di Enrica Musio
Quando ero bambina e avevo circa otto/nove anni, essendo nata con una miopia e un po’ di strabismo, avevo bisogno di cure, allora il mio oculista mi consigliò di fare degli esercizi di ortottica agli occhi.
Dovevo andare quasi tre volte a settimana a Forlì nell’ Ospedale Malpigli, in un sottopiano dell’Ospedale, e passavo dei cunicoli bui che mi facevano venire ansia, ma non mi preoccupavo: ero sempre in compagnia della mia mamma.
A Forlì si andava con la 500 rossa della Fiat. Nell’Ospedale mi facevano fare sempre tanti esercizi, ma io adoravo quello dove c’era una mongolfiera colorata che saliva nel cielo tutto blu.
Un giorno, mentre tornavo a casa con la mamma con la 500 rossa, in corso della Repubblica, dove c’è anche lo zoo comunale, e dove mio padre mi portava assieme alla mia sorella, a vedere gli animali, le tigri, gli elefanti, i leoni, le zebre, le scimmie, i lama… nella fila delle macchine, arriva forte e ci stringe a più non posso un grosso camion (un TIR), ci viene dentro e ci tampona: la 500 fu ridotta maluccio, io ebbi tanta paura, gridavo e urlavo e piangevo, mia madre cercava di rincuorarmi e calmarmi. Lei poi scese con la sua paziente calma e si mise a discutere con il camionista, che a mia madre diede torto marcio e la insultò parecchio. Mia madre, educata, cercava di dialogare con il burbero e rozzo camionista, ma era tutto inutile: in quel mentre in macchina si fermò un nostro caro conoscente e vicino e amico di famiglia (Carlo), e mia madre gli chiese a di andare al Comando dei Carabinieri di Forlì, dove c’era mio padre che lavorava alla RadioMobile come centralinista, e mio padre arrivò con la gazzella nera e la sirena accesa, assieme a un suo collega, e ancora il camionista più tenace non voleva sentire ragioni.
Dopo molte ore di trattative estenuanti, fermi allo Stadio Comunale di Forlì, riuscimmo a spuntare la situazione e ad avere ragione.
Però si era fatto molto tardi e dovevamo tornare a casa, andammo per strada molto piano, e arrivammo a casa un po’ di notte e i miei nonni erano molto preoccupati.
***
Il ricordo incomincia che ero una ragazzina, stavo in vacanza, era una calda estate ed ero con la mia sorella, nel Salento, da mia zia: stavamo molti mesi da lei e da suo marito, un professore di greco e latino; io ero affascinata da queste strane lingue antiche, poi, crescendo, ho compreso che queste lingue sono una buona base per una buona cultura letteraria.
Mi raccontava sempre di strani personaggi: Catone, Cicerone, Aristotele, Omero, Virgilio, Seneca.
Mi soffermo su una avventura che coinvolseanche mia sorella, mentre si andava al mare, in un posto mitico che si chiamava “Isola”.
Ci svegliavamo la mattina molto presto, e ci portavamo dietro tutto l’occorrente per stare al mare tutto il giorno.
Ci si incamminava per tutto il paese, poi scendevamo per una discesa e si finiva su una strada in aperta campagna, dove sentivamo il frinire delle cicale e passavamo accanto a una chiesa abbandonata “la chiesa del Diavolo” che a me faceva tanta paura.
Molte volte incontravamo anche un contadino in bicicletta che ci salutava.
Si arrivava al Borgo dei Pescatori del porto, c'era una grande discesa e io la percorrevo a zig zag, mi divertivo molto.
In lontananza si ammirava Punta Cannone.
Dopo ci attendeva una lunga camminata per arrivare all’Isola.
Quando si arrivava, si trovava un muro con canne molto alte, la terra rossa, e una scaletta stretta di tufo, e una mega distesa di scogli.
In mezzo al mare c’era “l’Isola”.
Attendevo qualche ora per buttarmi in mare e a fare un bagno, fino a farmi diventare le dita morelle dal freddo.
Nell’Isola c'erano anche gli amici del mare: la Gabry, Silvia, Marcella, Edo, Tommaso e Giuseppe sempre con la fiocina a pescare i ricci e i polipi.
L’isola era piena di ricci, patelle e polipi.
Le patelle sono delle piccole cozze molto piccole; molto buone; come i ricci di mare.
Una volta ho avuto la brutta disavventura di essere aggredita da un branco di meduse: mia zia mi curò con potenti antinfiammatori e antibiotici.
Nell’Isola facevo tanti tuffi.
L’isola è stata galeotta anche nella storia d’amore, mi piaceva e mi ero innamorata di un bambino laziale che si chiamava GianDomenico.
Però in questa vacanza finì male; mi ruppi un braccio e dovetti tornare a casa, portare il gesso, e andare a scuola con il gesso al braccio che poi tutti i compagni scarabocchiarono.
Ricordo sempre “l’Isola” con il suo mare magnifico, invece qua a Rimini il mare fa veramente schifo!
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