Prossimamente (14
ottobre 2013)
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STORIELLE
STRASTRANE
di
Giambattista
Bergamaschi
Qualche
(p)assaggio
Da “Milleri”:
Suggestionata da quelle
parole, ovviamente recepite nel puro e semplice loro senso
letterale, Anna improvvisò un minisaggio delle proprie capacità
coreutiche. Levò e roteò plasticamente le braccine, mentre con
l’intero corpicino simulava di librarsi in punta di piedi,
volteggiando da un capo all’altro della stanza, totalmente rapita
dalla propria stessa performance.
Francesco, prontamente
imbracciata la chitarra, le suonava intanto una dolce melodia dal
sapore vagamente orientale.
Da “Piccolo
guerriero”:
Ad esser sinceri, però, fu
un altro lo scrupolo che soprattutto lo allarmò: essere equivocato,
come facilmente accade in tempi forsennati e maldicenti, per quel
certo genere di adulti “predatori”, soltanto perché folgorato da
innocente pena nei riguardi di un esserino tanto indifeso.
Giorni odiosi e farabutti,
i nostri: per far “bene”, si lascia morire…
Da “Qualcosa
nel grano”:
Alessandro guardò meglio.
Nel folto delle spighe che
via via andavano aprendosi, intravide come un indefinibile corpo che
vigorosamente sussultava, rimbalzava e sempre più si avvicinava a
lui.
L’ansia crebbe.
Il cuore picchiava più
forte.
Da “Au
feu rouge”:
Un impalpabile, misterioso
incanto, planando sul nostro da chissà quale altro universo, s’era
gentilmente posato su una limpida,
imperturbabile processione di “santi”.
Da “Birdman”:
Quando Teofilo era ancora
piccolino, comunque fino a che non ebbe 11 anni (età in cui iniziò
a suonare con qualche gruppetto locale) o forse 10 (ancora credeva in
Dio: se ne allontanò a 12 - e fu per sempre -, quando su una
sconsolata ma asciutta paginetta di diario annotò una teoria
quanto meno deista…), s’andava tutti, il giorno di San Francesco
di Paola - o forse era Pasquetta… - fino alla cima dell’omonimo
colle ovvero lungo i suoi dolcissimi pendii.
A “scampagnare”, con
parenti ed amici.
Ci s’andava a piedi.
Da “Volterra”:
Giulio pregò che la
teutonica vettura non li mollasse proprio allora.
In una manciata di secondi
doppiarono anche il terrificante Pit, che in quel nuovo e concitato
frangente gli parve assai meno scultoreo di prima, per non dire
schifosamente strampalato nel suo scomposto dimenarsi latrando, al
modo di un’oscena fiera dantesca.
L’avevano scampata bella.
Da “Izlet”:
Mentre, flottando ad ampie
e calme bracciate, s’andava approssimando all’imbarcazione, che
ormeggiata sul versante occulto dell’isolotto s’apprestava a dar
motore, avvertì correnti fredde lambirgli il dorso, quindi
fluire di lato.
Ombre più scure lo
scortavano, ma non reagì, non si scompose, né ebbe paura, come
avesse rassegnato la propria sopravvivenza ad un superiore Destino,
qualunque sentenza vi fosse già scritta.
E non pensò a nulla.
Limpido e vuoto glissò
fino alla meta.
Da “Izlet”:
Quattro bimbi dai cinque ai
dodici anni, rincorrendosi festosamente, giocavano ludi moderni
in quello stesso cortile che, cinquant’anni prima, li aveva visti
volteggiare come rondini - lui, suo fratello, i cuginetti -,
rallegrando quell’angolo di mondo con fanciullesche risa.
Li sentì intercettare e
quasi attraversare gli ectoplasmi ancora palpitanti di un remoto,
epico passaggio. E intuì, in un suadente “sentimento del
contrario”, che ogni cosa è vana, quantunque bella, e illusorio è
destinato a svelarsi ogni umano affanno.
Più non ebbe nostalgie.
Non quelle di un tempo.
Scordò quante cose avesse
e a che diavolo mai potessero servirgli.
Dimenticò il proprio nome…
Da “La
Grande Opera”:
Lassù, non un segno del
Complotto.
Quelle meraviglie non
erano, e mai avrebbero potuto essere, “opera” umana.
Nessun celebrato inventore
o “architettore” s’era a quelle altezze grandiosamente dato da
fare ad esaltazione di papi, imperatori, principi, re, notabili o
grandi burattinai.
Più di qualche toccante
segno, ancor visibile, a cui tributare devotissima pietà, l’avevano
invece lasciato quanti lungo quella via crucis di pietra avevano
pianto sangue e lacrime di ghiaccio, giorno e notte, arsi dal sole
rovente delle indifese estati o assiderati dal gelo dei più crudi
inverni, combattendo guerre di cui, salvo il dolore, tutto gli era
stato negato: la causa prima quanto quella finale.
Un oscuro gioco, un disegno
perverso, terreno e cosmico insieme, li aveva tutti spediti al
massacro.
Da “Ultimo
giorno di scuola”:
Disparvero quasi tutti in
due o tre minuti.
Non i ragazzini di III A.
Quasi un indomabile
sortilegio li trattenesse irresistibilmente avvinti a quel mitico
punto dell’universo, più che mai indugiarono là fuori, poco oltre
il cancello.
Le bici - quelle sì! -
protese verso il grande mare aperto delle infinite possibilità, prue
di giovani navigli pronti a salpare, ma nessuna di esse osò
sciogliersi dall’amabile intrico.
Si ritrovarono così, per
una decina di minuti, immobili, a parlottare, o anche soltanto
zitti, semplicemente a guardarsi, a studiarsi reciprocamente,
benché ansiosi del futuro.
Un entusiastico desiderio
di andare, per finalmente assaporare iniziali simulacri di adulta
indipendenza, fors’anche di sfrenata emancipazione, una nascente
idea di libertà indiscutibilmente li tendeva in avanti, con
curiosità, con eccitazione.
Ma un istinto indefinibile
tenacemente li frenava, arpionandoli a quel luogo, facendoli sentire
- per qualche residuo istante, forse, prima di glissare per sempre -
ancora attesi, sicuri, protetti, amati …
Fu il loro più tenero
“grazie”… quel restare… senza voltarsi indietro.
Da “Oltre
un parabrezza”:
Ancor più grottesca, però,
una certa meschina pagliacciata che spesso lo vedeva spettatore.
Sempre dentro un’auto,
davanti o dietro la sua.
Mamme fin troppo
sbraccianti, briose o sorridenti mollavano continuamente il volante,
per elargire ai propri “gioielli” miriadi di stucchevoli carezze
o buffetti.
Le “amate perle”
neppure s’accorgevano di loro, mille anni luce remote da lì,
irrimediabilmente perdute in una dimensione spazio-temporale
irreversibilmente separata.
Aliena.
Che pena.
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