lunedì 22 marzo 2010

Non è educato fare certi versi


intervento di Subhaga Gaetano Failla al convegno faentino Scrittura e impegno


                        
Bisogna scrivere versi tali che a gettare una poesia
contro la finestra il vetro si deve rompere.
 (Daniil Charms)



Ururu ru bau uuu uh uh uh. Certo non è più il mondo d’una svolta. Non è più quel che si dice, quel che si dice, quel che si dice. E le parole, come diceva quello, sono come le sono come le lelelelele. Roarrrtititi taratarata tarallucci e trino. Ci sono problemi più importanti, mirando il cielo ed ascoltando il canto. Queste mura bianche e basta con gli antiparassitari sterili. Viva i parassiti e i simboli appassiti. Lord oh mai lord. Mai o soltanto qualche volta. Cazzi in parlamento, ictus ed andropausa, lenti spermatozoi e gesti di mitraglia. Uh uh urca orco d’un orco il babau l’uomo nero e quello di terra che alalaala  amen, sull’erba dura di ghiaccio. Uh uh uh. Ma sedendo e mirando, col telecomando, eccoci qua. No, non è educato dire certe cose, fare certi versi: prr grr cacca pipì pupù beeee miao ciao.  E si dimentica il dolore buoni anestetici il cuore l’amore il calore la fede nuziale e quella talare tali e quali quelli che ho visto tali e quali quelli. Aveva quindi,  assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. E si parla di impegno ma che non diventi un pegno una pigna una zampogna una carogna che ti guasta la cesta di mele e di arance e le uova nel paniere.
   Come incidere dunque lululululuuu. Bisogna fare un sogno e sognarlo con gli occhi d’un altro e poi l’altro diventa un rinoceronte una libellula e una scartoffia. E l’altro non esiste non desiste cracracracrac eu eu eu come la civetta quando di giorno compare. L’Italia è schiacciata - tra Vaticano, razzisti,  Berlusconi, mafia, leghisti, neofascisti, narcosi televisiva - nell’impero della bruttezza. Prrr! Non è educato dire ciò. Non è educato. Non fare certi versi, scostumato. Partivamo quando l’aurora nasceva con un color di rosa tra i fichidindia. Ra ra ra iarshhhh. E allora penso pensiamo dispensiamo dispense credenze creditori armadi e armadilli l’idea collettiva e i colletti inamidati e poi un po’ di Po di polenta padana e noi che veniamo dallo spazio infinito, anzi no, noi che abitiamo, ora adesso, coccodè, nello spazio infinito, pensiamo crediamo credenza armadio di abitare in un pocket coffee. Che poi è anche possibile. Il mio miglior  amico è un raccontino in bianco, di semplice intrigo,  che si svolge tutto nell’antenna sinistra di una locusta. Cosa abbiamo dimenticato? Abbiamo dimenticato il creato lo zenzero la porcellana il chicco di riso i ravioli sul fuoco la penna di gabbiano sulla spiaggia il gelo che ci arrossa il naso una pietra bianca nella tasca dei pantaloncini una lucertola e anche un barattolo di marmellata. Possono anche crepare di AIDS in Africa ma lasciategli  terminare quella benedetta partita a flipper, fatelo atterrare, fategli scardinare la mente cardinale. Che splendido dolore/ mi coltivo/ più bello di un geranio solitario/ e nero.  
   Sicché lasciamola andare per strada e per strudel questa creatura d’arte storta come una torta bruciacchiata e profumata lasciamola andare con un pegno e le pigne le zampogne e le mele cotogne con l’impegno d’un pupazzo di legno un Pinocchio uno scarabocchio la bellezza e la bruttezza vai a capire dove essa spire (o a capiri dove essa spiri). Son serpenti delle spire o spioni che son suoni. Questa gente l’avete portata in alto voi coi corazzieri, e adesso siete schiavi (…) v’incantano la lingua e le parole d’un astuto, e non vedete quello che succede.
   Il senso della semplicità ah! è stato nascosto da una onirica complessità ah!: essa appare linearità ah! all’uomo che sogna ed egli si dibatte preda delle emozioni. Un po’ di luce, almeno una abatjour accesa. Non rimpiango l’appartenenza al genere umano, non reclamo la tessera effimera alle vicissitudini d’una specie la cui importanza è stata esagerata e narrata come racconto epico – i suoi patetici viaggi fuori e dentro la celluloide della memoria, a entrambi i lati del sipario del sogno…Non fate brutti versi per favore, niente belati nemmeno o rutti o peti. No no no. Lasciamolo andare questo pupazzo di parole questo pazzo che canta questo pezzo buono come una pizza o bello come un ballo. Può capitare che un padre abbia un figlio brutto e senza nessuna qualità, e l’amore che gli porta gli mette una benda sugli occhi per non vederne i difetti. Che l’impegno sia un segno non il regno d’una tela di ragno.  E la famiglia, mi raccomando, e non ti toccare e non toccare. Tocco solo io che sono il capo, soldi serpenti sesso sasso, si suole sopravvivere, ma solo sino a un certo punto. Berlusconi Borghezio Bondi Bossi Brunetta. Ci ritroviamo nel fango a trangugiare feccia con le b maiuscole, da Benito in poi. Che s’impari a leggere sillabando il mio nome: Bé-Bé, Bérenger. Che io compaia sulle icone, sui milioni di croci in tutte le chiese. Che si dicano messe per me, ed io ne sia l’ostia. Che tutte le finestre illuminate abbiano il colore e la forma dei miei occhi, che i fiumi disegnino nelle pianure il mio profilo! Che mi si invochi eternamente, che mi si supplichi, che mi si implori.
E sì, lasciamolo andare questo pupazzo di parole. Ma di certo solo un pazzo può abbandonare il proprio figlio sghembo in una giungla di grembiulini, rumeni, fannulloni, magistrati, bottiglie d’acqua, crocefissi, zingari, comunisti, peni turgidi, mafie frigide, donne logiche, carcerati fragili, frantumati e friabili,  prostitute tragiche, leccapiedi magici, cupi pastori lupi, ballerine futili, tette e culi infrangibili, gli stranieri son strani, il lavoro una grana e la gioia una frana. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo.
Ed infine, una trita (o una trota) spiritosaggine: adesso ci sono tanti stallieri e stalle (e dentro di noi di rugiada stille) ma a piedi o in macchina usciamo di notte a riveder le stelle.
   Voci. Dall’albero piccolo di ulivo, alla finestra, gli uccellini saltano e volano, e si perde lo sguardo di là dalle nuvole grigie e bianche, e negli azzurri frastagliati. Fiori di campo socchiusi nell’erba – e quel gambo immerso nell’acqua del bicchiere, i piedi bagnati d’un amico Disegnatore d’alberi. La luce si diffonde man mano e un orlo di celeste, di carta velina, sta sulla linea di collina, sul dorso peloso d’alberi d’un animale. Non passa nessuno nell’aria, eppure quanti passi lievi ovunque.



I brani evidenziati con il corsivo appartengono, nell’ordine, ai seguenti autori: Leopardi, Quasimodo, Leopardi, Manzoni, Shakespeare citato in epigrafe da Sciascia, Bonaviri, Drummond De Andrade, Roberto Amato,  Solone,  Manu Bazzano, Cervantes,  Ionesco, Borges, Dante.

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