lunedì 22 marzo 2010

Brevi storie verso la primavera

Gianfranco Bertagni. Architetture Utopiche


           27 febbraio
     Forza di gravità

   Finalmente una bella giornata.
   Ho lavato i capelli e sono uscito per asciugarli al sole, portando con me due libri da restituire in biblioteca. In piazza il sabato mattina c’è di solito qualcuno in più, specialmente nelle belle giornate. I tavoli di ferro della pizzeria sono ricoperti da tovaglie rosse, l’entrata del locale è socchiusa. Mi siedo in un tavolo un po’ più isolato, in pieno sole. I camerieri non avranno nulla in contrario.
   Passa un giovane amico. Parliamo placidamente di libri e di internet, di gare ciclistiche  e del lavoro che non si trova.
   Devo tagliarli questi capelli lunghi ormai asciutti, ma è un po’ tardi adesso, e dunque o vado in biblioteca o dal barbiere. Decido per la biblioteca perché il sabato resta  aperta solo al mattino, mentre il barbiere lo avrei ritrovato anche nel pomeriggio.
   Percorro una strada in salita tutta illuminata dal sole che è un piacere camminare. Ad uno stop vedo dei gesti dall’interno d’una macchina. Riconosco alla guida un amico. Dal finestrino abbassato parlo con lui di libri e d’una passeggiata al mare. A fianco al posto di guida c’è un bellissimo cane nero illanguidito col muso a terra. Ci lasciamo con una battuta allegra ad alta voce. Forse ci rivedremo nel pomeriggio.
   Arrivo un po’ sudato in biblioteca. Saluto familiarmente la bibliotecaria, parlo con lei di quella bella giornata e della primavera imminente. Gironzolo tra uno scaffale e l’altro, mi soffermo tra i titoli della letteratura italiana. Prendo in prestito un libro di Biamonti e uno di Cavazzoni.    
   Imbocco una strada in discesa dove non passa  nemmeno una macchina, perché ad un certo punto la via   prosegue con dei larghi scalini.
   La mia attenzione è attirata da un grande arbusto fiorito di bianco che spunta al di sotto del livello stradale, tra una casa e un muretto con una ringhiera. “È proprio primavera,” penso, guardando meglio i fiorellini bianchi, e chiedendomi che tipo d’arbusto sia quello.
   Poi noto delle basse transenne che delimitano lo spazio tra marciapiede e ringhiera. Avvicinandomi leggo alcuni piccoli avvisi dattiloscritti, con due frasi:
   “Attenzione non appoggiarsi!! Ringhiera pericolante!!”
   Guardo meglio, e sì, la ringhiera sembra  un po’ piegata, ed anche un pezzo di marciapiede pare  alquanto sconnesso. E allora penso alla forza di gravità. Al fatto che se qualcuno si fosse appoggiato alla ringhiera ed essa avesse ceduto, insieme alla ringhiera sarebbe caduto anche il malcapitato. Però, forse, il tipo distratto avrebbe potuto evitare in extremis la caduta, facendo un balzo all’indietro, una specie di piccolo volo. E per un attimo egli sarebbe stato libero, non avrebbe subìto la forza di gravità.
   E mentre scorrono questi pensieri leggeri, si stacca un petalo di fiore bianco dal ramo dell’arbusto. Il petalo oscilla un po’ nell’aria, lentamente. Infine si posa sulla ringhiera e rimane lì in equilibrio. Ma non accade nessun incidente, sotto il suo peso la ringhiera non cede.


28 febbraio
Ortiche parlanti

   La domenica si alzò un forte vento e il cielo divenne grigio. Mi incamminai per una strada in discesa che conduce all’esterno del paese e giunge fino ad una antica e bella fontana, grande, composta da diverse vasche di contenimento dell’acqua e ricoperta da una larga tettoia di tegole. Sugli alberi ingemmati saltellavano gli uccellini e alcuni di essi cantavano tra i rami più alti.
   “Annunciano un miglioramento del tempo,” pensai.
   Il vento mi raffreddava la testa, e i pensieri si scompigliavano insieme ai capelli. Tuttavia, man mano che scendevo, le folate si attenuavano o sparivano del tutto. Un albero di mimosa finalmente in fiore svettava al di sopra d’un rialzo della campagna. Perfino l’aria intorno alla sua chioma sembrava divenire gialla e allegra. Un cane mi inseguì abbaiando doverosamente fin dove glielo consentiva il recinto della casa in cui era rinchiuso. Io lo guardai per un attimo negli occhi e mi parve che l’animale nemmeno mi stesse osservando, talmente era impegnato nel suo abbaiare.
   Poi, sulla sinistra, in un terreno incolto, vidi le nuove ortiche, d’un verde tenero, spuntate da poco tempo.
   “Tra qualche giorno saranno già abbastanza alte da poterne raccogliere le cime e mangiarle. Sono così buone…” pensai. Ma immaginai di poterle prendere anche in quel preciso momento, perché, seppur basse, ce ne erano proprio tante. E lo avrei fatto senza né un sacchetto dove metterle e nemmeno i guanti per proteggermi. Scavalcai una  piccola cunetta dove vi scorreva un rivolo d’acqua trasparente.
   Mi ritrovai nel campo di ortiche. Strappai velocemente quattro piantine che vennero fuori dalla terra con tutte le radici.
   “Ahi! Ahi! Ahi! Ahi!” gemettero le piantine di ortica.
   “Ahi! Ahi! Ahi! Ahi!” esclamai io con le dita doloranti e arrossate dal liquido urticante.


1 marzo
Porta e luna

   Un filo di ragnatela scendeva dalla luna piena, oscillava nella notte ventosa. Con molta cautela, per non spezzarlo, mi calavo giù, tenendomi forte al filo. Ed eccomi di nuovo oltre la notte, in un mattino mite. Nell’azzurro del cielo navigano lunghe nuvole bianche e grigie, buffe e attorcigliate.
   Un bambino nel cortile mi chiede se posso fare la conta per lui e i suoi amici che giocano a nascondino. Non posso, gli dico, io sto andando via, e ho la borsa già in mano, e l’aria lieve carezza i volti.
   Poi incontro due piccole magnolie fiorite, e penso, da quanto tempo carissime, talmente tanto da aver dimenticato il vostro nome, e rivedo le mani rosa, tra i rami, protese verso il cielo amico.
   Nel pomeriggio, nei primi pensieri torpidi dopo la siesta, ritorna nella mente una grossa mano giallastra sulla maniglia d’una porta. Qualcuno vuole entrare, cerca di aprire la porta, ed io ricordo il risveglio di allora, l’ansia e il cuore in gola. Ma adesso potrei anche venderla a poco prezzo quella porta, come in un racconto, non lasciamo barriere, ostacoli, indecisioni. Che fluisca liberamente l’universo, sì, certo, che entri la primavera, e questa pioggia di marzo.




2 marzo
Le api dorate

   Un bel raffreddore, spalle ammaccate e mal di gola. Mi sveglio col respiro ingolfato, in cerca di fazzoletti. Sono tutto indolenzito.
   Dalla finestra chiusa filtra poca luce. Le previsioni del servizio meteorologico si sono realizzate: cielo nuvoloso che andrà rischiarandosi in tarda mattinata.
   Cerco di correre ai ripari. Propoli, latte caldo e miele, più tardi una tisana di rosa canina.
   Pochi giorni fa ho visto il dvd d’una emozionante intervista a Mario Rigoni Stern, dove si parlava anche dell’abitudine dello scrittore di nebulizzare, nei periodi invernali di maggior diffusione influenzale, il propoli per le stanze della casa, e della sua profonda esperienza relativa alle api e al loro mondo.
   Mi giunge pure in mente una lettera di Albert Hofmann inviata a Ernst Jünger nel marzo del 1947. Hofmann fa riferimento ad un carissimo ricordo d’una frase, “le api dorate”, scritta nel libro di Jünger  Le scogliere di marmo.
   Sono adesso solo in casa ed un ronzio multisonoro mi sorprende. Volgo lo sguardo alle mie spalle, verso il corridoio. Alcune api volteggiano a mezz’aria,  intrecciando le loro traiettorie sinuose. Lasciano al loro passaggio scie luminose e pulviscolo dorato che si sparge tutto intorno.


3 marzo
Finestra sul mare

   Dalla casa entrano le nuvole, se le si sanno invitare. Almeno una finestra aperta. Così ho fatto.
   Sono entrate le nuvole con le loro ombre, lievi timori impalpabili, l’inquietudine dell’oscurità, nel cuore del confine della luce. Le nuvole hanno visitato la casa, curiose, hanno lasciato veli di sussurri, sospiri, ricordi, sguardi assonnati, visioni tremolanti. Poi sono andate via, ho mosso appena la mano in segno di saluto.
   Ho chiuso la finestra. Ho avvicinato il viso al vetro. Oltre c’è il mare, azzurro. Da dove venga quel colore chiaro non so. Un raggio segreto ne tinge la superficie, la illumina. Il mare è lì, ma io già lo raggiungo con lo sguardo. Sono in un vascello, navigo sulle acque aperte. Uccelli mi accompagnano a ricordarmi la finestra e la costa, poi anch’essi mi lasciano. Sono con il mare. Non sono solo.



4 marzo
Dream

   Entro in un bar. Grandi pini marittimi fuori nella pioggia. Ordino un cappuccino. Mi farà  bene per il raffreddore, qualcosa di caldo. C’è una scritta nella rastrelliera dei quotidiani, in alto:
   “I giornali sono in vendita non in lettura!”
   Riesco comunque a carpire un titolo in prima pagina a caratteri cubitali:
   “GLI ANGOLI VOLANO”
   Mi chiedo invano perché.
   Questo non senso ha perso la capacità di dare, per contrasto, maggior senso a ciò che si ritiene importante, penso inutilmente.
   In macchina, al ritorno, suona una piccola chitarra, e il canto di lui mi intenerisce particolarmente, quando assapora la prima sillaba della parola dream.



5 marzo
La pelle di carta

   Ricordo le mie lacrime di bambino. Mi scottavano il viso, mi giungevano in bocca e sapevano di sale. Le lacrime creavano un grembo di completo isolamento. Per pochi istanti ero di nuovo assolutamente solo, di nuovo assolutamente tutto, non più io, come lo siamo stati tutti.
   Accanto ad una casa si innalza  una magnolia insolitamente alta. I suoi fiori non si aprono verso il cielo come carne pallida, ma sono ancora chiusi, piccole mani strette.
   Tornerà in queste ore la neve sui monti, si dice, tarderà la primavera ed i suoi languori, rimarremo altri giorni a carezzare il tepore delle case, lasciando le strade fuori. La primavera sarà più dolce.
   Ho letto poco fa alcune pagine di letteratura erotica. La pelle freme di desiderio. Ed è pelle di carta.



6 marzo
Sulla spiaggia a occhi chiusi

   Davanti al sole sul mare, sulla spiaggia a occhi chiusi. Seduto ad un gradino di casa, nascosto al vento freddo che mi sbatte addosso mi sferza il viso combatte con il tepore che mi bacia affannato, qualcuno passa sulla sabbia con un cane o senza, un gruppo di ragazzi e ragazze urla e ride forte, si avvicinano bambini guidati in divertimenti organizzati.
   Un pallone rotola sulla sabbia. Dei vecchi parlano tra loro accucciati in giacconi e cappotti. Cosa vedranno gli occhi dell’ultimo sole. Come in una frase di Biamonti. Quale l’ultimo odore e il primo.
   Ci sono semplici giochi, immortali come il gioco stesso. Sento la lamina che mi divide da un passaggio, il confine che per sua natura non esiste e svanirà quando sarà il momento.
   Sulla spiaggia a occhi chiusi. Ma non è vero. Sono in casa e la televisione parla. Ma non è vero. Forse.



7 marzo
Vite di bruchi e farfalle

   Al termine della strada, lì in fondo, sfavilla il mare a ridosso del cielo nitido. Chico Buarque canta con voce profumata come frutta matura - un fico appena raccolto, un mango, una arancia succosa. La sua banda suona, attraversa le vie del paese, porte e finestre si aprono, la musica entra danzando.
   Fuori dal cinema, nell’aria fredda e tersa, nel sole pomeridiano ancora alto, bambini e adulti attendono l’incanto del nuovo film di Alice. Ci affrettiamo con occhiali 3D,  giacconi e cappotti nel cinema affollato. La scena delle rose bianche dipinte a mano di rosso.
   Si muore in un letto o in un bar, in battaglia o in un campo di calcio.
   Come sono belle le vite dei bruchi e anche quelle delle farfalle.



8 marzo
Pecore

   I bassi ulivi nel cortile sono piegati dal vento freddo. Il piccolo lago appare vivido d’un azzurro pastello, intorno una chiazza di terra arata è carne pulsante sotto il cielo sottile. Una sughera ha il corpo esposto, nudo, rossastro, senza un vasto lembo di pelle, sembra disperdere calore in fumo nella luce.
   Poi, osservo un gregge di pecore immobile nel campo.
   Statue di presepe.
   Vecchie immagini televisive.
   Eppure.
   La pecora del gregge lì fuori è reale. La pecora dell’antico intervallo tv è reale. La statuina di pecora del presepe è reale. Il disorientamento giunge quando le pecore si confondono tra di loro, oppure quando una di esse prende il sopravvento sulle altre. E allora talvolta si vuol parlare, si cerca di dire perfino qualcosa di importante, e invece, aprendo la bocca, questo è quel che ne esce:
   “Beee…”



9 marzo
Sulla visione del colore bianco

   Chiudo gli occhi di notte e vedo il colore bianco. Uno sfolgorio abbagliante che mi ha abbracciato con strette vigorose e delicate durante la giornata. Bianco. Dovunque.
   È iniziato al mattino. La neve era sui tetti, su  panchine e macchine. Poca resisteva ai bordi delle strade. Un cielo lattiginoso delimitava lo sguardo verso colline e montagne. Ascoltavo samba e musica di ottoni. Il sole del Brasile e la neve della Toscana convivevano bizzarramente nella mia automobile.
   Al mattino i bambini avevano occhi e voci piene d’esclamazioni rivolti ai vetri delle finestre e oltre, al nevischio che vorticava nel vento gelido. Apparivano fantasmi sparpagliati e svolazzanti, che si disperdevano sfilacciati, poi si ricomponevano, barcollavano in folate imprevedibili, danzavano un ballo rapidissimo che si spezzava in frammenti, scatti, onde fulminee, gorghi,  risucchi.
   Ritorno a casa a stento. Ci sarà ancora un tepore di mura ad accogliermi. Protetto da un giaciglio semovente – sì, la mia macchina – di metallo, plastica, vetroresina e altro, arranco spinto di qua e di là da un turbine di vento che sputa fiocchi impazziti di neve, e i fiocchi diventano sempre più grandi, i pneumatici faticano a mantenere la strada viscida del nuovo gelo. Comincio a temere che una folata più violenta mi spinga in spazi indesiderati, sul ciglio della strada, nelle nuvole unite in un unico indistinto biancore, sollevato in alto da quello sfolgorio incantato, proiettato in un mondo di Oz non scuro di cicloni, ma bianco - labirintico illimitato bianco.
   Nel pomeriggio usciamo avvolti in fagotti fetali – risate e palle di neve, certo – la cattedrale di sabbia e i suoi gradini fermi nel vortice sprofondano e si innalzano in un ulteriore sogno. Le chiome degli alberi scompigliate, con capelli folti avvampati di fiamme verdi, respirano a polmoni spalancati e bocche come ululati.
   Talvolta, oltre le risate, assaporiamo il silenzio – un silenzio vivido, pullulante di voci.



10 marzo
La morte della neve

   Le restavano poche ore ormai. Quel grigio sulla pelle dei cumuli che sopravvivevano ai lati della strada e nella poltiglia acquosa calpestata, preannunciava la prossima morte della neve. Così compatta, lieve, silenziosa e candida il giorno prima, e adesso disfatta, incerta, melmosa. Ma si sa, è così. Nessun rammarico. È la morte, la morte della neve. Era giunto il momento dei commiati.
   “Addio, addio,” dissi, agitando la mano. “Addio, arrivederci,” aggiunsi. “Ti saprò riconoscere per terra, nei rivoli d’acqua che mi inzuppano le scarpe, nel cielo e nella pioggia, quando bagnerai i miei capelli, gli occhiali e il viso, ti saprò incontrare di nuovo anche così, siccome non porto mai l’ombrello. Addio, arrivederci!”




11 marzo
Dimenticanza

   Qualcuno scrive per non perdere “quell’attimo”. Qualcuno scatta fotografie per non smarrire una immagine. Io ho scattato fotografie raramente, anche quando ho percorso affascinanti luoghi remoti. Pensavo: “In tal modo, guarderò più intensamente, una macchina sugli occhi potrebbe distrarmi.” Dimenticherò, sì, pensavo, ma questi cieli e questi visi diverranno il cielo di quel che sono adesso, il mio stesso viso.



12 marzo
Illusione del sole e occhi


   La mia testa oscilla lentamente nel treno in viaggio. La nenia delle enormi ruote metalliche e della ferrovia attraverso gli Appennini centrali. Le carrozze sono verdi e pulite, i passeggeri silenziosi. Fuori cielo grigio.
   Una luce di sole dal finestrino oltrepassa le mie palpebre. Mi sveglio in cerca d’un azzurro di cielo e di raggi solari. Ma il cielo è ancora opaco, il sole nascosto.
   È stata la neve a destarmi.
   Luce bianca abbagliante, vastissima, distesa sui monti che attraversiamo.
   Poi, sorprendo una ragazza che mi guarda dallo scompartimento vicino. Ha occhi e capelli scuri, il corpo esile, gambe lunghe. Trent’anni forse.
   In stazione ci lasciamo. Anche i suoi occhi, insieme agli alberi neri nella neve, quel cielo, quel respiro, sono adesso il mio oggi, il mio respiro, e questo raffreddore che ho da un paio di settimane.



13 marzo
Scrivere e parlare


   Poeti e narratori. Ci siamo incontrati durante una sosta del viaggio.
   Chi scrive sorseggia un cappuccino, forse chiude un attimo gli occhi senza accorgersene, mangia una brioche, si lascia riscaldare dai primi raggi di sole d’un mattino sereno, scioglie le ossa gelate dall’inverno. E quando fa ciò, lo scrittore quasi sempre non scrive, e nemmeno parla.
   Poi, giungono le parole, spesso sono belle, in pubblico ad alta voce, talvolta spezzate da un’emozione o strascinate in una idea chiusa.
   Gli scrittori sorseggiano una birra e mangiano pizze, e ridono pure, e fanno anche schiamazzi. E non scrivono quando mangiano e bevono. Ma ci sono perfino silenzi e certi sguardi d’altri mondi.
   Gli scrittori di notte, prima del commiato, pronunciano un’altra battuta ad alta voce, e quando sono in coppia bisbigliano e vorrebbero dirsi qualcosa di speciale, con un gesto, un sussurro in un orecchio, una carezza. Poi invece si scambiano indirizzi email, un abbraccio e baci mimati sulle guance. Infine si cerca e si dice l’ultima parola, sperando che sia quella giusta.



14 marzo
La valigia

   Sistemo sulle spalle lo zainetto, scendo dal treno. Sono stordito dalle ore di sonno perduto e dal torpore spossato che mi ha colto durante il viaggio. Stazione Termini di domenica mattina. Solito frastuono di altoparlanti, viavai di passeggeri, folla di linguaggi multiformi, pensieri, metallo liquido di emozioni, sigarette, abbracci e baci.
   Cerco dell’acqua da bere. Non la trovo. Mangio un cioccolato al cocco. Come un sonnambulo mi lascio trasportare dall’onda densa di umori umani e di vibrazioni elettromagnetiche. Mi avvicino al binario del mio treno successivo. Poi, esclamo d’un tratto:
   “OH!”
   E quasi mi strozzo con il boccone di cioccolato e cocco. Ho dimenticato la valigia sul treno!
   Corro a perdifiato, zigzagando tra la gente abituata a vedere qualcuno che si precipita verso un binario. Corro e penso:
   “E se il treno sarà partito? E se sarà in deposito? E se la valigia abbandonata avrà messo in allarme il personale della stazione? E se…”
   Trovo il treno ancora lì, sullo stesso binario, attraverso d’un balzo le poche carrozze, e vedo la mia valigia sul portabagagli, nella carrozza vuota.
   Sarebbe stato davvero un peccato perderla. Lì dentro c’erano: un cortile francescano illuminato dal primo sole, le parole notturne prima d’un addio, un merlo dal becco giallo che saltella e becchetta accanto alla mia panchina di legno nell’aria mite, il titolo d’un giornale, alcune frasi: “Le nostre radici che ci soffocano.” “Saper lasciare la Terra con un sì di gratitudine.” “Una poesia concava come un grembo gravido.”



15 marzo
Il ragazzo e il pettirosso

   Il ragazzo di Notre-Dame cura nella sua dimora nel campanile le ali e le zampe rotte di passerotti e piccioni, avvolge con una sottilissima sciarpa colorata il minuscolo collo d’un pettirosso affaticato da una brutta tosse. Gli uccellini riposano in certe piccole scatole e hanno per giaciglio un letto di foglie verdi.
   I bambini in classe sorridono e spalancano gli occhi.



16 marzo
Margheritine

   Sono spuntate le margheritine. I piccoli fiori si spargono a macchie bianche nel prato. C’è sempre qualche bambino a raccoglierli. Li riunisce in mazzetti esili come un sospiro e stringendoli con due dita, te li porge e dice:
   “Sono per te.”




17 marzo
Pietra al tramonto

   Alitano veli di cotone sul lago, scosto il lenzuolo bianco dal letto, il fantasma sfilacciato in camicia da notte mi segue per le dimore etrusche. Precipita il giallo e l’azzurro dovunque, crolla nell’aria sottile di primavera, la pietra appare al tramonto nella bocca dipinta del cielo, un orlo è argenteo, gobba a ponente, dove si liquefa il colore sull’orizzonte. Starnazzano italiani nel televisore. Tutto è compiuto, circolarmente.


18 marzo
Luce di candela


   Filari nudi, scuri, lunghi tralci di vite paralleli, a perdita d’occhio – il campo ombroso, e un chicco d’uva brillante nell’immagine interiore. Nuvole chiare e cieli si impigliano tra altissimi tronchi di pini marittimi, agavi esplodono braccia e mani verdi al centro del mattino. Piccoli cipressi languidi camminano in fila indiana nel sentiero d’un colle.
   Una candela accesa sul tavolo della cucina rischiara la notte tra un riso al sugo e i fagiolini.


19 marzo
Terremoti colorati e salici piangenti

   Ricreo nel sogno della notte una odierna wonderland, ed io sono la nuova Alice in cerca d’un senso.
   Uno dei miei corpi spicca il volo dal tepore del letto. Mi ritrovo in un appartamento molto grande, simile ad un locale d’una città-mercato; è dipinto di verde vivido, le geometrie delle stanze seguono modelli con linee di fuga che disperdono l’ambiente, non c’è una sensazione di grembo caldo domestico. Penso: “Tra poco ci sarà un fortissimo terremoto”. Poi comunico ad alta voce il mio pensiero ai cinque o sei amici – alcuni di vecchia data – che sono con me.
   Ci sediamo sul pavimento lucido. Giunge il terremoto. L’appartamento, posto forse al decimo piano d’un grande palazzo, si inclina con ampie oscillazioni. Portiamo le mani sulla testa, in difesa. Il terremoto è interminabile. Il palazzo oscilla così tanto che la parte dell’edificio che prima ci trovavamo di fronte non è più la stessa. Poi il nostro appartamento cambia colore, diventa completamente blu. E il terremoto cessa, senza aver provocato alcun danno.
   Ma non solo il colore, anche la vita nel mio appartamento, adesso blu, è cambiata. Gli altri coinquilini sembrano quasi non riconoscermi, mi osservano talvolta con un certo fastidio, come un ribelle o un reprobo, oppure come un’immagine trasparente. Si esprimono con un nuovo linguaggio, incomprensibile, e compiono azioni assurde. La vita nell’appartamento è divenuta paradossale, io ne rimango al margine, con un senso di lieve smarrimento, non di dolore. Gli altri mi lasciano al confine dei loro giochi meccanici, apatici – sanno che con essi non condivido più una vicenda comune.
   Infine, imparo il loro linguaggio paradossale, ne svelo i codici comunicativi, gioco lo stesso gioco; mi lascio trasportare da quel veicolo, da quel sorprendente robot, ma il biglietto del viaggio è strettamente nelle mie mani.
   Mi sveglio. Conservo dentro di me il senso di wonder e il colore verde e blu.
   Al mattino i bambini, con cellulari di cartoncino in mano, mimano telefonate ai papà per la festa di San Giuseppe.
   Al mio ritorno, appare sulla sinistra della strada, alle spalle d’una vecchia casa di campagna, un salice piangente rinato nelle nuove foglie di tenero verde. Prima di addormentarmi ancora, mi sorprende nello schermo cinematografico il viola dei campi fioriti di lavanda.



20 marzo
Cercando casa
 
   Primavera. Uova e pulcini. Fiori appena sbocciati. Coniglietti pasquali al primo sguardo giocoso sul mondo. Rondini che cercano casa. Vita nuova in terra e in cielo. Resurrezioni ovunque.
   Ed io, in questo giorno grigio che lacrima umide brume, cerco ancora casa. La cerco su questo pianeta, spostandomi da un punto all’altro della sua superficie. Miliardi di persone si spostano con la propria casa sulle spalle, come tartarughe arrancano lente, allungano il collo grinzoso in cerca d’un posto dove vivere protetti, dove poter deporre il proprio guscio e quel  peso – in cerca d’una casa. Si spostano da un punto all’altro e l’intero pianeta sposta loro da un punto all’altro dello spazio. Talvolta la Terra raggiunge una distanza equinoziale dal Sole, come oggi, equinozio di primavera – equilibrio tra giorno e notte.
   Nostro benedetto equilibrio, a saperlo mantenere mentre tutto vortica all’impazzata insieme a noi, nello spazio interstellare, e urliamo eccitati di gioia come bambini  su una giostra, pronti perfino a cambiare luna park, per spiccare il volo verso altri pianeti e verso altre forme.



21 marzo
Buona primavera!
  

   Ci risvegliamo ancora in questo mattino.
   Una nuova sorpresa, un incanto.
   Buona primavera!

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