Dietro
quella fila di palazzi, un’altra fila di palazzi, poi un’altra ancora e così
per un altro chilometro. Davanti uno spazio molto grande che avrebbe dovuto
essere un giardino. In estate era difficile anche attraversarlo, perché le
scarpe affondavano nella terra divenuta borotalco e d’inverno la fanga era
simile ad un collante: occorreva
molta forza per sollevare le gambe e andare avanti. Così era diventato
impraticabile e i bambini giocavano per la strada, fra le macchine.
Non
sembrava proprio di essere a Roma, eppure il Tevere, generoso come sempre, non
si ribellava a quello scempio e scorreva quasi a ridosso di quei palazzi da
incubo. Passeggiare sulla sua riva ridava dignità e bellezza a quel quartiere
che di lì a poco sarebbe salito agli “onori” della cronaca per alcuni fattacci
e per uno in particolare non proprio edificante. Eppure quasi tutti lì si
alzavano la mattina molto presto: facevano lavori umili che dovevano essere
sbrigati prima che gli uffici o le fabbriche aprissero i cancelli.
In
uno di quei palazzi, all’ultimo piano, abitava un signore ormai in pensione: a
modo suo aveva fatto una bella carriera, pur non avendo titoli di studio
prestigiosi. Non era di certo un bell’uomo, con quell’andatura dinoccolata,
quasi claudicante, e le braccia che andavano per conto loro, indipendenti da
quel corpo non ben modellato. Possedeva però due doti innate, personalità e
fascino: così mi piacque subito e provai
un’ammirazione incondizionata per quello sconosciuto.
Mi
accorsi che quando faceva la spesa cercava di nascondere la busta con il suo
contenuto: forse essendo di almeno due generazioni prima della mia, giudicava
quell’attività disdicevole per un uomo.
Quando
si desidera ardentemente qualcosa, alla fine accade. Mentre stavo parcheggiando
la macchina al lato della strada, sentii una mano delicatamente poggiarsi sulla
mia spalla ed una voce forte, ma gentile che mi faceva notare di aver
dimenticato la luce dei lampeggiatori accesa.
–
Così troverà la batteria scarica – mi disse.
Mi
voltai e diventai di fuoco, era il mio sconosciuto.
–
Grazie!
Percorremmo
ancora un tratto di strada senza parlare, poi:
–
Mi chiamo Paolo.
–
Ed io Francesca. (Oddio!)
–
Possiamo unire i nostri passi?
–
Certo!
–
Voglio raccontarle un fatto strano che è entrato a far parte del mio
quotidiano. Non ne ho parlato mai con alcuno, aspettavo di trovare la persona
giusta per farlo. Ma l’annoio? Le va di ascoltarmi?
–
Sono qui.
–
Ecco una panchina, sediamoci. Da un po’ di tempo, quando la mattina mi guardo allo
specchio, vedo solo metà del mio corpo e non mi dispiace affatto: forse
andrebbe fatto qualche ritocco alla carrozzeria e al motore, ma tutto sommato
non mi sembra di essere disprezzabile. Poi ruoto la testa, chiudo un occhio e
vedo l’altra parte: sono proprio soddisfatto! Esco per il mio solito giro e il
sole si tramuta in cielo stellato: allora metto gli occhiali scuri per vedere
meglio la strada, ma spesso li tolgo perché il sole con le stelle è fantastico.
Sono sicuro che questa è la magia della mia età. Ho dovuto aspettare fino ad
ora, vivere tanti anni, per conquistarla.
Ero
rimasta incantata dalla voce, dalla pacatezza dei suoi gesti.
Era una persona trasparente eppure inaccessibile e avrei voluto scavare dentro
e dietro il suo personaggio per vedere ciò che era veramente. Mi salutò senza
chiedermi quando ci saremmo rivisti.
–
Il nostro quartiere favorirà i nostri incontri. Grazie per avermi ascoltato! –
disse semplicemente.
Era
moltissimo quello che avevo avuto in così poco tempo. Mi sentivo come la
lancetta del barometro fissa su Sereno, ma questo stato non durò molto. Nelle
passeggiate di quartiere ero sempre in cerca di Paolo, all’interno del
supermercato osservavo la gente lungo i corridoi e tutti quelli che facevano la
fila alla cassa. La mattina restavo sempre a casa, seduta su una piccola sdraio
e giocavo ad appendere alle pareti ricordi e speranze. Ma quel giorno un’irresistibile
voglia di uscire mi prese. Il
cielo era scuro e un vento che preannunciava pioggia raccoglieva le foglie,
mentre uno spiraglio di sole, ogni tanto, sconfiggeva le nuvole. Avevo fatto
proprio bene ad uscire.
Camminavo
lentamente quando un capannello di gente attirò la mia attenzione: erano
persone di tutte le età, e tutti annuivano sorridendo. Paolo era al centro e
raccontava di come l’età gli avesse fatto un regalo fantastico, una magia. Si
rivolse ad una signora che si lamentava di non vedere bene cosa avesse da
mangiare nel piatto.
–
Perché se ne dispiace? – diceva – Ora può mangiare tutto, assaporandone il
gusto senza stare a togliere il pezzettino di grasso alla carne o fare intorno
al piatto quel giro (antipatico) di sedano, carota o cipolla che prima scansava.
E anche voi tutti, ascoltate le voci, fate della nuova vita un’arte. Se i volti
diventano sfumati, raccogliete le parole e disegnate solo per voi i visi di chi
vi sta parlando.
La
gente si guardava tra l’incredulo e il divertito, ma il desiderio di provare a
credere in chi aveva avuto in dono la magia dell’età era grande. Anche la
signora triste cominciò a valutare il suggerimento di Paolo e andò verso casa
con una nuova speranza.
Rimasi
immobile a osservare la scena. Paolo sembrava divertito e guardava con
espressione interrogativa tutta quella gente. Alcuni scuotevano la testa come a
dire “è matto!”, altri invece erano pieni di ammirazione per come aveva saputo
affrontare la “magia dell’età” e lodavano il suo proposito di farne dono agli
altri. In fin dei conti ognuno aveva un genitore o un parente molto anziano che
si trovava nelle condizioni di Paolo. Continuarono a fare capannello, cercando
le parole migliori per portare quella esperienza ai loro cari.
– Bel coraggio
chiamare magia una disgrazia!
– Eh sì, per
fortuna non a tutti l’età la regala.
– Abbiamo perso
tempo: lì per lì ha incantato anche me, ma a pensarci bene, tutto questo altro
non è che “la natura maligna” che prima dà e poi si riprende.
– Non sono d’accordo!
Ognuno di noi ha avuto e, se ha saputo apprezzare e godere la gioventù, saprà
altrettanto bene vivere tutta la vita!
– Forse hai
ragione, ma devi ammettere che ci vuole molta forza a definire magia ciò che la vita toglie… – intervenne
quella signora che all’inizio si era mostrata incredula e poi aveva cominciato
a sperare. – Io sto imparando a fare più attenzione alle voci, agli odori, ai
colori – disse – ho capito che posso ancora amare la vita. Bisogna fare come il
bravo marinaio che non potendo cambiare il tempo adatta la rotta.
– Ah la sapienza
delle donne! – gridò un altro signore.
Non
mi avvicinai a Paolo perché non avrei saputo cosa dire. Ero presa nel suo
incantesimo, restava il silenzio e lo sguardo cercava di capire come stavano le
cose per arrivare al nocciolo della questione: l’amore e la compassione per la
vita.
Lui
viveva la vita con passione!
Seguirono
giorni di silenzio e desiderio di solitudine. Si era impadronito di me il
timore di incontrarlo, di incrociare quel suo andare altalenante e quello
sguardo sognatore. Era lo sguardo di chi è vicino a rispondere alla domanda che
tutti noi ci poniamo: quale è il compito di questa vita?
Uscivo
lo stretto necessario e quando lo facevo guardavo diritto davanti a me, evitando
qualsiasi deviazione dello sguardo, ma ben presto capii che dovevo affrontare e
ridimensionare questa condizione. Così un pomeriggio andai sfrontatamente in
giro per la zona.
–
Al diavolo! – mi dissi – Cos’è questo timore?
Pioveva
come se il cielo si fosse finalmente reso conto delle ferite che il sole aveva
inferto alla terra. I miei passi erano svincolati dalla mia mente e quasi senza
rendermene conto mi fermai su “quella panchina”, nell’unica piazza del
quartiere, conquistata dagli abitanti con lotte e sacrifici di anni. Ora ce la
godiamo con la consapevolezza della vittoria e con il ricordo di un periodo di
grande e forte solidarietà.
Alla
sua estremità, qualcuno prese posto lentamente, con garbo. Mi girai anche se
avevo capito, o per meglio dire sperato, che fosse Paolo. Il suo sguardo attirò
il mio, ci avvicinammo come il ferro alla calamita e scoppiammo a ridere in un
abbraccio doloroso e intenso.
–
Bisogna sempre ricominciare – disse – ridisegnare a piccoli passi il nostro
viaggio. Ora è proprio difficile, ma, a pensarci bene, quando mai è stato
facile?
–
Hai ragione – risposi – spesso ci viene chiesto troppo e pensiamo di non
farcela.
–
Solo dopo giorni di silenzio e solitudine sono riuscito a salire il primo gradino
di quella doppia scala, che, arrivati in cima, ci fa scendere di nuovo.
–
Sai Paolo i motivi per risalire sono tanti, non lo dimenticare mai…
Aveva
tra le mani un libro e gli chiesi di farmi vedere la copertina: era Il nocciolo della questione, lo stesso che anche io stavo leggendo.
Di nuovo ci venne da ridere e ci abbracciammo.
–
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante – disse. – È stato uno dei miei
libri preferiti, da quando ti ho conosciuta ho preso l’abitudine di portarlo
con me.
–
Perché? Dimmi…
–
Sapevo che aprendo il libro a caso non mi avresti rifiutato la lettura di
qualche rigo.
Lo
guardai: le sue labbra sorridevano, ma a stento gli occhi trattenevano il pieno
delle lacrime.
Ci
alzammo e il saluto fu un sorriso carico di futuro.
–
Avvicinati! – disse – Vorrei incidere nella mente i tuoi occhi e tutti i
lineamenti del tuo viso.
Quando
fu sazio dello sguardo, andò via lentamente stringendo il libro fra le dita.
Mi
sedetti di nuovo. Non sapevo e non potevo nemmeno immaginare cosa e come
vedesse: dei colori, per esempio, avvertiva tutte le sfumature? Io mi divertivo
a guardare il cielo, a cogliere l’azzurro, il blu, le nuvole e immaginavo che
gli angeli scegliessero dove abitare: i più giovani nel tenero azzurro, poi nel
blu e nelle nuvole quelli che dovevano ancora decidere. Paolo aveva la mia
stessa possibilità? Mi alzai quando l’oscurità si era fatta affascinante e
voleva tenermi attaccata alla panchina.
–
Il nostro quartiere favorirà i nostri incontri… – pensai che fosse giusto e avrei
lasciato al caso il resto della storia.
Però
da quel giorno presi l’abitudine di girare con il libro tra le mani.
–
Non si sa mai – pensavo, e io stessa lo aprivo e rileggevo qualche breve
tratto.
–
Per favore un cappuccino e quel maritozzo con panna – sentii chiedere una
mattina in un bar.
Mi
avvicinai e sussurrai al suo orecchio.
–
Non è un maritozzo con panna, è uno di quei dolci fatti tutti di zucchero. A me
non piacciono, però…
Una
sonora risata ci distinse di nuovo. Io mi sentii liberata, perché avevo avuto
il coraggio di non mentire per pietà e lui aveva riacquistato quella dignità
che spesso togliamo, anche in buona fede o per pudore, in queste situazioni.
Da
quel momento avemmo la certezza che quando si vuole ci si può incontrare: una
sorta di empatia lo permette, se non
ci richiudiamo e usciamo fuori.
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