giovedì 18 marzo 2010

Dall'utopia consolatoria alla complessità scandagliata con libera creatività

intervento di Caterina Camporesi al convegno faentino Scrittura e impegno

L'inverno sottoposto a coltura
è arabile quanto la primavera

Emily Dickinson

Fine writing is fine doing
John Keats


Spetta alla speranza, una delle tre virtù teologali, il misterioso compito di mantenere viva ed operosa la fiducia nell'Utopia del potere cambiare il mondo in meglio. Il termine Utopia è stato introdotto da Tommaso Moro nel Seicento, all'inizio dell'era moderna, quando la razionalità ha la presunzione di potere governare ogni cosa.
L'etimologia della parola Utopia deriva da due termini greci: eutopia e outopia che significano rispettivamente buon luogo e nessun luogo.

La presenza di movimento nella realtà materiale e immateriale delle cose offre, in via ipotetica, l'occasione per indirizzare il mondo verso trasformazioni evolutive realistiche. Ogni cultura non smette mai di mutare anche se le trasformazioni possono essere silenziose e non visibili ai sensi non attenti.

La speranza nel processo di mutamenti favorevoli deve essere anche affiancata dal rigore della ragione per tenere a bada il rischio, sempre incombente, di rincorrere soluzioni puramente sentimentali e velleitarie.

L'ambito dell'Utopia non riguarda solo la dimensione materiale e politica da indirizzare verso una maggiore giustizia sociale, ma deve investire anche quella della conoscenza e della gestione dei valori.

Naturalmente poi dovrà compromettersi soprattutto con la sfera dello spirituale, cercando di catturare con i sofisticati mezzi, propri dell'arte, gli elementi ultimi costitutivi della realtà dell'uomo e del mondo.

Per avvicinarsi a questa ultima dimensione, nel nostro caso lo scrittore, dovrà dotarsi di strumenti che sono propri dell'arte, vale a dire, la forma e i contenuti che azzardano l'esplorazione del mondo comprese le “irrealtà visibili”, come direbbe J.L. Borges.

C'è ancora posto per l'Utopia nel mondo globalizzato? C'è ancora posto in questo mondo in cui lo stato della vita è passato a velocità stratosferica da una forma solida ad una liquida, perennemente precaria, leggera, incerta, insicura?

Riprenderò questo tema alla fine di questa analisi.

Si deve tornare con la mente agli anni Cinquanta del secolo scorso per ritrovare il clima esaltante e fiducioso nel binomio impegno-scrittura che aveva la presunzione, l'ambizione e l'utopia di potere realizzare cambiamenti radicali per costruire il migliore dei mondi possibili: “Le parole sono azioni” e l'arte ha il compito di trasformare il mondo oltre che a conoscerlo, affermava con esuberante convinzione Jean Paul Sartre.

Più o meno nello stesso periodo dall' altra parte del mondo, in America Latina, un altro scrittore, Jorge Luis Borges, fa la scelta opposta: lascia da parte il mondo concreto, ma non la vita che, “se pure dissolta e ridotta ad una dimensione esclusivamente intellettuale”, respira nelle sue opere, e si ritira in un altro mondo parallelo fatto di idee, libri, fantasia, immaginazione, sogno e quanto altro di simile.

La sua scrittura, per la precisione e concisione nell'esprimere idee e per l'uso quanto mai pertinente ed originale di aggettivi e avverbi, porta cambiamenti significativi nel linguaggio letterario spagnolo che si caratterizza per la “verbosità” emotiva ed ampollosa.

Con Borges la verbosità diventa “musica verbale”, binomio che caratterizza la fusione di suono e senso, traguardo che ogni vero scrittore sa di dovere raggiungere per ritenersi tale.

Questo non è anche quello che intende John Keats nel binomio citato in esergo fine writing is fine doing ?

L'artista è colui che prima di altri scorge fra le nebbie e le pieghe del reale qualcosa di acquattato, nascosto, silenzioso e stanandolo lo rende visibile e lo fa entrare a pieno diritto nel mondo quotidiano facendolo diventare nel tempo patrimonio di tutti.

È forse il caso a questo punto di riassumere brevemente il percorso del pensiero filosofico dal Seicento fino ai nostri giorni per rintracciare le varie visioni del mondo che si sono succedute influenzando le decisioni e i comportamenti collettivi e individuali dell'umanità.

Nel Seicento la filosofia comincia ad occuparsi in modo “scientifico” delle possibilità conoscitive dell'uomo.

Capostipite di tale indirizzo è Cartesio, ma è con Locke, nella seconda metà del Seicento, che comincia a delinearsi l'idea di identità personale che sviluppandosi nel tempo porta al passaggio dalla visione verticale, contenente l’idea di un anima metafisica e religiosa che sono il tramite fra il contingente e l’eternità, ad una orizzontale dove la consapevolezza della caducità induce a trasferire e a giocare tutto nel qui e ora.

Il campo dei divieti lascia spazio a quello delle opportunità da sfruttare non essendoci più un “regista esterno” ed essendo ognuno l'effetto della propria capacità di costruire se stesso nella sfera personale, sociale ed economica scrollandosi di dosso i possibili condizionamenti esterni.

Il punto di partenza contenuto in questa visione sembra preannunciare il punto d'arrivo che caratterizza la nostra epoca.

La costituzione del soggetto individuale e collettivo è il risultato delle forze che plasmano dall’interno e dall’esterno i soggetti stessi.

Credo che la riduzione della divaricazione prodotta nell'uomo fra ragione ed essere, espressa nel “cogito ergo sum” cartesiano, abbia trovato nella psicoanalisi un significativo argine.

Due nomi per tutti, Carl Gustav Jung e Jaques Lacan.

Il primo per il concetto di inconscio collettivo che allarga il personale, fino a comprendere quello dell'intera umanità e per la categoria di “sincronicità”, particolarmente pertinenti al nostro tema.

La sincronicità consiste “nella contemporaneità di due eventi connessi quanto il significato, ma in maniera acasuale”, quindi a prescindere dal nesso causa ed effetto. Essa è considerata la quarta categoria accanto a quelle del tempo, dello spazio e della causalità.

L'acasualità dà un duro colpo all'illusione del controllo dell'andamento degli eventi e porta sostanziali cambiamenti nel concetto del tempo lineare che si basa proprio sul concetto di “ prima” che caratterizza la causa e di “dopo” che caratterizza l'effetto.

Il termine è abbastanza recente pur descrivendo una visione e una serie di esperienze già conosciute e appartenenti a tutte le culture.

Anche il mondo scientifico lo utilizza nel campo della fisica moderna a partire dagli anni trenta del secolo scorso.

Le varie sfere che si riferiscono all' individuo, alla collettività al mondo e all'universo nel suo insieme non sono ermeticamente separate e incomumicanti, ma sono unite da una membrana porosa che oltre a separarle le unisce.

Le sincronicità si verificano più di frequente nei momenti di transizioni cruciali.

Essa ha aspetti acausali, emotivi e simbolici e si verifica all'interno di un contesto transizionale ovvero quando ci si trova sulla soglia di una trasformazione che inaugura un nuovo modo di percepire e di essere.

Sia l'inconscio collettivo che la sincronicità ci aiutano a vedere e a considerare la totalità della quale siamo parte.

L'aspetto simbolico della sincronicità ha la funzione di rendere conscio l'inconscio che, essendo appunto collettivo per Jung, contiene una raccolta di simboli comuni mostrandoci che, in una certa fase della storia della nostra vita, è possibile riscontrare l'esistenza di un collegamento con tutti gli esseri umani e con la totalità stessa del mondo che, ossessionato dalla razionalità, ci riporta a vivere e a confrontarci con il sentire e l'immaginare.

È necessario, a questo punto, citare il folgorante aforisma dello psicanalista Lacan: “io sono dove non penso e penso dove non sono” che dissolve il binomio cartesiano, ricomponendo la scissione tra pensiero ed essere.

Torniamo all' interrogativo lasciato aperto precedentemente: “La società globalizzata può ancora nutrire l'aspettativa e la realizzazione?”

Zygmunt Bauman, il perspicace interprete della società postmoderna è piuttosto perplesso. Se con la metafora del guardiacaccia, tipico dell'era premoderna, si intende la difesa del territorio da ogni interferenza umana allo scopo di proteggere l'”equilibrio naturale”, con la metafora del giardiniere, tipica dell'era moderna, ciò che si deve perseguire è quello di creare un ordine e una organizzazione per lo sviluppo migliore del mondo. Con quella del cacciatore, tipica del nostro tempo, si ha alla base l'opposizione cacciatore-preda, sei l'uno o sei l'altro, un'utopia perenne che coinvolge solo il qui e ora, priva di direzione e di futuro e che non offre alcuna occasione per riflettere sui grandi temi del significato del mondo, dell'uomo e dei suoi momenti più importanti come nascita, vita, morte e vita ultraterrena.

Dobbiamo accettare quindi che l'Utopia sia una prerogativa del mondo moderno lasciato alle nostre spalle? Quando la forma si presentava solida, il movimento aveva un andamento lento, i legami sociali erano forti e convincenti e la fiducia di potere governare la storia, erano una possibilità concreta?

Attualmente nell'era tecnologica la società è sempre più vista e trattata come rete più che come struttura e dopo la visione verticale e quella orizzontale abbiamo quella “laterale”.

Non è la conformità alle regole che sono rare e contraddittorie, ma è la flessibilità quello che conta

La valutazione non è più sull'asse bene-male, ma su quello vincente-perdente e la dimensione morale è stata sostituita da quella darwiniana: il vincente è il giusto.

Mettere l'accento sulle capacità dell'individuo di agire attivamente e di essere libero scrollandosi di dosso i condizionamenti esterni pone sul piano individuale molti problemi: “come può un soggetto essere all'altezza di una impresa del genere, senza aiuto, senza collaudo, senza nessuna attrezzatura e aggiustamenti e soprattutto senza dubbi?” (Z. Bauman)

È questa la sfida alla quale noi tutti siamo chiamati?

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