giovedì 24 gennaio 2013

Non è trascorso nemmeno un anno

di SubhagaGaetano Failla

Non è trascorso nemmeno un anno da quando il treno ha abbandonato questa stazione.
Mi sorprende la rapidità impetuosa con cui alte erbacce hanno quasi cancellato, divorato, i binari e le traversine. Dove prima passava il treno, in un itinerario così ordinato e controllato – un destino, una fatalità – adesso vive una vasta striscia verde intricata. Appare ancora qui e là, come in un affanno, qualche macchia nera di legno che unisce due segmenti metallici divenuti opachi. Guardo recenti graffiti sul muro, scritte troppo appariscenti che urlano passioni amorose e sportive. Il tempo concesso ad esse, alle passioni, sarà molto più breve di quello offerto alla vita della stazione.
Alzo il capo, sento l’attrazione celeste, m’accorgo dei miei passi. Poi siedo su una vecchia panchina di ferro evitando una chiazza di ruggine, e attendo. Ho lasciato abbastanza posto per un’altra persona.
Giunge un giovane alto e robusto, dai tratti mediterranei. Ci scrutiamo in cerca d’un indizio, io rischio un cenno d’intesa, mentre l’altro stringe gli occhi come a focalizzare meglio la mia faccia. Sorride indeciso. Una indecisione quieta, un buon mezzo sorriso. Si avvicina, pronuncia il mio nome chiedendo una conferma. Rispondo di sì. Mi dice il suo nome, le nostre mani si uniscono, sento il calore del contatto. Infine siede sulla panchina. La macchia di ruggine ci distanzia un po’.
Rimaniamo in silenzio. Il suo sorriso si apre verso il mio volto, poi devia lo sguardo sulle mie ginocchia e davanti a sé.
“Hai visto?” dice, indicando con la testa la rigogliosa striscia verde.
“È il tempo,” rispondo. “Cancella tutto.”
I suoi occhi si muovono, si smarriscono. Forse ha perduto una traccia, e la luce del suo sguardo si attenua come offuscata da un velo.
“Il tempo…” mormora in un sussurro appena percettibile. “Il tempo non esiste.”
“Bella frase. Fa sempre il suo effetto,” affermo d’impulso.
Mi accorgo troppo tardi del mio sarcasmo. E nel tentativo di porre riparo a quel tono ruvido, aggiungo:
“È il tempo che ha fatto sparire la ferrovia della nostra infanzia, è il tempo che ha cancellato anche la memoria della tua breve esistenza.”
“Ma io adesso sono qui,” risponde il ragazzo a bassa voce.
Il giorno già sfuma a occidente. Le ombre lunghe di novembre tolgono il fiato. L’autunno è la stagione dei fantasmi e dei ricordi, il tempo che lotta con sé stesso.
“Dipingi ancora quei quadri d’altri mondi, quei paesaggi evanescenti?” chiedo sommesso.
“Dipingo ancora. Fiori. Dipingo fiori, adesso. Iris. Ma i quadri che ricordi non rappresentavano altri mondi. Erano immagini del mio mondo, prima…”
“Prima dell’incidente,” dico in un bisbiglio.
“Molto prima dell’incidente. Erano i mondi della mia esistenza, prima di giungere in questa più recente nascita, e nella morte di cui parli…”
Oltre un vecchio steccato, oltre il garbuglio d’un canneto, una striscia rossa, una specie di vena aperta, attraversa il cielo sull’orizzonte. Il buio potrebbe sorprenderci insieme, penso, nell’oscurità sarebbe indistinguibile la natura d’un fantasma.
“Cos’è allora ciò che chiamiamo tempo?” chiedo d’un tratto, in un tono cupo, non voluto, come se la domanda e l’umore della mia voce mi fossero entrambi sfuggiti.
Il giovane uomo porta la mano sulla guancia, volge lo sguardo sulla ferita rossa nel cielo. Poi, con l’altra mano, traccia nell’aria, lentamente, una linea sinuosa e ondeggiante. È un movimento simile a un gesto di danza, le dita sembrano piegarsi fluttuando nelle correnti aeree.
“Tornerai?”
“Non sono mai andato via,” risponde dolcemente. “Soltanto i treni possono partire e svanire. Io sono sempre rimasto qui, ovunque.”
Non mi consola la sua risposta, non credo a quel che dice. E so che resta poco tempo, ormai.
Giunge il buio. Le tenebre non ci uniscono. Sono di nuovo solo.



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