mercoledì 30 aprile 2014

Dove sta andando il mio italiano?

di Roberto Borghesi

Dove sta andando il mio italiano? Prima ancora; dove sta andando il “mito” italiano?

Già, l’Italia è stata per tanto tempo e, ancora in parte è, un “paese mitico”, pieno di sole e di cultura. La lingua italiana era coltivata all’estero come lingua aristocratica. Che ne è di tutto questo, oggi? L’Italia, si dice, è diventato un paese “di serie B”, per usare un eufemismo, un paese spazzatura a dirla brusca. Il paese è cambiato, si dice. E la sua lingua? Forse ci vorrebbe la sensibilità di un Pasolini, o di un Contini, per rispondere ad una così enorme domanda. Già, forse hanno risposto loro; solo che quanto di “condanna” e di lamento scrissero allora, oggi è accresciuto. Ma noi non siamo né filologi, né sociologi, né linguisti. Siamo comuni osservatori, appena poeti o letterati. Un'ipotesi; i dialetti vanno scomparendo, ma là dove sono presenti ancora mantengono intatta tutta la loro purezza. E questa sarebbe la rete che, sosterrebbe la “convivenza” linguistica nel nostro paese. Ma aspettarsi nostalgicamente una salvezza dai dialetti sarebbe un sogno che non cullerebbe più nemmeno un Pasolini. Ipotesi; mentre i dialetti resistono “territorialmente” e mantengono il tessuto delle relazioni personali, la lingua nazionale italiana andrebbe in una direzione opposta, una condizione di “desertificazione” semantica oltrecché di desertificazione comunicativa, non già comunicataria Essa andrebbe ad incontrarsi con una esplosione di comunicazioni verbali sconfinate legate alle nuove tecnologie, ma in cui il rischio di un incatenamento alla loro potenza comunicazionale si appaierebbe al rischio di un impoverimento di “invenzione” poetica della lingua stessa. Lingua “tecnologica”, ormai l’italiano si desertifica sul piano della “significazione”, della “emotività” linguistica per spiegarci. Siamo sempre più soli nella nostra lingua comune a mano mano che aumenta la disponibilità comunicatoria dei mezzi linguistici. Desertificazione del tono, del timbro, dell’accento, della differenziazione verbale fonica. La lingua si fa ormai soprattutto scritta a tasti, che hanno tutti lo stesso suono, un suono da “ufficio” statale, o catastale? Desertificazione a causa di “polluzione” verbale, paradossalmente, di incontinenza, di eccesso di “canali” gergali e verbali, surplus di “linguame”. Forse ci vorrebbe un po’ più di silenzio, dice la luna con la sua “voce” felliniana. Eppure non siamo pessimisti. R. Barthes scriveva: “Ma come performance di ogni linguaggio, la lingua non è né reazionaria né progressista; essa è semplicemente fascista: il fascismo, infatti, non è impedire di dire, ma obbligare (c.m.) a dire”. E forse oggi più che mai, nell’era del web, questo rischio corre magari inconsciamente, proprio nel paese che gli ha dato vita. E allora forse alla fine la speranza è che la mia lingua sia una lingua solo ferita.

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