recensione di Marco Scalabrino
Con CIATU del 2004 e con POESSIRI del 2008 abbiamo conosciuto Flora Restivo quale Poeta. Sui temi e sulla forma, sulla progressione e sugli esiti della sua poesia sono stati spesi da più versanti autorevoli e lusinghieri giudizi. Nondimeno eccoci per le mani un suo nuovo lavoro: non poesia, come ci saremmo aspettati, bensì prosa, ancorché sempre in Dialetto. Questa virata merita un esercizio di decifrazione: la nostra è che, attraverso la breccia che la Poesia ha aperto, una regione dell’Autrice fino a quel momento segreta, recondita, inconfessata, quella regione carsica venutasi a creare in tutta una vita dalla sovrapposizione degli strati ancestrale, sociale, culturale, trascinando con sé custodite memorie, esperienze, sentimenti, si sia rivelata e, felicemente assistita dal suo genuino talento, abbia conquistato naturale, confacente sbocco. Una diversa cifra, quindi, una ulteriore opportunità, un aggiunto tramite mediante il quale svelarsi, ampliando l’orizzonte della sua comunicazione. E perciò nessun addio alla poesia, che peraltro ci risulta lei continui a frequentare con dedizione, quanto la chance per adempiere a una ritrovata occorrenza.
Di solito coloro che prediligono la misura del racconto ne allestiscono una serie: Flora Restivo per la precisione dodici; una dozzina di racconti dei quali si elencano in accesso random i titoli: STORIA DI MARIA, 8 MARZU, DDA NOTTI CHI SPARIU LA LUNA, MANU PILUSA, L’ALI DI ANCILU, DUMANI NI PARRAMU, FRANCU, L’EGITTU È SEMPRI L’EGITTU, NOZZI D’ARGENTU, ACCIA E AMURI, LITTRA, CASA E PUTIA. Nomi, date, contingenze. Tuttavia non una mera passerella di eventi, una pittoresca riedizione di campioni, una artificiosa condizione per raccontare e raccontarsi… bensì la restituzione alla collettività di alcune fette del patrimonio memoriale di una generazione, quella nata nell’arco della seconda guerra mondiale, l’invenzione e/o la riproposizione di storie che ci appartengono, l’epifania in chiave catartica di dolorose vicende. Testi che la Nostra ha permeato di tutto il suo temperamento, nei quali ha infuso la sua visione dell’esistenza, ha disseminato per intero il suo animo e che pertanto, benché ciascuno in sé concluso, vanno contemplati nell’ideale collegamento unitario con tutti gli altri inclusi nella raccolta.
Flora Restivo mostra di essere discente responsabile e di avere tratto profitto dalla lezione di Edgar Allan Poe: ognuno dei suoi racconti il lettore potrà infatti leggere «in un’unica seduta». Tranne in seguito, magari, arrendersi alle vibrazioni: rilevare l’accentuato impiego dell’“a capo” allo scopo di suscitare un ritmo più incalzante; chiedersi se «catuniari» derivi da Catone, nell’accezione di censurare; felicitarsi che Maria «nun po essiri a lu nfernu, datu chi già l’appi nna ssa vita» e soggiorni adesso nel «munnu di la virità»; consultare il dizionario per apprendere il senso di parole quali «vunciasacchetti», «murriuni», «scannalia», «straviarisi», «capizzu», «spinnata»; capitolare di fronte alla sottile amara traboccante ironia, ad esempio in pesci freschi usciti «di lu sarcofagu di Ramessi!», «pruvamu cu Allah, datu chi “addabbanna”, pi ora, nun funziona», «quannu vitti li carrubbi virdi nna l’arvuli, ci parsiru favi»; meditare sulle amicizie “eterne” delle vacanze le quali «a viaggiu finutu, addiu, ma ddà parianu pi la vita»; appurare che il matrimonio fila a dispetto della “bellezza” del partner, ma che laddove esso va a rotoli e i coniugi si separano «fari di patri e matri facili nun è», capita che i genitori non si accorgano del malessere dei figli, di quanto per gli adolescenti «divintari granni è difficili», e che nel dramma, sempre incombente, una madre può addirittura sdoppiarsi: una «di li dui Anni» rannicchiarsi e morire col figlio come a non volerlo lasciare mai, l’altra alzarsi, «si susiu», guardarne il dolce, remoto sorriso, vederne «li vrazza aperti, vistuti di sita bianca» come «ali di palumma» libere di volare senza più barriere in un’abbagliante misteriosa apoteosi di azzurro e sole, quindi ravviarsi i capelli con le mani, straziata e consapevole che l’aspettava «na jurnata veramenti longa»; scorrere una lettera d’amore, «Pi mia fusti tu … nun durau tantu tantu … [ma] nun finiu mai», da Guinness dei Primati, il primo singolarissimo caso di un «discursu curcatu», in cui il redattore/mittente è «tisa a puntu giustu», ha «na matarazzedda di rasu» sotto, «un velu» sul viso, tutt’attorno «qualchi ciuri» e come non bastasse lei di persona consegnerà all’ignaro destinatario la struggente missiva; affrancarsi da una pena trattenuta per decenni: la malattia e la morte, a causa di «na mpudda» e nonostante «Patri Piu scuncicatu», di un giovane l’«occhi di re arabu», circostanze nelle quali l’individuo appare privato di ogni dignità: «Cui è malatu perdi dirittu a l’affruntu, dutturi chi talianu, nfirmeri chi murritianu, senza rispettu, tuttu a luci china, comu si unu finissi d’essiri pirsuna pi divintari na cosa di studiari: un casu clinicu»; assistere a un corteggiamento, che se il racconto è inventato è oltremodo spassoso, se reale è decisamente da sballo, a suon di sedano in luogo delle classiche rose: «un pezzu d’omu, piacenti e finulicchiu, chi teni ‘n manu lu chiù granniusu mazzu d’accia mai vistu»; penetrare la sincerità, l’affezione verso i discriminati, gli sventurati, i vessati e le loro storie, la “fame di un significato nella vita” (E.L. Masters in Spoon River) che attraversa tutta la silloge.
Lu prufissuri Etilicu, Nzula mustazzola, Caloriu Tagghiaecusi: soprannomi, nomignoli, epiteti. In epoche anteriori li avremmo appellati peccu o nciuria, ché naturalmente tali lemmi sono integrati in un mondo ormai in dissolvenza, in un consorzio umano in disgregazione, in una corte culturale all’epilogo. Endemiche in passato e oggi praticamente scomparse, li nciuri, che sovente venivano “ereditate” dai discendenti di coloro che ne erano stati per così dire titolari, consentivano l’identificazione pronta e indubbia di un casato e di un soggetto. La loro gamma era assai variegata e le origini legate a un mestiere, a uno speciale attributo fisico, a un atteggiamento caratterizzante. Ne riportiamo, solo mo’ di esempio, in prestito da Titta Abbadessa, talune più “colorite”: Ninu causilenti, Angilu cacaligna, Giuvanni funciazza, Matteu mattiddina, Pippinu mustazzu, Miciu favisquadati, Vicenzu pisciafinocchi, Affiu masciuscia, Mariu uccad’aneddu, Neddu micciastotta, Cammelu cicireddu, Ninu manazza, Nunziu menzuculu, Peppi urrocamotti, Turi babbaleccu.
E ancora, in ordine alla scrittura, è distintiva del Siciliano la costruzione sintattica col verbo in fondo alla frase: «Pasquali sugnu», «nna li ragiunamenti di so muggheri beccu nun ci ni mittia», «beddu avia nasciutu» … differente dall’Italiano, che rispettivamente li rende con: sono Pasquale, nei ragionamenti della moglie non metteva becco, era nato bello.
Flora Restivo, donna e scrittrice, è pianta dalle solide radici e dalle fronde costantemente rinverdite, in cui la prassi dei canoni classici e dei modelli attuali riescono a conciliarsi in un mutuo tollerante equilibrio. Siamo nel terzo millennio, la società si è profondamente trasformata; nei quartieri alti, nei centri storici, nelle periferie una sorta di «speci mitologica» si aggira: «lu cumpagnu [che] nun è né zitu né maritu [ma] mità chissu e mità chiddu» e lei, con attitudine a recepire i segni del tempo, apertura mentale, perspicacia, conia ad hoc il termine, «zima», dalle sillabe iniziali di zitu + maritu, che non ambisce affatto ad acquisire dignità di neologismo bensì solo a risultare un arguto espediente, ed altresì, per l’equivalente muliebre, «zimu», palesemente da zita + muggheri.
«Nun c’eranu stiddi e na nuvula, a la ntrasatta, avia cummigghiatu la luna.» Una nuvola assai opportunamente errabonda, la luna per un attimo spegnendosi, il repentino buio, “complici” di un crimine; un omicidio che essi si adoperano acciocché non venga visto, quasi sparisca, pressoché non esista. Un assassinio è sempre un assassinio; ma tali sono stati la precedente efferatezza che lo ha provocato, il disprezzo lungamente covato e che ha mutato una vittima a sua volta in un carnefice, l’ignominia da un canto perpetrata e dall’altro subita che la Natura, che pure contempla la crudeltà tra le sue leggi, pare comprendere, promuovere, coprire l’uccisore. I frangenti nei quali è maturato il delitto, i due protagonisti principali, la chiusura del caso, non riteniamo delicato anticiparveli; ma qualche indizio sì: l’arma e il pozzo. Una pala. Di più: una «pala bedda grossa», ma non una comune pala grossa, bensì giusto quella utilizzata per il letame, quella «chi sirvia a don Tanu pi spargiri cuncimi», ad accentuare a bella posta la repulsione dell’uno verso l’altro; il pozzo, la trovata di questa short story, «ntanatu, ammucciatu di na macchia e cummigghiatu di na balata», profondo e capiente, «ci tirau na giaca e parsi chi passau un seculu prima di sentiri lu scrusciu», insostituibile «di tannu» in poi per scaraventarvi «tuttu chiddu chi ci dava nociu». E quella sera d’estate, fatto fuori con un solo prodigioso colpo l’uomo e il suo fido amico, sbarazzatosi del cattivo di rito e dell’unico testimone che avrebbe potuto “parlare”… richiusone il coperchio «la luna avia scumparutu arrè».
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