Andrea Monda, Elena Varriale, Morena Fanti, Nino Di Paolo
e Stefano Martello per la sezione racconto
sono lieti di premiare i seguenti autori
I. ex aequo Vola colomba, Rita Nicolaidis (Castiglione delle Stiviere)
Sono di origine greca, come si evince dal cognome, ma la Grecia, quella antica, l’ho conosciuta attraverso i massimi filosofi dell’antichità con i quali sono entrata in contatto nella scuola superiore prima e con la laurea, poi, conseguita presso Università degli studi di Bologna: in ultima analisi ciò che conta è acquisire strumenti per vivere la vita al meglio e fino all’ultimo, nonostante le mille difficoltà che mi si sono presentate negli anni… Vivo e risiedo in una ridente cittadina “che dolcemente si arrampica” sulle colline antistanti il lago di Garda, Castiglione delle Stiviere. Lavoro in qualità di impiegata in una biblioteca del ministero della giustizia, dipartimento giustizia minorile, che svolge anche servizio di apertura al pubblico ma collabora – per lo più in via telematica – con tutte le biblioteche della provincia di Mantova poiché di fatto fa parte del sistema bibliotecario dell’ovest mantovano. Sono in ogni istante a contatto con titoli di libri e i libri stessi intesi come documenti fisici. Mi piace molto inventare percorsi di lettura e promuovere il catalogo della biblioteca intersecando patrimonio librario con patrimonio filmico e dare aria, meglio ossigeno, a materiale librario che rimarrebbe fermo a scaffale a prendere polvere.
“Il lavoro che non ingrana come dovrebbe. L’automobile con troppi chilometri addosso. I metri quadri che non ti consentono privacy. L’assicurazione, la cena (ti prego, vestiti meglio) e gli appuntamenti. Tutte fesserie. Grazie di cuore per avermelo ricordato, anche se mi sfuggirà dalla testa tra dieci minuti.” (Stefano Martello)
“Ho scelto questo racconto innanzitutto per il linguaggio fresco e diretto, libero da espressioni formali e, per questo, preciso, corretto e chiaro. Il percorso interiore della protagonista e la relazione con il suo sparring, il fisioterapista, tengono il lettore sulla corda benché la storia sia una storia di ordinaria difficoltà del vivere: la sfida quotidiana contro una grave disabilità. La normalità di una condizione difficile e l’unicità della strada intrapresa per sfidare tale condizione, lo scontro, dentro di sé, tra il non voler essere compatiti e la necessità concreta di aiuti sono gli argomenti brillantemente presentati in questo gradevolissimo racconto.” (Nino Di Paolo)
Cap. 6
Camminando con Rita!!
Camminando con Rita!!
Ricordo come fosse ieri le prime sedute di fisioterapia in via ***. Un ricordo lontano, ma sempre vivo, come a sottolineare da dove siamo partiti: qualche passo nella cameretta, lento e impacciato, un bastoncino, le scarpe da ginnastica, la tutina azzurra… Gli ingredienti giusti, insomma…
E facendo un passo alla volta, uno dopo l’altro, di strada ne abbiamo fatta… Proprio così, abbiamo: è stata una lunga e costante crescita per entrambi, passando attraverso le paure, le difficoltà, le crisi, com’è ovvio, ma sperimentando anche grandi gioie e soddisfazioni.
In fondo, anche il Fuso ne scrive, a un certo punto:
Dai pochi passi nella tua cameretta sei arrivata all’autonomia, alla tua stupenda casa, al tuo lavoro, alle tue passeggiate al parco e soprattutto alle tue ferie!!
Ormai “la banda”, come la chiamo io, la conosco bene: so le sue debolezze, ma soprattutto conosco le sue risorse e le sue capacità, sono davvero tante!
Credo non si possa avere che un’infinita stima per una ragazza che ha speso anni e sacrifici per riguadagnare la propria libertà che il destino in un attimo le ha tolto. Non c’è nulla di più importante di questo bene e riconquistarlo penso sia il più grande successo di una vita!!
Non sto scrivendo a te Rita, ma ad un ipotetico lettore che ti conosce appena, magari di vista, un tuo compaesano, che incroci nell’andare al lavoro. Mi piacerebbe solo che tutti sapessero di questa tua conquista e, visto il clima olimpico di questi giorni, eccoti mettere al collo la medaglia d’oro per la forza, la tenacia e il coraggio che ti hanno contraddistinto in questi anni… Sei forte Rita!
Il fisioterapista, SF (Super Fuso)
I. ex aequo Il passaggio a livello, di Elliot Sedgwick, Simone Mazza (Parma)
Nato a Parma nel 1969, si è laureato in Filosofia con una tesi sulle Fiabe popolari, che rappresentano ancora un suo privilegiato ambito di indagine e sulle quali ha scritto numerosi articoli per diverse riviste specializzate. Abita a Parma, dove svolge la professione di docente di Lettere nella Scuola Secondaria inferiore e ha avviato anche un'attività di servizi Internet. Ha pubblicato due raccolte di racconti (una con Fara) e altri suoi racconti sono stati selezionati in alcune antologie.
“Ben costruita la prima parte con dei dialoghi da cui traspare la condanna di chi vive con le parole. Quel legame stretto con ciò che ti accade ogni giorno; quella influenza (nemmeno troppo sottile) che ispira o affossa le tue parole. Il testo meriterebbe uno sviluppo più ampio, integrando maggiormente la fase di confronto con la fase di scrittura.” (Stefano Martello)
“Molto intrigante l'idea dei diversi piani narrativi e delle storie che si rincorrono: l'autore è scrittore della sua storia che s'intreccia con la gestazione del futuro romanzo.” (Morena Fanti)
“Racconto originale (ma non troppo) sia nei contenuti che nella forma. Rifulge l'uso disinvolto di appunti, stralci di conversazioni telefoniche e mail come strumenti di un'indagine metaletteraria sul processo creativo.” (Andrea Monda)
30 Luglio. Idea per un nuovo romanzo (appunti).
Ci sono delle macchine che si accumulano in coda ad un passaggio a livello di campagna. È un punto di accesso ad un paese piuttosto laborioso, molti devono passare di là per andare al lavoro. È un grazioso scorcio di campagna, allʼinizio della primavera, ancora fresca. Ma verde. E fiorita. Si intravedono i camini delle prime fabbriche in lontananza, ma la nebbiolina del mattino, persistente, le sfuma un poʼ.
Punto di vista di uno di questi? Harry (o Henry) valuta se può tornare indietro, ma non si può: la strada è troppo stretta. Impreca. Molta gente ha ancora il motore acceso, pigia nervosamente – a scatti più o meno regolari – sull'acceleratore. Qualcuno fuma, con il finestrino abbassato; e si sente della musica (ritmo dance), da altri esce la voce della radio.
Piano piano le macchine si spengono e anche i rumori delle radio; lasciano il posto alle imprecazioni e alle domande senza risposta di qualche macchinista (cosa sarà successo? Ma quando passa il treno? Bisogna che chiami al lavoro! Porco qui porco là…).
Le persone cominciano però a stufarsi anche delle loro sterili lamentele e cominciano a parlare tra loro più compostamente, raccontandosi i disagi della situazione, le conseguenze sulla loro giornata di lavoro, sugli appuntamenti; qualcuno doveva persino andare a trovare la vecchia zia malata allʼospedale di Xyz.
Le discussioni si fanno a poco a poco meno banali e più interessanti.
Per esempio, si riflette proprio sui ritmi di lavoro ossessivi, su come la perdita di un poʼ di tempo per un treno che non arriva ha allʼinizio una carica ansiogena eccessiva, ma poi tutto si sgonfia poco a poco. Qualcuno scopre che un altro abita vicino a lui e cominciano a parlare e a conoscersi meglio…
Insomma, cominciano ad accadere delle cose “strane”, per cui le persone ferme al passaggio a livello COMUNICANO tra loro e scopriono che questo tempo usato per le relazioni è un tempo non perso, è qualcosa di divertente e gratificante, seppur temporaneo.
Non solo, ma il silenzio della campagna prende il sopravvento sulle esclamazioni sguaiate e sui rumori della quotidianità industriale (le macchine, le radio a tutto volume), dagli alberi si sente persino il cinguettio di qualche uccellino, qualche cicala e il paesaggio diventa quasi più colorato. Questa compostezza della natura induce le persone a mantenere un tono garbato e un atteggiamento gentile, quasi ne fossero istruite. Quello spazio armonico di
silenzio e di tempo da spendere diventa una specie di scuola, un luogo dove si scopre (o riscopre) il senso delle cose, dove si verificano i propri sogni, dove si ristabiliscono delle distanze, dei valori; e soprattutto dove i rapporti acquistano
un significato prioritario su tutto il resto.
A tal punto che, dopo diverse ore (?), quando arriva il treno, questi non hanno più tanta voglia di chiudere le macchine, riaccendere i motori e riprendere la routine che allʼinizio avevano interrotto così a malincuore. Quando si alza la sbarra sul passaggio a livello, nulla è più come prima (forse).
NOTA: chiamare rappresentante dellʼeditore (Hanna)
II. Lo srotolamento, Attilio Melone (Savona)
«La forma racconto per comunicare domande, tesi e questioni riguardanti una delle ultime frontiere, in ordine di tempo, del pensiero e della ricerca scientifica: la scoperta di altre dimensioni del Reale. Sono quattro, sette o undici ? Oltre il tempo sono solo tutte spaziali le altre ?
Rapporti di simpatia e buon vicinato sono il pretesto per affondare la lama in queste affascinanti disquisizioni. Un racconto originale, specie nella parte in cui affiora la domanda sulla diretta incidenza del Pensiero nelle modificazioni (o addirittura nell’apparire) di alcune delle Dimensioni possibili.» (Nino Di Paolo)
Alessandro Baricco ha scritto che il vero talento “è possedere le risposte quando ancora non esistono le domande”. E nel costruire i pensieri del professor Elianteo Tolmi, l’autore non solo socraticamente “sa di non sapere”, ma scommette tutto sulla domanda delle domande, scommette sui perché. Il suo è infatti uno “srotolamento” di ragionamenti, ipotesi, immagini e parole che sottintendono altrettante possibili ipotesi scientifiche e filosofiche parallele e per ognuna di esse, il punto d’arrivo si trasforma subito in un nuovo punto di partenza. Il vero protagonista del racconto diventa così il logos, la mente creatrice che nel suo interminabile viaggio nei perché prende coscienza di un’ unica possibile certezza: basta un’idea per cominciare un Mondo. (Elena Varriale)
Il professor Elianteo Tolmi è una persona riservata, ma non troppo. Da quando lui e la signora Valentina sono venuti ad abitare nella villetta a fianco della nostra, la mia vita, prima sovente disturbata dalla turbolenta prole dei vicini che li hanno preceduti, è diventata più tranquilla, ma non per questo noiosa.
La mattina, il professore ed io usciamo da casa pressappoco alla stessa ora e percorriamo il medesimo tratto di strada che ci porta verso Milano, finché lui s’infila nel posteggio della metropolitana. Io, invece, imbocco la tangenziale che mi porta a Corsico. Spesso ci rivediamo la sera, quando ritiriamo l’automobile in garage e non manchiamo mai di fare quattro chiacchiere.
Siamo diventati amici, ma abbiamo impiegato un po’ di tempo.
Erano già passati parecchi mesi dall’arrivo dei Tolmi ed io non sapevo ancora che cosa facessero. Mi ero fatto l’idea che la moglie fosse in pensione e che il marito stesse terminando una qualche carriera in un ufficio al centro della città e tanto mi bastò finché, una sera a tavola, mia moglie Lucia mi parlò di loro. Lucia è molto riservata: teme tanto di essere ritenuta invadente o pettegola che correre il rischio di sembrare indifferente. Il fatto che mi raccontasse qualcosa a proposito dei nostri vicini, quindi, mi sorprese ed incuriosì.
“Ho trovato la signora Tolmi al supermercato, oggi; mi ha chiesto un passaggio e siamo venute a casa insieme. Lei non guida più da quando ha avuto un incidente. Se ti capita d’incontrarla, chiedile se deve andare in città e non fare il musone come il solito.”
“Io? Sei tu quella che ha paura di rompere le scatole a tutti! Perché sono venuti ad abitare fuori città, se hanno un problema del genere?”
“Si sono abituati così quando vivevano in America, a Boston. Il nostro vicino è una di quelle persone che piacciono a te.”
Venni così a sapere che Elianteo Tolmi era un astrofisico e che, fino a qualche mese prima, aveva insegnato al MIT.”.
“Professor Elianteo Tolmi!…Per forza che è diventato un astronomo. Che cosa può fare uno che si chiama Elianteo? L’astronomo, l’astrofisico. Dei genitori stravaganti ti chiamano Elianteo e tu devi occuparti di stelle.”
L’idea di avere un vicino del genere m’intrigava: m’immaginavo già conversazioni interessantissime, senza tener conto che, con la stessa persona, avevo, sino allora, scambiato soltanto qualche cortese saluto. Lucia mi fissava paziente.
“Mi raccomando. Non essere invadente. La signora è molto gentile, ma…”
“Il marito è un misantropo?”
“No. Tutt’altro. Lei mi ha raccontato della vita di società che facevano in America.”
“Perché sono tornati in Italia?”
“Qui vivono i loro figli.Tutti e due sposati. Hanno tre nipotini. La signora è un po’ dispiaciuta perché, nonostante siano vicini, li vede poco lo stesso. Come il solito, per i genitori non c’è mai tempo.”
Dovevo evitare l’argomento. Non c’era dubbio: quello era un tema sul quale era facile “attaccare” con mia moglie. Me la svignai filando nello studio a cercare in Internet il nome del professor Elianteo Tolmi.
Trovai il suo curriculum, corredato dell’elenco delle pubblicazioni più importanti.
III. Ore di Marco Bottoni (Castelmassa)
Nato a Castelmassa (RO) il 30/09/1958, esercita dal 1986 l’attività di Medico di Medicina Generale a Castelmassa (RO). Scrive per passione dal 1999, soprattutto racconti e poesie.
Ha pubblicato: L’Altro e altre storie (2004 Montedit Milano); Sullo stesso treno (2006 Fara Editore); “Vita” (2007, sei racconti nella raccolta Storie di Vita, Fara Editore); Prosecco e Prolegomeni – memorie di un Filosofo da bar (2007 Montedit Milano); Luna - Quattro storie di scacchi e di mistero (2009 Tindari Edizioni Messina); Mi siete mancati (2009 Fara Editore). Per il Teatro ha scritto Biglietto, prego! (2008), Dio lo faccio io! (2010) e Con il titolo in coda (Fara 2011). Ha corso come tedoforo per il Viaggio della Fiamma Olimpica di Torino 2006.
“Specchiarsi nelle domande che un uomo, senza perdita di coscienza e di fronte all’inarrestabile progresso di una malattia che porta alla fine, in una condizione di impossibilità al movimento, vive è il contenuto di questo racconto.” (Nino Di Paolo)
“Frasi mozze e ripetizioni, un ritmo quasi ansiogeno che, però, viene mitigato da brani 'poetici' e visionari. Questa alternanza crea un tessuto tra Vita e Morte che affascina.” (Morena Fanti)
“Ore è una storia intensa, anche se, forse, non riesce ad emozionare quanto vorrebbe. Lo stile è diretto, secco, ma al tempo stesso fortemente evocativo.” (Andrea Monda)
Laudi
Poi, entro nel tuo studio, e tu sei lì.
Centinaia di volumi ordinati sul legno povero di una libreria snella e spartana: la ricchezza è tutta dentro i fogli.
Gli scaffali tappezzano di libri tutte e quattro le pareti, lasciando libera solo la luce della grande finestra; devo fissare lo sguardo sulla scrivania per arginare la vertigine che mi coglie mentre cerco di guardarli tutti.
La tua scrivania: la pergamena arrotolata di una poesia, su una busta l’appunto “cene con gli alunni degli anni 1953- 54-55” vergato di tuo pugno.
Una traduzione delle Georgiche curata da te.
Erodoto, in greco.
Professore.
Non so nominarti altro che così, perchè questo è “Colui che sei”: Professore.
Dicono “quanto è difficile vivere insieme a una persona”; molto, molto più difficile da condividere è il morire.
Poi, tolgono la coperta, ti tolgono di dosso il lenzuolo che ti copre.
Le braccia larghe sul grande letto bianco, la testa reclinata su una spalla, hai persino le gambe scarne semiflesse e accavallate, come è nel dolore di un vero crocifisso.
Fanno per prenderti, fanno per spostarti, per portarti.
Dicono che fanno per curarti.
Tu apri gli occhi e in un sospiro fai sì che si adempiano le Scritture.
“Come volete voi.”
Poi, entro nella tua stanza, e mi sforzo di trovare una verità qualsiasi che mi giustifichi, qualcosa che mi sollevi del peso del mio compito, che mi renda sopportabile il mio essere qui.
Lo cerco nei gesti del mio mestiere, dentro quel poco di sapere che mi sono trascinato dietro in tutti questi anni; cerco il perdono per i miei peccati, una assoluzione alle mie molte colpe, non ultima questa impotenza mia di fronte al tuo dolore.
Quello che non trovo scavando nella semeiotica, nella fisiopatologia, nella clinica, me lo offri in dono tu, con un filo di voce.
“Mi fido di te.”
Dicono “è questione di vita o di morte”, e davvero non sanno quello che ti fanno.
Perdona loro, per quello che non hanno.
La “questione” è “di vita e di morte”.
Poi, salgo anch’io sull’ambulanza, spinto dalla necessità impellente di dirti qualche cosa, parole che non so, che non conosco, che sento urgenti e necessarie solo perché, forse, ultime.
Nemmeno questo ho, di te: l’intimità del silenzio da riempire soltanto di una stretta, e forte, della mano.
“Stai tranquillo, ora ti facciamo passare il male, ti togliamo il dolore, poi…”
Ho cercato la Poesia, Professore, l’ho cercata davvero, con passione, con rabbia, con disperazione.
Ho provato a leggerla, ho provato a scriverla.
Continuamente, sinceramente, dolorosamente.
L’ho inseguita e l’ho attesa, senza mai trovarla, senza mai incontrarla.
“… ti vogliono tutti bene, ti vogliamo tutti bene…”
Dicono che è questo che fa paura, agli studenti, dei loro insegnanti: di trovarsi loro di fronte essendo impreparati.
Poi, mentre ti sono sopra e addosso, chinato su di te a guardarti, tu guardi verso il basso, ai piedi della croce, e mi fai dono di tutta la Poesia che tanto a lungo ho cercato, e invano.
Tutta insieme, dentro due parole tue, in un ultimo fiato.
“Ti piango”
Dicono che è tutto Uno, e ora so che hanno ragione.
Ti prego Professore, tieni anche me tra i tuoi fogli, sugli scaffali fitti di libri che lasciano libera appena la luce della grande finestra.
Tu, sei a pagina quarantotto.
Professore.
Caro Gianni…
IV. Il mare addosso di Gabriele Astolfi (Bologna)
Laureato in giurisprudenza, lavora in banca. Ha frequentato corsi di filosofia, di teatro e di lettura espressiva, e recitato per nove anni in una compagnia di teatro dialettale, prima di cominciare a scrivere. Nel 2003 ho pubblicato il mio primo romanzo, La pratica; nel 2005 il secondo, Una giornata normale. Nel 2007 pubblica la prima raccolta di racconti, Due zampe di troppo, e nel 2009 la seconda, … andremo ancora a giocare. È presente in varie antologie. Ha vinto diversi premi.
“«Il mare» ha scritto Giovanni Verga «è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare», di chi si lascia rapire, abbracciare e stordire dalla sua potenza, di chi senza più difese, si lascia avvolgere dalle correnti e dai suoi profondi silenzi. Nell’imperioso defluire dell’acqua, la vita si evolve, si trasforma, ti cambia. Il mare resta, appunto addosso perché è nella spuma di un’onda che il tempo sembra fermarsi, prima di specchiare ed annunciare spavaldo, l’eterno che è in lui e sopra di lui.” (Elena Varriale)
“Perché a volte una giornata persa ne fa guadagnare altre e togliersi i calzini può essere un'esperienza che apre la mente.” (Morena Fanti)
Quando Varda glielo chiese, conosceva già la risposta. Era come chiedere a un bambino svogliato se voleva andare a scuola, o a un beone di pasteggiare a minerale, o al più spilorcio degli avari di far beneficenza. La risposta era no; cento, mille volte no.
Malgrado ciò glielo chiese ugualmente, per gentilezza, per affetto verso il proprio uomo, o per un bisogno di conferma, di rassicurazione, per risentire da lui la risposta più scontata. A riprova che la vecchia quercia era sempre quella, sempre lei, chiusa a ogni novità che non fosse il fardello del quotidiano, l’affrontare le cose da fare una dopo l’altra, senza posa, come le pietre di un rosario la cui fine avrebbe coinciso con la sua.
“Loano, domenica vieni anche tu al mare con la parrocchia?” domandò al marito a desinare, allungando le palpebre a mo’ di grimaldello, per scardinarne la serratura.
Loano mangiava pasta e pomodoro, e raccoglieva col pane le gocce di rosso che la pasta non tratteneva e ricadevano nel piatto, pesanti quanto gocce di sudore. Il pane era un casereccio che le dita nere e grinze facevano più bianco di quel che era. Mangiava e guardava la moglie e la corona dei figli riuniti intorno al tavolo -alcuni, perché la maggior parte ormai era fuori casa, coniugata con prole a sua volta-, nonché i nipoti più piccoli, che i figli sposati lasciavano alla nonna perché li accudisse, e Filippo, il cane di famiglia, l’ennesimo nipote, solo con un numero di zampe diverso. Anche se l’ultimo erede camminava ancora su quattro.
Varda gli leggeva nelle righe della fronte la lista delle scuse che avrebbe accampato. Una lista al cui cospetto quella della spesa settimanale degradava a pensiero della sera, a fioretto prima di addormentarsi. La legna da tagliare, per poi essere raccolta e portata nel casotto, il fieno da affastellare, l’erba da falciare, gli alberi da potare, la frutta da raccogliere, le macchine operatrici da preparare all’uso, le proprietà, case e terreni, a cui attendere, col corollario di incombenze che queste richiedevano. Tutte attività da sbrigare la domenica, che la settimana, sabato compreso, era consacrata al lavoro vero e proprio. Quasi che quel po’ po’ di occupazioni festive non fossero lavoro. Altro che giornata dedicata al riposo, a ringraziare Dio per aver creato il mondo e i suoi abitanti. Per ringraziare Dio era sufficiente l’ora della messa, sottratta alle faccende domenicali come una fetta di polenta e formaggio alla sagra del patrono. A gomitate e spintoni. E nemmeno la moglie, perciò, era mai libera da impegni il dì di festa, che avrebbe dovuto cucinare per il marito e i figli chiamati ad aiutarlo, e avrebbe finito per dare una mano lei stessa.
Opere segnalate per l’inserimento di un estratto
con commento dei giurati nel blog narrabilando
Racconti di Paola Farah Giorgi (Genova)
“I vari racconti sono simili a bozzetti, tracciate con uno stile semplice ma comunque personale, in cui sono ben miscelate ironia e meraviglia.” (Andrea Monda)
Il caffè
Amo passeggiare ovunque, dai boschi al mare, e ripercorro con metodica consuetudine anche la strada sterrata che da Marmora risale verso la piccola Chiesa sul monte. Sono l’unica immagine in movimento in un paesaggio fermo e silenzioso.
Padre Sergio, sul terrazzino della piccola canonica, aspetta la mia comparsa all’ultima curva per accendere il fuoco sotto la caffettiera, mesto rituale dei giorni di nebbia.
Mille anni orsono, come miraggio nella desolazione dell’inquietudine, Padre Sergio è apparso nella mia tragedia, o commedia tragicomica che dir si voglia.
Mi ero avvicinata a lui alle sue spalle, per curiosità. Indossava i mutandoni di lana scura come mio nonno e stava spazzando con la scopa di saggina il contorno esterno della piccola Chiesa.
Non pensavo si accorgesse di me e si voltasse.
– Ciao – i suoi occhi sorridevano – posso offrirti un caffè?
– Grazie. Chi sei? Sono salita qui per caso… posso aiutarti?
Dopo alcuni secondi avevo in mano la scopa di saggina per continuare a raccogliere polvere d’ intonaco e briciole di affreschi del duecento.
– Mettiamo tutto in un sacco. Forse, a breve, inizieranno i restauri della Chiesa e questa polvere potrebbe essere rimpastata con qualche pagliuzza d’oro… – mentre parlava si lisciava con cura la lunga barba crespa, quasi giallognola, e l’ironia di un vecchio saggio aleggiava intorno a lui strizzandomi l’occhio. Alle pareti, solo calzari di santi senza più un corpo.
È stato il primo caffè della serie infinita.
La nebbia si addensa e si dipana restringendo ed allargando nell’arco di pochi secondi la messa a fuoco del paesaggio. A volte entro nelle orme fresche di altri pellegrini per sentire nei miei muscoli la tensione di altri passi. A volte rallento, faticando a contrastare la forza d’inerzia che la salita crea.
All’ultima curva mi fermo, per aspettare il giusto squarcio di nebbia e poter salutare Padre Sergio a distanza.
Non c’è. Aspetto ancora, ed altri minuti ancora. Non c’è. Riprendo la salita mentre il sudore freddo mi riveste ed un tremore incontrollato percuote i miei nervi. Tolgo la pesante giacca di lana melange ed accelero il passo. Scivolo, inciampo, ho paura, corro. Percuoto con forza il battente di bronzo della vecchia porta.
Sento dei passi.
– Ciao. Anche tu qui per festeggiare Sergio? – un ragazzo dall’accento straniero ebbro di vino e d’euforia apre la porta – dai, entra, tra poco brindiamo.
Lui è lì, seduto al tavolo davanti alla torta di mele già iniziata, mentre un gruppetto di ragazzi prepara spartiti e chitarre. Mi sorride. Si alza. Spegne il caffè.
La memoria ed altro… di Francesco Colonna, Firenze
Sono stato giornalista per gran parte della mia vita a Firenze (ramo specifico l'economia), ho anche ricoperto per cinque anni, come indipendente, la carica di assessore allo sviluppo economico nella prima giunta Domenici ('99-'04), e sono stato presidente per due anni di una azienda comunale dedita all'assistenza di senza tetto ('04-'06).
“Vita liquida, la chiama Baumann; sindrome da scranno la chiamo io. Quella assoluta “estasi etica” che ti colpisce appena metti piede su di un palco qualsiasi. Troppo divina per essere mantenuta a lungo; sarebbe già un successo non trasformarla in cialtroneria alla prima partenza lenta dell’automobilista che ci precede al semaforo.” (Stefano Martello)
La memoria riconoscente
L’aula appare svogliata mentre il deputato Benito Barbanelli sta parlando. Lo fa a braccio, senza fogli. Ha un abbigliamento sportivo, giacca di velluto blu, una camicia a quadrettini beige con la cravatta di maglia sempre blu, il tutto su pantaloni grigi. Non gesticola molto, anzi parla composto, badando di non allontanarsi dal microfono.
Una seduta di quelle che non finiscono mai, con beneficio della bouvette. E lì, davanti a un paio di caffè a prezzo stracciato, come si conviene a chi è lì per servire la patria, i colleghi onorevoli Basetti e Gargiulo stanno commentando proprio l’intervento che non stanno ascoltando. Gargiulo, un alleato di maggioranza di Barbanelli, scuote la testa e dice: “Lo sai come è Benito, quando ci sono questi temi non resiste…”
“Va bene – replica Basetti, che occupa i banchi dell’opposizione – però ci vuole un po’ di garbo, un po’ di coscienza. La sua è una orma di incontinenza mentale. Gli ci vorrebbe il pannolone al cervello.”
All’interno Barbanelli prosegue. Ha solo dieci minuti di tempo, ma vuole infilarci di tutto. Il tema è allettante: commenti sull’ultimo arresto di brigatisti, dopo le comunicazioni del ministro degli interni. Ha una bella voce, anche impostata, un po’ recitante. Ricorda l’Italia degli anni di piombo, che lui ricorda bene, parla dei compagni che sbagliarono, parla della necessità, che allora sentivano anche i borghesi, di un cambiamento, se non rivoluzionario, almeno radicale. Il contenuto oscilla tra il sociale e il mistico. Il presidente dal suo scranno gli lancia ogni tanto un occhiata al di sopra degli occhialini strettissimi da presbite. Lo guarda come se non lo vedesse. Barbanelli prosegue e si infila nel tunnel di definizioni di libertà: “Non è poi così vero che la libertà finisca dove comincia quella altrui. La libertà talora ha bisogno di spazi più ampi, quasi infiniti se in gioco non c’è il singolo ma un sistema complesso di relazioni, una società che vuole ritrovare i motivi della propria esistenza e soprattutto una prospettiva. La libertà si fa collettiva e non solo e non tanto individuale..”
Il vecchio tema delle avanguardie è duro a morire. Ma poi aggiunge che c’è un tempo per tutto, cita perfino l’Ecclesiaste. Dice che oggi è la stagione del rispetto, delle regole democratiche. Ma anche della democrazia dal basso, dei comitati, dei movimenti, dei centri sociali, dei giovani, dei gay, delle donne, di tutti coloro che cercano uno spazio rispettoso delle differenze, senza omologazioni. Le differenze che poi sono le identità, il modo per salvarsi dalla globalizzazione che tutto divora, un modo per garantire che prevalga l’essere e non l’avere.
Arriva alla conclusione: “Ecco perché non posso che condannare questi ultimi epigoni della lotta armata. In loro l’analisi è sostituita dalla nostalgia. L’anacronismo cerca di trasformarsi in elitarismo. Lasciatemi dire: il tempo del fucile, se mai ci fu, non c’è più”. Si siede. Qualche timido applauso che muore subito nel silenzio.
È un po’ accaldato Barbanelli. Un suo compagno di partito, che gli siede accanto, gli stringe la mano: “Bel discorso. Si sentiva la passione”. “Grazie – risponde Barbanelli. – Capisci, è stato duro anche per me dire quelle cose. Perché, sai, devo tanto al mio periodo di latitanza da brigatista…”
La pena di Isabella Lanfranchi, Lungavilla
Nata a Rho nel 1971, vive nell’Oltrepo Pavese. Laureata in Filosofia, da oltre un decennio scrive sceneggiature ideate a partire da percorsi creativi costruiti ad hoc nell’ambito dei laboratori di sua competenza, condotti presso vari istituti scolastici e in ambito privato. Cura la regia dei relativi spettacoli. Tiene corsi di formazione sulla metodologia adottata. Nel 2001 ha pubblicato Fantasie d’animazione. Come rendere creativa e coinvolgente l’educazione dei bambini, Edizioni la Meridiana. Tra le sue opere di narrativa ricordiamo Passaggio segreto (2000) e La porta d’uscita (2004), Edizioni Guardamagna. Il racconto, di cui viene riportato un estratto, è stato inserito nella raccolta dal titolo In_difesa, recentemente pubblicata da
Albatros Il Filo.
“Il racconto è un accorato, intenso ed intelligente pamphlet letterario contro la pena di morte. La protagonista insegue tutti i suoi dubbi e resta stordita ed inorridita innanzi alla possibilità che si possa dare la morte ad un innocente. Si chiede allora che cosa sia un uomo incapace di porsi domande e di dubitare. Perché, il legittimo ed umano bisogno di giustizia, non può mai giustificare la brutalità della pena ed escludere da essa, la possibilità dell’errore umano.” (Elena Varriale)
Claudia non era abituata a sondarsi fino all’estremità più remota della solitudine, fino all’amore per sofferenza e alla sofferenza per amore.
Ignara di quanto profonda potesse essere o diventare la propria vita, scansava e scongiurava l’eventualità che la propria anima venisse sequestrata dall’inquietudine.
Fino a quella notte, non aveva conosciuto altro buio che quello del cielo, oscurato dalla solita bottiglia di champagne.
Per Claudia il buio stava e doveva restare fuori, lontano. Tutt’al più, se proprio si decideva a calare, andava esorcizzato con ricevimenti che sbiadivano all’alba o con sbornie smaltite sul divano. L’importante, nell’atto dello stordire o dello stordirsi, era saper appoggiare con eleganza il bicchiere ed evitare di finire in un centro di disintossicazione e sulla prima pagina dei giornali.
Del resto, in qualità di moglie di un governatore, aveva imparato in fretta che basta la bozza di un programma per far credere che si è in grado di cambiare le sorti di uno stato, così come quelle di una serata: basta riuscire a cucirsi addosso il ruolo di chi sa decidere e intrattenere.
Claudia imbambolava le notti con espedienti che impedivano al buio di fare altrettanto con lei. Sapeva come divincolarsi per non essere accalappiata dai continui interrogativi del suo dilagare.
L’abilità nel far tacere i dubbi del vivere poteva quasi essere paragonata a quella del marito nello spacciare un sacco di parole vuote per realizzabili e socialmente utili. Sempre di una forma di stordimento si trattava.
Ma ciò che capitò quella notte fu tanto imprevedibile da sbilanciare gli accomodamenti, le manovre e la presunzione di saper applicare alle proprie strategie comode istruzioni per l’uso e per l’abuso.
Era tardi e il governatore non aveva ancora fatto ritorno a casa. A differenza di altre volte, Claudia non lo aspettò a piano terra, dove capitava che lo assalisse con una scenata di gelosia.
Era salita in camera da letto, quasi convinta che il marito fosse davvero impegnato in una noiosissima riunione-fiume, di quelle in cui l’importante non è verificare l’interesse comune, ma arrivare a deliberare il proprio.
Cercò di sconfiggere il timore della solitudine soffiando via la polvere dalla copertina di un libro, posato sul comodino come un soprammobile. Lo aprì, agitando la stessa premura con cui si stappa un flacone di sonnifero, e aveva ingoiato una pagina a caso, sicura di distrarsi nel sonno di lì a poco.
A un tratto, mentre ancora le pareva di cercare la concentrazione, sentì un rumore. Somigliava a un cigolio.
Prima di spaventarsi, si chiese cosa mai potesse far scricchiolare un suono approssimativo in una casa moderna e laccata. Un ricordo fulmineo, però, la ricondusse a uno dei pochi pezzi d’antiquariato presenti e dislocati qua e là, secondo il gusto dell’architetto che l’aveva arredata.
In fondo al corridoio una sedia di metà Ottocento stava adagiata su se stessa a simboleggiare l’ozio e a riempire una nicchia incavata nella parete. Solo il marito le attribuiva importanza perché appartenuta alla famiglia per intere generazioni, fin dall’epoca della guerra di secessione. La sua bellezza serviva unicamente a diversificare il design ripetitivo e un po’ stucchevole; ma quell’unica volta in cui vi si era seduta sopra si era accorta che il telaio produceva quello stesso rumore.
Ciò stava a significare che qualcuno era entrato in casa? Possibile che il marito fosse tornato senza che lei se ne fosse accorta? E che bisogno avrebbe avuto di sedersi proprio su quella scomodità?
Le domande alimentarono la curiosità ancor più della paura e la fiondarono nel corridoio, in cerca di risposte. Il buio annullava la sua lunghezza e la sua dimensione.
Claudia cercò l’interruttore, tastò nel punto in cui pensava si trovasse e, non appena ne distinse i bordi rassicuranti, s’illuse di accendere la luce.
Così non fu.
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