorava – alla mia più grande
aspirazione. Raramente le malvagità sortiscono effetti così benigni in chi ne è
vittima, ne faccio rito di ringraziamento al cielo tutti i giorni, quando i
miei occhi si spalancano. Del resto avrei potuto opporre un antidoto alla
formula, per esempio svanendo prima che la strega avesse il tempo di
completarla, o pietrificandola nel momento stesso dell’incantesimo. Invece ho
preferito pietrificare le mie arti, che comunque conservo ancora intatte.
I visitatori
a cui accennavo sono i miei involontari araldi. Da essi ho appreso, nei secoli,
catastrofi e carestie, paventate fini del mondo e teorie di liberazione del
(dal?) genere umano. Eppure ho sempre la certezza d’aver già sentito gli stessi
racconti migliaia di volte. Altri volti, altre voci, nuovi vocaboli per oggetti
nuovi, vestimenti cangiati per le stesse idee, spiraliformi nel volgere e
rivolgersi. Cosa resta di meglio da fare a una vecchia maga, principessa
nubile, se non ritrovare i nessi e sorridere come una parca constatando che il
suo sapere lontano (cioè il mio) ha ancora corso ben oltre la modernità? (…)
Giudizio
Racconto che sfrutta l'evocazione visiva, in un incedere che contemporaneamente scopre e vela, incuriosendo e affascinando il lettore. (Stefano Gorla)
Un giorno di follia
di William Protti
(Santarcangelo, RN)
[William Protti è nato a
San Marino nel 1965 e vive a Santarcangelo (RN). Non uno scrittore ma un
creatore di personaggi e storie; ha illustrato alcuni libri (di poesie e
rivolti ai bambini) e ha ideato strisce e tavole a fumetti a livello locale.
Sue poesie sono apparse (inserite, a sorpresa, da alcuni amici artisti) su
cataloghi d'arte, a Rimini e in Repubblica Ceca. L’impegno in campo culturale
e artistico lo ha portato a supervisionare e impaginare alcuni libri.]
Quel mattino, Roby si svegliò pieno d’energia e s’avviò gioioso verso la doccia. Qui, distrattamente utilizzò al posto della saponetta un topino di passaggio; il topino, naturalmente, non approvò!
Dopo la doccia forzata, mentre Roby s’aggiustava la cravatta, il topino salì sul comò e si divertì a osservare la propria figura riflessa nello specchio; d’un tratto, notò che “quell’altro” gli faceva l’occhiolino.
«Ma tu stai sempre lì dentro?» gli domandò. “L’Idiota” però non rispose.
Roby si ricordò improvvisamente di non aver mai posseduto una cravatta e corse in camera per togliersela.
«Mia non è!» replicò il topino.
Entrato nella camera, Roby s’accorse che la camera non c’era più, sostituita da un campo da Rugby, dove un vecchio piantava delle rape. Una massa di persone, tante quante ce ne possono stare in un cucchiaino da tè, correva, imprecando silenziosamente.
Roby, confuso, chiese al vecchio il perché di tanta assenza di trambusto e se avesse visto passare una camera, magari con tutta la casa attorno. Quello rispose: «La casa? La casa l’ho piantata con le rape! E anche con l’assenza di trambusto è ora di piantarla!»
Tutto era immerso nel caos, e se anche qualcosa era emerso non gli si trovava il verso! Il topino osservò, come ubriaco, un ladro inseguire una civetta della polizia, che cinguettava all’ombroso sole d’estate.
Le altre auto guidavano… nei musei, e i semafori passavano immancabilmente col rosso. Raggi di luna salivano al cielo, mentre la televisione faceva capolino nelle case delle città di tutto il mondo, il quale, forse per ripicca, già da tempo s’era trasferito altrove.
In piazza Utopia un messo comunale veniva potato da un albero… e sorrideva pure, il tapino!
«È un lavoro pubblico! Sia serio!» gli gridava l’albero. E il pubblico applaudiva.
Roby salì sul terrazzo (benché non ci fosse più la casa). Dal basso un tale gli bisbigliò di scendere ulteriormente.
Roby si ritrovò così a testa in giù, senza peraltro sentirsi sollevato. Il mondo era impazzito? O era impazzito solo lui? Se il diritto era rovescio non v’era che una soluzione: capovolgersi! (…)
Giudizio
Davvero un originale intreccio di parole annodate ad immagini e flashback spaziotemporali. (Stefania Zanetti)
Che il cielo mi abbia in gloria
di Tullio Bugari (Jesi, AN)
Ma che succede? C’è una strana atmosfera oggi
al bar aziendale, sembra d’essere in un film! Nessuna ressa, tutto in ordine,
ovattato: quale bizzarra garberia s’è impossessata dei colleghi? In realtà mi puntano,
mi studiano, sono attenti, ma fingendosi distratti, hanno lo sguardo diretto con
noncuranza altrove. Non proprio disinvolti a dire il vero, li tradisce una
certa imbranataggine mentre s’aprono a ventaglio ai miei lati per lasciarmi
passare: non sono maestosi come le acque del Mar Rosso con Mosè, è evidente che
si preoccupano solo di evitarmi, gli stronzi. Mah! Adesso ci scivolo dentro, fingo
anch’io di guardare altrove mentre li osservo, gli stronzi. Avanzo con un passo
asettico, come immobile su un tapis roulant. Cerco con lo sguardo i miei amici
di caffè per riderci insieme e snobbarla questa misera performance ma non li vedo,
dove i sono cacciati? Li hanno confinati in qualche perverso impegno di
palazzo? In uno di quei gruppi di lavoro strappapalle che non producono mai un
lavoro di gruppo? Peggio per loro, io l’avevo messi in guardia. Anche loro potevano
avvisarmi, perché abbandonarmi qui con questi che non mi scrutano smorfiosi, ma
che vadano a quel paese me lo gusto da solo il caffè, raccolgo il respiro e mi
appoggio al bancone. Toh, è pure pronto, che solerzia! Si dev’essere sparsa
voce di qualcosa di speciale che io non so ancora ma elettrizza già l’aria,
hanno contagiato anche la barista, magari persino lei è stata informata ma io non
ho il tempo di chiederle nulla: con i suoi modi spicci mi sbatte la tazzina
sotto il naso e sparisce. Ancora un po’ e me lo tira il caffè, che il cielo se
la porti in gloria.
Ora posso gustarlo. Gustarlo? Si fa presto a dirlo! Forse è meglio trangugiarlo in fretta. Già il solo aspetto mi mette ansia, è una cacchetta liquida, la solita mirabile ciufega. Secondo me ci mescola di nascosto nella miscela una polvere di ghianda bruciata, non c’è altra spiegazione. Oppure sarà l’acqua, sarà la mano sarà un colpo che se lo piglia quel caffè dal retrogusto che si appiccica al palato e non lo raschi più via. E le ali di folla del Mar Rosso che fingono di non guardarmi, che fanno? Eccoli là che sorseggiano ‘e ridendo e scherzando’, non prestano attenzione al caffè fingono che sia buono. Che avranno da ridere? Continuano a non filarmi e mi aprono di nuovo un varco appena accenno a muovermi: è forse un delicato invito a sloggiare in fretta da questo luogo, dove ero sceso per rilassarmi un poco, illuso di trovarmi immerso nel calore amico? Non sono più forse parte di questo branco? Che il cielo li abbia in gloria. (…)
Giudizio
Si tratta di un racconto brutale nell’evoluzione e sincopato nel dispiegarsi degli eventi. È un racconto che rispecchia molto la durezza crescente e, per certi versi, abietta del nostro vivere relazionale e non è un caso se sia stato ambientato in un luogo che, più di altri, riflette una anonima e mediocre lotta per la sopravvivenza mentre il buffet della sala mensa rimane intoccato e ben fornito. (Stefano Martello)
Viaggio fra i silenzi (ballata
dell’anima viandante)
di
Attilio Melone
[Attilio
Melone, ingegnere e scrittore, ha pubblicato alcuni romanzi nei quali
indaga il rapporto fra l'uomo di oggi alle prese con i vantaggi, i problemi ed
i pericoli che derivano dal progresso scientifico e tecnologico. Ha una idea:
tutto deve essere affrontato senza mai dimenticare che al centro ci sono la persona
umana e la natura. In questo modo, tutti i suoi scritti diventano storie
d'amore. Anche l'ultimo che si intitola Ventunesimo
Secolo e che qualcuno crede essere un romanzo di fantascienza.]
“Godrà la pace colui che in
questo mondo non è mai stato in pace,
colui che non si è radicato nella
vita di questo mondo,
che come un fulmine l’ha attraversata nascendo e morendo.
Nel mondo del transeunte non ti arrestare, se non vuoi averne dolore:
a colui che mette radici in questo mondo,la pace del cuore rimane
preclusa.
Soltanto chi è morto a questa vita sarà vivo nell’altra.”
(Nisami)
Silenzio…
La cupola del cielo rimanda un silenzio
lontano.
“Quale cielo? Quello che sta dentro di me? Quello
che vedo fra le giogaie dei monti alle mie spalle o quello che si riflette sul
mare, dove svanisce persino il ricordo inquieto che potrei lasciare?”
L’aria sussurra.
“Hai viaggiato per strade conosciute e per vie inesplorate. Hai
compreso l’ignoto e ti sei smarrito dove tutto ti era consueto. Hai imparato
che non c’è nulla d’abitudinario al mondo. Neppure la volta celeste che appare
immutabile. Neppure il suo silenzio. E ora, guardi, sorpreso, una nuova partenza?
Hai appena gettato quello
che ti legava ad una Terra. I resti di colui che sei stato danzano sul confine
fra la tenue luce della notte e l’oblio. Presto, ghermiti dalla risacca,
affonderanno poco più al largo.
La luna, tramonta: il buio renderà invisibili le tue lacrime d’addio.
Puoi lanciare lontano il pensiero, ormai. È libero, perché nascosto; è
vivo perché è la parte più importante di te.
Seguilo e ricorda: l’eternità
non vive qui.”
Silenzio…
È tramontata la luna. La notte è,ormai, soltanto delle
stelle. Il firmamento è profondo.
“La tenebra è punteggiata di facole sperdute. Sono miraggi? Illusioni, come speranze
che bruciano?”
L’aria racconta
“Hai viaggiato per vie conosciute e per altre incerte lungo le quali
hai incontrato la vita. Essa, forse, è presente soltanto lontano dalla propria
origine. Ha percorso una lunga strada per giungere dalla sua primitiva dimora
ai luoghi in cui l’hai trovata.
Vedi
laggiù? Un raggio di luna trema ancora sul mare. È un ultimo fantasma: fra te e
l’orizzonte.”
Silenzio…
Giudizio
Nel paese che tanto ti assomiglia… (Baudelaire, Invito al viaggio). È un racconto onirico, “spazioso” e abissale, ricorda i testi dei mistici renani. A tratti perfino incorporeo e sbilanciato (affondato?) in un flusso di pensieri di cui è possibile cogliere i collegamenti solo per intuizione. Ha il pregio di essere arioso, non tanto per l’ambientazione e i riferimenti, ma per il respiro variegato e fatto di colori tenui e non aggressivi. Ci si può leggere lo struggimento di un Addio, tanto di chi è partito che di chi è rimasto; non sarebbe estraneo al malinconico scrutatore del cielo, né all’accorato, e forse anche un po’ romantico, indagatore dei desideri umani. È per incoraggiare e per rallentare le corse affannate – come la sabbia: in una clessidra per concorrere col tempo, o all’aperto per affondarvi i piedi come delle radici che attingono linfa. (Emanuele Rimoli)
Quinti classificati ex aequo
La sofferenza delle stelle
di Assunta Barbara Filice
(Cosenza)
[Assunta
Barbara Filice ha 35 anni. Ha conseguito la Laurea in Scienze Politiche e
poi in Giurisprudenza. Si è perfezionata attraverso una serie di Master e Corsi
di Specializzazione in ambito giuridico. Ha conseguito anche il titolo di
Dottore di ricerca (sempre in ambito giuridico) presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed è autrice
di due monografie ed alcuni articoli in discipline di diritto. Per il momento
esercita la professione di avvocato all'interno dello staff legale di un Ente
regionale… ma si sa… “le vie del Signore sono infinite”.]
“Mondi
e mondi…e sistemi di sistemi…
Viaggi…
nelle infinite distese dell’etere…che piccoli e grandi astri diffusamente
popolano…
Isole
del cielo senza tempo… guide di navigatori erranti… eppure immobili…
Figlie
obbedienti di uno Spirito creatore…
Signore
del tempo e della storia…
Luci…
prigioniere di un buio che sussurra sogni e speranze mortali…
custodi
di passato, presente e futuro, vegliano…anelando la semplicità di una carezza.
Volgendo
lo sguardo al mio cielo… vedo… la sofferenza delle stelle.”
Giudizio
L’empatia con le stelle è una emozione storica ed arcaica... con la loro sofferenza è una variabile che non avevo mai sentito e di questo ringrazio e terrò conto. (Stefania Zanetti)
Il nome dei colori
di
Monica Mainikka Mainardi (Ponte San Pietro, BG)
[Monica Mainardi è nata a
Milano nel 1966. È laureata in lettere classiche. All’esperienza didattica e
alla passione per i classici e l'etimologia ha unito una formazione artistica
(dizione e lettura espressiva) e interculturale. Ora si diverte tra attività di
editing, formazione, letture pubbliche, percorsi didattici, laboratori
ludico-culturali e interculturali. Lavora da sola oppure in collaborazione con
educatori, animatori stranieri, grafici… I suoi spazi preferiti sono le scuole,
le biblioteche e le librerie. È ideatrice del servizio bibliotecario BabyBiblio, che ha animato per anni in
biblioteche della Provincia di Bergamo, secondo gli intenti del progetto
nazionale Nati Per Leggere. Ha
pubblicato: Le bambole pericolose di
Euripide, in De Amore, Atti del Convegno Internazionale Humanitatis
Symposium, Centrum Latinitatis Europae, Genova (Delta 3, 2012); La chiave delle parole: guida e strumenti
per la riflessione etimologica, (Youcanprint Edizioni 2012).]
Com’era bella quella città sul pianeta Terra!
Era grande e luminosa, seduta ai piedi dei monti e con lo sguardo rivolto verso il mare. Kopì ci viveva da oltre un anno e non si sentiva più un estraneo come i primi tempi.
Ormai aveva imparato abbastanza bene le abitudini degli umani e il loro linguaggio. Aveva tanti amici con cui giocava e scherzava e che lo facevano sentire a suo agio, come uno di loro.
Ma c’era una cosa, una cosa sola, che proprio ancora non capiva: lo stranissimo modo che gli umani avevano di concepire i colori.
– Kopì, questa è una fragola: dimmi, di che colore è?
Be’ certo, all’inizio a scuola si era sforzato non poco di imparare il nome dei colori nella nuova lingua. La maestra gli mostrava con un largo sorriso alcuni esempi da riconoscere e da nominare e i colori degli oggetti coincidevano sempre perfettamente con quelli che aveva in mente lui.
Intendo dire: se la maestra gli insegnava a chiamare ROSSO il colore delle ciliegie e delle fragole mature stampate sul libro di scuola, quel ROSSO corrispondeva pienamente alla sua idea di rosso…
Lo stesso valeva per il giallo del limone e del sole, e anche per il bianco della neve e dello zucchero, il rosa delle rose e delle nuvole al tramonto, il verde dei prati e delle piante, il nero del petrolio e del caffè e così via...
– Bene, Kopì, vedo che fai progressi, continua così!
E quindi? Tutto a posto allora? Eh no, proprio no!
Il problema, infatti, si presentava quando si trattava di indicare il colore dei suoi compagni di classe. Sì, perché in quella città vivevano bambini e adulti coloratissimi, spesso diversi gli uni dagli altri per il colore dei capelli, per il colore degli occhi e per quello della pelle. (…)
Giudizio
Giocoso, profondo e divertente: una lettura adatta a ogni età e utilissima per far dialogare le età fra di loro. (Alessandro Zaccuri)
Nessun commento:
Posta un commento