lunedì 24 maggio 2010

Il corpo




   Era cresciuto a dismisura: un corpo enorme, osceno, che invadeva i prati e la valle. Se ne parlava ovunque a bassa voce. Ma era impossibile ignorarne lo scandalo. Il corpo giaceva lì, straordinariamente gonfio, disteso sulla schiena.
   Gli occhi talvolta si muovevano – una palpebra tremolante, un battito di ciglia, il roteare del globo oculare all’indietro che mostrava il bianco. Uno spavento. La bocca faceva smorfie lente e s’increspava verso il naso, quasi incollandovi il labbro superiore. Le braccia e le gambe rimanevano inerti, come morte. Tuttavia il corpo respirava.
   Un giorno decisi di avventurarmi in quel luogo. Era autunno, le nuvole grigie e compatte sembravano sfiorare la terra e strozzare il fiato sui campi. Un umore malinconico mi spingeva fuori dal paese. Mi strinsi nel mio giaccone marrone.
   Man mano che mi avvicinavo i cinguettii degli uccelli si diradarono fino a cessare del tutto, e perfino il fruscio degli alberi sembrò tacere. Un silenzio denso avvolgeva il mio primo sguardo. Vidi i piedi del corpo, le sue grandi piante gialle che mi superavano in altezza. Gli alluci staccati dalle altre dita parevano sul punto di abbandonarsi, di cadere.  
   Camminai con cautela sull’erba pallida, mi spostai sul fianco della carne gonfia, quasi inciampai nelle dita tozze e curve della mano sinistra. Un fremito mosse l’indice e mi trovai l’unghia davanti a sbarrarmi il passo. Feci un balzo.
   Il corpo respirava e dal ventre squarciato fuoriuscivano volti dormienti. Ad ogni inspirazione i volti si rattrappivano, e nelle espirazioni erano espulsi come minuscoli nascituri mostruosi. Al loro posto, nel ventre aperto, sgorgavano nuovi visi muti.
   La luce si spargeva sulla valle provenendo dall’orizzonte ondulato. Poi anche quel chiarore svanì, e giunse la notte. Il corpo gorgogliava sonorità dalla bocca, come rumori d’acqua in una grotta.
   Cercai un po’ di calore tra le sue gambe, poggiai la testa su una coscia, mi addormentai.
   Per tutta la notte i volti mi osservarono in sogno. Al mattino essi non c’erano più, e l’orribile ferita che lacerava il ventre adesso si era chiusa. Guardai il cielo, un raggio di sole che risvegliava i campi, diedi un cenno di commiato al corpo. Sul sentiero del ritorno incrociai un viandante. Ci scambiammo un saluto. Poi, allontanandomi, ricordai quel viso, che avevo visto erompere dalla gigantesca pancia squarciata.
   In paese mi chiesero ansiosi del corpo. Sussurravano quasi, e si avvicinavano al mio orecchio. Parlai d’una creatura enorme e solitaria, innocua, giunta forse nella valle per morire in pace. Dissi dei volti e dell’incontro sulla via verso casa. Quegli uomini spauriti replicarono al mio racconto con esclamazioni appena udibili e un parlottare sommesso. In uno di essi riconobbi un viso apparso dalla carne aperta.
   Il giorno dopo scrutai nel viavai della mia piccola comunità, nel proliferare dei volti che s’insinuavano nella folla paesana divenendo, quelle sembianze ovali, identità di uomini e donne. Cercavo un indizio, una traccia.
   Confidai la mia inquietudine ad un amico, gli chiesi un aiuto nell’indagine. Mi disse di suoi disegni dove, nei precedenti mesi, aveva trasferito una incomunicabile angoscia. Sfogliai centinaia di immagini a matita frutto del suo estenuante lavorio segreto. Rappresentavano visi lunghi e inespressivi, con gli occhi chiusi.
   “Sarà meglio distruggere questi disegni,” suggerii affannato.
   Portammo i fogli in un campo non distante,  ricco d’erbacce e pietre. Guardammo in silenzio il fuoco divorare  sembianze e multiformi memorie del mio amico. Da ragazzo talvolta mi era stato affidato il compito di bruciare figurine cristiane e ramoscelli secchi di ulivo benedetto. Accompagnavo gli attimi della distruzione con preghiere recitate a fior di labbra.
   “Hai paura?” mi chiese l’amico, osservando la danza d’un’ultima fiammella tra i fogli divenuti fragilissime lamine nere.
   Non risposi.

   Trascorse l’autunno e l’inverno e buona parte della primavera. Le nostre indagini senza metodo non diedero alcun risultato. In un mattino ancora freddo di marzo andammo insieme nel luogo dove giaceva il corpo. Ma esso non era più lì. Forse sopravviveva in altre zone, ma nessuno aveva visto la creatura gigantesca, ed anche dai paesi dei dintorni non giunsero notizie di avvistamenti.
   Raccoglievo continuamente in quei giorni primaverili una gran quantità di foglie di gelso. Era il nutrimento che fornivo alle miriadi di voracissimi bachi da seta che s’ingrassavano sopra alcuni graticci, sul legno d’una vasta soffitta scura in un casolare di campagna. Quando mi chinavo in quel buio delimitato dalle travi basse mi avvolgeva il brusio delle bocche in incessante masticazione.
   Né io né il mio amico vedemmo più un solo viso tale da metterci in allarme o da me ricordato come spaventosa nascita dalla carne nella valle.
  D’estate, nell’ora che si avvicinava al tramonto, andavo a piedi al mare, percorrendo in discesa una scorciatoia serpeggiante composta da larghi gradini in pietra. Raccoglievo sulla spiaggia conchiglie e ciottoli. Talvolta mi bagnavo nell’acqua colorata, nel tepore salmastro d’una intera giornata di sole.
   Giunse un altro autunno e con esso un nuovo languore della fine. “Questi nostri corpi non sono immortali,” dissi a me stesso. “Prima o poi arriverà per tutti l’estrema stagione. Niente più autunni o primavere, nessuna ulteriore avventura nella sofferenza e nella gioia.”
   Conoscevo già il sentiero da seguire. Trovai il corpo enorme disteso sull’erba secca della valle. Mi raccolsi tra le sue gambe. Poi giacqui addormentato.
      
   
  
  

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