martedì 16 agosto 2011

Il mare



Vi sono momenti in cui mi sembra d’essere vicino a uno
spiraglio di verità, di cogliere una trasparenza simile a
un significato intero.
(Carmelo Samonà,  Fratelli)

Turner, Vapore durante una tempesta di mare
   Può essere un odore, le pagine d’un vecchio Grand Hotel impregnate di muffa oppure il profumo dei fichi sopra una foglia in un piatto chiaro. Può essere una rossiccia alga marina che dischiude afrore di profondità se strofinata sulle narici, o l’umore d’una stanza, psichismi che a volte ci sembra di toccare. Sarà forse un disegno a matita – il volto d’una giovane donna con un ampio copricapo floscio che si confonde con la chioma fluente fin sulle spalle. Seguiamo allora il segno che ripassa un mento esile, pudico, e i contorni degli occhi come kajal  apotropaico d’un neonato; percorriamo quei sentieri che creano un fiocco pendulo sbocciante da un nastro del cappello, e gli orli d’arabeschi del suo tessuto lieve, la curva della camicetta sopra i seni – e scrutiamo il cauto movimento sulla carta di riso, cerchiamo le dita strette verso il limite appuntito della matita. E dalle dita ci pare di sentire il tremito quasi impercettibile d’una mano e poi un respiro.
   Esco per fare colazione. Un cappuccino e una brioche, se è ancora possibile. Di nuovo nuvole in cielo, una distesa bassa che cala sulle prime colline. “Che estate,” si dice in giro.
   Porto un libro con me. Farò il signore d’altri tempi, a leggere nel giardino del bar mentre rallento i gesti verso la tazza calda e il dolce alla crema. Tuttavia i fogli dei libri mi appaiono adesso dispersi ovunque, in quel che vivo, sono incarnati nelle vicende quotidiane, ed è inutile sforzare lo sguardo sulle righe a stampa.
   Il bar mi offre quel che cercavo. Non mi sorprendono più gli enormi titoli dei giornali esposti tra la cassa e il bancone. Il proprietario ha un sorriso immobile, è abile nel districarsi con un unico volto nel garbuglio di giorni come questi. Alcuni clienti fingono banalità, ma l’inesperienza li tradisce.
   Il forte vento di notte ha portato altri rottami, il giardino dove siedo solitario è stato difeso a stento. Apro il libro, mi sporco le labbra con la schiuma del cappuccino, leggo frasi e parole sparse.
   Il mare continua ad avanzare, lambisce i confini della città e in alcuni tratti ha superato le barriere protettive. Mare eravamo e mare saremo. Come quella frase sulla polvere. Il mio sonno è invaso dal rumore delle acque che s’infrangono e dal rombo crescente di questa immensa creatura liquida.
   Non è una ossessione o un mostro, come qualcuno bisbiglia a occhi spalancati. È nostra madre, padre, fratello, sora nostra Morte corporale.
   Col mare sono giunti gli uccelli, innumerevoli, talvolta chiassosi, sembrano fuscelli naufragati nell’aria. Il sole appare di rado, spezzato tra nuvola e nuvola. I tramonti più visibili si spandono in impiastri avvampati nei vapori salmastri e le aurore hanno spesso il tepore  della prima cenere. Mi incantano le luci estreme  e iniziali – i commiati e gli esordi –, poi mi accorgo d’altro.
   Indugio nel giardino per mezz’ora.
   Vado a pagare: cinque euro e dieci.
   “Un notevole aumento,” dico.
   “I tempi sono difficili,” dice con un sorriso il proprietario alla cassa mentre mi porge lo scontrino.
   “Già, è vero,” rispondo. “Grazie. E arrivederci.”

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