scheda del libro qui
Il giorno dopo, nel primo pomeriggio, parcheggiai la Mina davanti al suo studio. C’era una porta grande, di ferro massiccio, e nessun campanello. Bussai. Bussai ancora. Bussai a lungo. Alla fine sentii una mano grande che mi ghermiva la spalla. – Un avvoltoio?
Mi voltai. La grande giacca peruviana era lì, e il petrolio dei suoi occhi mi sommerse e soffocò. Entrammo nello studio. Era grande, polveroso, ma pieno di luce, che entrava da un’immensa vetrata coperta da una tenda di velluto rosso molto spessa. Al centro della stanza c’era un grande tavolo rettangolare, coperto da una tovaglia verde che lo faceva somigliare a un biliardo. Attorno c’erano sei sedie vecchie, o antiche, non riuscii bene a capirlo. Avevano una imbottitura tondeggiante e alti schienali in legno intarsiato. Poi c’era una libreria carica al punto che tutti gli scaffali si incurvavano verso il basso, un’enorme specchiera riflettente e scatole su scatole, piene di colori, pennelli, stracci macchiati di vernice, vasetti, tavolozze incrostate.
Un’intera parete era nascosta da uno specchio perfettamente lucidato. Lui mi avvicinò il suo faccione barbuto e mi guardò con gli occhi di petrolio.
– Ehi… la distanza di sicurezza, please.
– Lo sai, noi artisti ci nutriamo della contemplazione estetica della bellezza. È un atto profondamente spirituale, un’eccitazione estatica, una comunione con l’oggetto del nostro guardare. Con il miracolo della sua esistenza.
Io non dissi nulla.
– Trito e ritrito, ma espresso bene.
– Io vorrei ritrarti per una serie di quadri sul Rinascimento. Saresti perfetta.
– Un perfetto stoccafisso. – Annuii.
– Dovrei farti qualche foto – mi disse trascinandomi per un braccio verso lo specchio. – Weh, piano, piano.
– Mi fece salire su uno sgabello di legno, e mi osservò di profilo.
– Sei bellissima – disse.
– Non me la conti giusta.
Lui emise una sorta di grugnito, io rimasi voltata verso lo specchio. Dopo un po’ mi fece scendere dallo
sgabello, e mi allontanò dallo specchio. Mi fece sedere su una delle sedie dallo schienale alto.
– Ferma così – disse prendendo una macchina fotografica da una delle scatole riposte sul pavimento. – Perfetta.
Io annuii, poco convinta. Dopo un po’ mi riprese per un braccio e mi fece alzare.
– Mettiti di profilo – disse. – Così va benissimo.
La stramaledetta fotografia non arrivava.
– La scatti sta cazzo di foto, o cosa? Ma che ci faccio io qui? E che diritto ha questo di prendermi per un braccio e mettermi in posa a suo piacimento?
Mi voltai verso di lui. Se ne stava lì, in piedi, si era tirato giù la cerniera. Se lo teneva in mano, e rideva.
– Credevi davvero che mi eccitassi a guardarti? – mi disse scoprendo i denti larghi.
In realtà io non mi ritenevo tanto più eccitante di una camomilla doppia, ma non dissi nulla. Le gambe mi tremavano, non so esattamente perché. Presi la mia borsa dal tavolo, uscii, e montai sulla Mina. Misi in moto e rimasi lì ad aspettarlo. Lui uscì di corsa, barcollando.
– Perdonami – farfugliò.
– …
– Non mi guardare così. I tuoi occhi sono verdi nelsole… bellissimi e crudeli…
– …
– Di’ qualcosa, altrimenti tornerò a casa sentendomi una merda.
Io non ho mai pensato di fare l’artista. Per fare l’artista bisogna essere un’anima grande. E la mia se n’è andata da tempo in Bolivia portando con sé soltanto il suo fagotto di amore in esubero…
Diedi gas e andai via.
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