sabato 5 aprile 2014

Giambattista Bergamaschi

PINZIMONIO IN VIA DE' SERVI
(divertissement “filosofico” un po' demodé)

Gratuitamente sfogliabile (ISSUU) o scaricabile (pdf) dai QUADERNI di "Grazzaniseonline":



Quale presentazione potrebbe mai ambire ad essere tanto concretamente “a giorno” circa le più intime peripezie creative di uno scrittore quanto le stesse sue premesse alle proprie opere?
Certo, il prezzo che ogni volta s'è costretti a pagare è quello di un'inevitabile - umana e comprensibile - soggettività, tuttavia ben sapendo d'aver scongiurato, fin dove è possibile, l'assai più grave rischio di una paurosa, spesso intenzionale e antipatica aberranza, in un mondo che troppo spesso si alimenta di sole chiacchiere, incluse quelle scritte.

L'obiettivo di questa mia nuova storia è per niente affatto pretenzioso. Molto semplicemente, chissà cosa pagherei per sapere se almeno un lettore s'è francamente divertito leggendola e apprezzando il lavoro letterario - espressivo e contenutistico - compiuto a tale scopo. 
Con ciò rimanderei il fruitore della presente “recensione” alla lettura integrale del racconto, tuttavia non senza avergli prima ammannito la “Premessa” di cui sopra dicevo nonché il seguente passaggio da una recensione colta di fresco:

"Con complice ironia e partecipazione affettiva Bergamaschi ci racconta le strategie messe in atto dal protagonista nel tentativo di conoscere una giovane donna che un giorno gli è apparsa casualmente. Una situazione che tutti possono ritrovare nel proprio vissuto ma che qui è narrata con fresca, brillante maestria, condita come al solito di argute ed erudite descrizioni che anziché appesantire la lettura la rendono, al contrario, piacevole e stuzzicante" (Franco Tessitore, www.grazzaniseonline.eu/spip.php?article3040).

PREMESSA

Qualche settimana fa, nel pieno di un ennesimo repulisti di libri, quaderni, riviste ed altro dimostratosi negli anni palesemente inutile, mi sono per “caso” ritrovato fra le mani, dopo un tempo inenarrabile, il racconto che segue.
Battuto a macchina, trattandosi di un manufatto deliziosamente arcaico, qualche anno dopo la mia laurea in Lettere.

Nulla di speciale, eppure non ho avuto il cuore di cestinarlo nel bidoncino della carta assieme a tanti dépliant pubblicitari mai considerati, buste di bollette già pagate, contenitori in cartone per alimenti, futili riviste di moda sfogliate in fretta e via discorrendo.
Quel che maggiormente mi ha indotto a trascrivere l'intera storia sulla tastiera di un pc è stato il potere di suggestione, non del tutto sopito ad onta degli anni trascorsi, della vaneggiante temperie emotivo-culturale che quello scritto sembrava ancora sprigionare.

* * * * *

Anni a cavallo tra gli ultimi '70 e i primi '80.

Allora, dapprima per motivi di studio, successivamente scientifici, percorrevo l'Italia in lungo e largo, saltando da un treno all'altro.
Fu così che nel settembre del 1980 trascorsi alcuni giorni a Palermo, partecipandovi quale relatore ad un convegno internazionale di semiologia1, fra specialisti tanto illustri da far sentire me, laureato di fresco, poco più di un moscerino.
Feci girare tra i presenti i 22 Arcani Maggiori del Tarocco di Marsiglia. Al termine dell'esposizione, mi tornarono tutti indietro salvo il IX, l'Eremita, che un eminente semiologo del cinema pensò bene di intascare, a mo' d'efficace promemoria, dacché l'intera mia analisi aveva insistito soprattutto su quel particolare atout.
Lasciai correre.
A quel tempo ero fermamente convinto che nulla accadesse per caso, e un tale episodio, per molti versi trascurabile, doveva con molta probabilità celare chissà quale recondito significato.
Parigi val bene una messa.
La sera del secondo giorno, mentre tutti, chi più chi meno con un bicchiere in mano, si vagabondava tra le fastose sale arazzi e specchi di un noto palazzo baronale del Seicento, in perfetto sincronismo con un paio d'altri giovani relatori e una coraggiosa laureanda - seguace segugia di un'onda culturale in quegli anni tremendamente à la page -, ebbi una luminosa idea.

Abbandonammo con fare felino l'edificio - mentre la crème de la crème semio-linguistico-antropo-strutturalista, nella salda consapevolezza del proprio conclamato potere culturale e non solo, continuò a degustare ogni ben di Dio, non ultimi i mitici “pani câ meusa” accompagnati da calici di ottimo Corvo Rosso del Duca di Salaparuta - in cambio di una boccata d'aria fresca e due più frivole chiacchiere altrove, quanto bastò remote dal teatrino dei burattini.

Dove finimmo?
Da autentici incoscienti attraversammo per intero l'area del porto, fra ombre inquietanti ben poco raccomandabili a quell'ora.

Quando ci ripresentammo al palazzo sorprendentemente illesi e candidamente ignari del rischio appena corso, l'agente addetto alla sorveglianza, siculo e curioso, saputo da dove tornavamo reduci, di gitto concluse d'aver a che fare con quattro pazzi scatenati. Ci accompagnò comunque fino alla sala in cui i nostri più vetusti e blasonati colleghi stavano gustandosi un'assai squisita Opera dei Pupi.

Breve: fu lì che conobbi l'impavida semiofila poco sopra descritta.
Un paio d'anni più tardi, ne fui invitato, ospite, in quel di Firenze.
Vi avrei tenuto una serie di lezioni di semiologia dell'immagine presso gli studi “Fortman”, sorta di scuola d'arte a quei tempi soprattutto consacrata, credo, alla fotografia.
Non so se ancora esista...

Fu durante quel breve soggiorno che, grazie ad un amico anche lui oriundo di San Benedetto del Tronto ma col tempo laureatosi fine conoscitore dei più riposti meandri del capoluogo toscano, conobbi un tale assai curioso e singolare: Mago Merlino, nome d'arte che nel mio racconto citai non senza una qualche emozione.

* * * * *

Dunque, non di una storia puramente fantastica si tratta, essendo le connessioni con l'effettiva realtà di quegli anni piuttosto numerose.
Ciò non toglie però che nel suo complesso resti un puro e semplice divertissement letterario.

* * * * *

A quel tempo, oltre alla semiologia, mi affascinava non poco una certa corrente contemporanea della nostra storia letteraria, cultrice della “bella pagina”, nonché un paio di autori francesi, Alphonse Allais e Raymond Queneau2, dalle intenzioni non poco metaletterarie, più o meno tecnico-illusionistiche.
Oggi, li definirei semplicemente “supponenti”.

Del primo ricordo, in particolare, due racconti, Un drame bien parisien e Les Templiers, che il nostro Umberto Eco sottopose ad acuta analisi narratologica nel fortunatissimo suo Lector in fabula 3.

Da non trascurare, infine, che durante quegli stessi anni nella mia città natale parecchi giovani “rotondini” esibivano un discreto interesse nei riguardi dell'occulto.
Io stesso non ero del tutto insensibile alla cosa, benché nel corso della mia esistenza abbia sempre guardato all'universo dei misteri con leonardesco sorriso.
Proprio come nel mio racconto...

1 G. Bergamaschi, Tarocchi: “Litterae laicorum” e Sistema di memoria, in AA. VV., Per una storia della semiotica: teoria e metodi, Quaderni del Circolo Semiologico Siciliano, 1980.
2Esercizi di stile, in varie e successive edizioni. Aggiornata quella del 1973. L'ultimissima è del 2008.
3Bompiani, 1979.

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