domenica 23 febbraio 2014

Giambattista Bergamaschi

"La Pleiade (quasi un giallo letterario)"

Assolutamente accattivante il nuovo lavoro che Giambattista Bergamaschi presenta ai propri numerosi lettori (on line e in cartaceo): La Pleiade (quasi un giallo letterario), romanzo breve difficilmente etichettabile, tra l'enigmatico e il poetico, il drammatico e l'amabilmente umoristico.

Attratti dal suo agile formato, iniziamo a leggerlo in piedi, su uno smartphone o tablet, mentre saltiamo da un treno all'altro del metro, e alla fine ci rendiamo conto di non essere riusciti a “scollegarcene” che a storia conclusa, dopo aver trascorso una o due orette in piacevolissima compagnia.
Non mancano nel procedere del racconto passaggi di un certo impegno intellettuale o riflessive meditazioni su spaccati di inquietante e stretta quotidianità, ma ogni capitolo scivola e si installa con tutta naturalezza su ritmi narrativi che ben presto si impongono con la necessaria spontaneità del semplice respiro. Intanto... scatta l'immedesimazione, e quelle sessanta paginette ci giocano un tiro curioso.

Ogni capitolo è preceduto da un "suggestivo" (poiché suggerisce) cartiglio atto a favorire un'ottimale lettura del medesimo.
Nel primo, ad esempio, si può [...] osservare come chi narra una storia inevitabilmente tenda a rappresentarvisi quale personaggio - principale o comprimario - e, nello stesso tempo, mal resista alla tentazione di tesservi una sorta di esistenziale “narratologia”, ovvero inventario di consuetudini operative proprie di una personale “officina” letteraria, mentre nel secondo si dice dell'inspiegabile angoisse che - benché mista ad una sorta di creativo enthousiasmós - sempre accompagna la gestazione di ogni manufatto estetico, incluse la narrazione e la poesia.

Ma si tratta anche d'altro, non strettamente letterario, come nel terzo capitolo (Se ogni mondo è paese, alcuni lo sono più degli altri...), nel quarto (Dove si dimostra che molti sedicenti “poeti” son tutt'altro che squisiti campioni di sensibilità), nel nono (Dove si dimostra come anche le più lecite e nobili passioni possano facilmente sconfinare, per trasformarsi in stupefacenti allucinogeni), nel tredicesimo (Dove si dimostra come nella notte non soltanto le vacche siano nere, ma anche le persone) o nel quattordicesimo (I “controfattuali” non sono che effimeri vaneggiamenti. La speranza sarà pure l'ultima a morire, ma alla fine crepa anche lei), per non dire del resto.

Per mano di uno tra i personaggi del racconto, Luca Sargassi, l'autore ci dice innanzitutto di sé:

Scrivo nei ritagli di tempo, durante i giorni di pioggia, quando la scrivania e la testa non sono - come di norma accade - eccessivamente congestionate da mucchi di verifiche da correggere e molto altro; scrivo a scuola, nelle ore libere, tra una lezione e l'altra, se la grazia discende sul mio capo come uno spirito santo, o durante il tempo vacuo e silente d'un compito in classe, dove meno si parla meglio è, o in attesa del mio turno dalla dottoressa; scrivo durante un simposio che in venti minuti si riveli decisamente indegno delle mie rosee aspettative; scrivo la sera, d'estate, in vacanza, sotto una pergolato, seduto su uno scoglio o al tavolo d'un bar, all'aria aperta, guardando il mare o la gente che scorre, mentre mi godo un gustoso toscanello 'premium' (cioè, 'non di tutti i giorni'), di quelli che una volta la settimana mi concedo - lecito piacere, povero, semplice e comune, ben più appagante di tanti disgustosi bagordi di lussuriose e deragliate emozioni oggi à la mode - perché il fumo non torni ad essere un deprecabile vizio di gioventù. Scrivo in auto, mentre attendo mia moglie, taccuino poggiato sul volante, oppure in piedi o infine - se ancor mi accade di prenderne uno - in treno...

Non predispongo mai nulla che lontanamente somigli a micidiali scalette. Il solo pensiero di strategie tanto sterili e banali mi spezza il collo come una garrota.
Al massimo, nel corso della mia carriera di 'scrittore' - a partire dai tempi della prima tesi -, ho graffito qualche mappa concettuale a dir poco aperta e rizomatica su vasti fogli di carta da pacco accuratamente distesi e fissati con lo scotch al pavimento del mio studio, laggiù a San Benedetto.

Oggi, preferisco serbare ben impresso nella mente l'intero canovaccio di una storia per due o tre settimane, il tempo massimo che riesco a concedermi, ad esempio per la stesura di un 'romanzo breve': sulla scorta di una tal generica tessitura, in tutto affine ad una sequenza di funzioni proppiane vivacemente ambiziose d'essere sostanziate di vita concreta, elaboro, preciso, aggiungo, taglio, sottraggo, sposto, modifico, integro...
Il tutto, più o meno consapevolmente.

Ben volentieri piego il capo alle leggi di un Inconscio che confidenzialmente adoro e con cui non ho mai intrattenuto rapporti conflittuali o problematici (come a parecchi invece accade).
Né in passato, né ora.

Di tanto in tanto, recupero qualcosa di interessante dalle centinaia di cartelle in cui conservo migliaia di annotazioni, folgoranti lacerti narrativi, riflessioni, fabule, passaggi da mail, spunti d'ogni genere todo modo riversati sulla tastiera di un pc nel corso degli anni. Stendo brevi schede che poi lascio macerare o liberamente vagabondare in cerca della propria dolce metà; registro in poche righe qualche nucleo concettuale da svolgere o precisare non appena mi sarà possibile, oppure penso, ma non scrivo, in tal modo esponendomi al rischio di perdere ogni cosa forse per sempre.
Starsene per un po' sui ceppi ardenti fa bene all'immaginazione: sapendo che alcun miracolo s'è ancora compiuto, lo spirito si mantiene desto e percettivo per tutto il tempo, in una condizione di attiva passività.
E poi... non è mai accaduto che una buona idea, benché libera di andarsene, non sia al momento giusto tornata a bussare alla mia porta.
Il tempo è un arbitro perfetto anche in questo genere di faccende.
No problem...

Estrema ma non trascurabile confidenza, perché soprattutto in questo vive la più autentica delle magie: non narro mai le mie storie a qualcuno, se non dopo averle prima stese completamente, almeno in bozza. Diversamente, il sogno svanirebbe, la tensione pure, e con essa si dissolverebbe per sempre l'eccitante condizione spirituale propria di quest'ineffabile trovarsi 'in stato di narrazione', tra i cui ingredienti, non ultimo, il non saper mai come esattamente andrà a finire e se davvero ce la faremo”.

Con “La Pleiade”, prova superata a pieni voti!

L'autore

Giambattista Bergamaschi, nato a San Benedetto del Tronto nel 1954, insegna italiano, storia e geografia presso scuola media statale, dove è anche Referente per l’Orientamento e svariati progetti concernenti l’Educazione alla Salute. 
Cura molteplici interessi, dalla narrazione alla ricerca musicologica, dalla didattica della storia alla semiologia, dalla pratica concertistica alla poesia. 
Suona la chitarra jazz e ha pubblicato due propri CD, Sunny e Spleen.


M. G.

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