ABBAZIA DI SAN MINIATO AL MONTE
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«Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Lc 20.25)
Carissime e carissimi,
sono lieto di poterVi inviare l'abbondante sintesi dell'ultima lectio divina dedicata ad alcuni importanti versetti dei capitoli ventesimo e ventunesimo di Luca. Essi contengono anche il celeberrimo effato di Gesù appena citato, una risposta che continua ad ammonirci da qualsiasi idolatria del potere mondano allenandoci a saper scorgere ogni sua indebita sacralizzazione.
Vi ricordo i nostri prossimi incontri di lectio divina: giovedì 18 febbraio, e ancora giovedì 4 e 18 marzo alle ore 18.40.
Giovedì prossimo inizieremo il grande e misterioso discorso escatologico che Gesù pronuncia a Gerusalemme prima dell'inizio della sua passione.
Il primo sabato del mese prossimo, il 6 marzo, alle ore 15.30, si terrà la consueta meditazione spirituale, che abbiamo intitolato, pensando al tempo liturgico che stiamo per vivere, "la via della croce".
Con l'augurio che l'imminente inizio del cammino di Quaresima vi conduca a meglio intuire la volontà del Padre, con Stefano e la Comunità vi abbraccio caramente in Cristo,
Bernardo
Luca 20,20-36
20Postisi in osservazione, mandarono informatori, che si fingessero persone oneste, per coglierlo in fallo nelle sue parole e poi consegnarlo all'autorità e al potere del governatore. 21Costoro lo interrogarono: "Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non guardi in faccia a nessuno, ma insegni secondo verità la via di Dio. 22È lecito che noi paghiamo il tributo a Cesare?". 23Conoscendo la loro malizia, disse: 24"Mostratemi un denaro: di chi è l'immagine e l'iscrizione?". Risposero: "Di Cesare". 25Ed egli disse: "Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio". 26Così non poterono coglierlo in fallo davanti al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero.
27Gli si avvicinarono poi alcuni sadducei, i quali negano che vi sia la risurrezione, e gli posero questa domanda: 28"Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se a qualcuno muore un fratello che ha moglie, ma senza figli, suo fratello si prenda la vedova e dia una discendenza al proprio fratello. 29C'erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. 30Allora la prese il secondo 31e poi il terzo e così tutti e sette; e morirono tutti senza lasciare figli. 32Da ultimo anche la donna morì. 33Questa donna dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l'hanno avuta in moglie". 34Gesù rispose: "I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni dell'altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; 36e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio.
37Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui". 39Dissero allora alcuni scribi: "Maestro, hai parlato bene". 40E non osavano più fargli alcuna domanda.
41Egli poi disse loro: "Come mai dicono che il Cristo è figlio di Davide, 42se Davide stesso nel libro dei Salmi dice:
Ha detto il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, 43finché io ponga i tuoi nemici come sgabello ai tuoi piedi?
44Davide dunque lo chiama Signore; perciò come può essere suo figlio?".
45E mentre tutto il popolo ascoltava, disse ai discepoli: 46"Guardatevi dagli scribi che amano passeggiare in lunghe vesti e hanno piacere di esser salutati nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei conviti; 47divorano le case delle vedove, e in apparenza fanno lunghe preghiere. Essi riceveranno una condanna più severa".
Luca 21,1-4
1Alzati gli occhi, vide alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro. 2Vide anche una vedova povera che vi gettava due spiccioli 3e disse: "In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti. 4Tutti costoro, infatti, han deposto come offerta del loro superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere".
Giovedì 4 Febbraio 2010 - Riflessioni sul Vangelo di Luca 20, 20-47; 21,1-4
Abbiamo accompagnato Gesù nel suo viaggio a Gerusalemme e con Lui siamo entrati nel tempio. Egli ha preso possesso del cuore sacro dell’antico Israele, il luogo dove tutta l’economia dell’alleanza di un popolo col suo Signore aveva il suo spazio cultuale. Gesù si è posto nel tempio con un gesto forte e violento inaugurando un nuovo tempio, quell’unico spazio di incontro con Dio rivelato dalla sua Parola, dal suo corpo, dalla sua stessa presenza.
Tutta questa lunga sezione di Luca si ambienta a Gerusalemme, in parte nel tempio. In questa città, nei suoi luoghi, avvengono durissimi scontri verbali riguardanti il rifiuto o l’accettazione di Gesù come nuovo tempio, unico luogo di mediazione col Padre e come il vero Messia, colui che bussa alle porte dell’antico Israele perché accogliendolo rinnovi il suo statuto di popolo credente nella nuova economia, nel nuovo magistero.
Anche noi siamo invitati da queste pagine e attraverso queste contese a rinnovare la nostra opzione per Gesù.
Tutte queste controversie, dopo la presa di possesso del tempio, appaiono come una serie di contraddittori che riguardano la stessa identità di Cristo, il suo posizionarsi nella storia del popolo di Israele, ma anche nella nostra storia personale di credenti.
La prima domanda tranello sulla sua autorevolezza (Luca 20,1-4) solleva veramente dei dubbi e il riferimento che Gesù fa a Giovanni il Battista non è per eludere la domanda rivoltagli, ma è per chiedere a sua volta se Israele ha ascoltato l’ultimo dei profeti mandati da Dio ad annunciare la venuta del Messia; anche noi chiediamoci se veramente sussiste una pre-disposizione a mettere noi stessi in relazione con l’urgenza profetica con cui il Signore attraverso la storia si fa strada, a credere in Lui, ad accoglierlo, a vivere i segni che ci manda come manifestazione della sua venuta e del suo ritorno nel nostro cuore.
Anche la parabola dei vignaioli omicidi (Luca 20, 9-16) sollecita il nostro cuore a chiederci se siamo disposti ad accogliere l’Unico Figlio mandato dal Padre.
Nel contraddittorio verbale tra Gesù e gli informatori dei notabili, nell’episodio del tributo a Cesare, l’attenzione si sposta su un piano orizzontale: in che misura accogliendo Cristo è possibile fare chiarezza sui nostri rapporti con tutto ciò che è contingente e appartiene a questo mondo e cosa invece ci rimanda al Signore, a una dimensione sacra. Capitolo fondamentale da cui si può davvero chiarificare la nostra appartenenza a Cristo Signore nella misura in cui sappiamo riconoscere ciò che è di Cesare e restituirglielo e viceversa saper discernere ciò che appartiene a Dio e a Lui riconsegnarlo.
La presenza di Cristo nel tempio di Gerusalemme, ma anche nella cattedrale interiore del nostro cuore, sollecita la nostra fede anche a un interrogativo fondamentale sulla vita che verrà, a come dobbiamo immaginarci la vita futura, poiché Gesù è venuto a darci una parola di salvezza che sembra già, nei miracoli da Lui compiuti, non arrendersi al male e non limitarsi alle pure vicende biologiche dei corpi, ma manifestare quel progetto di pienezza di vita che Gesù ha per ciascuno di noi e che non appare essere circoscritto nell’esperienza finale della morte.
Tutti questi incontri-scontri, le provocazioni che Gesù affronta e alle quali risponde, fino a quella che allude alla paradossalità del fatto che Davide possa chiamare “Signore” un suo discendente (Luca 20, 41-44) si risolvono in un grande rimprovero agli scribi, a tutti quelli che pregano in maniera ipocrita e la cui fede è solo apparente.
Gesù ci invita a un’esperienza esistenziale interiore radicale di abbandono; il modello che ci fornisce è dato dalla straordinaria contrapposizione fra la moneta con l’immagine di Cesare tenuta in mano dagli inviati degli scribi e gli spiccioli neanche contrassegnati, piccoli e poveri, che la vedova getta tutti nel tempio.
Gli scribi passeggiano con le lunghe vesti, siedono nei primi seggi delle sinagoghe, sembrano i soli a poter vantare una familiarità col sacro, invece sono il contrario di ciò che Gesù propone: l’immagine della vedova che non trattiene nulla per sé, che si consegna totalmente al mistero della presenza di Dio nel tempio e che rappresenta quindi il vero esempio della nostra fede che ci chiede di metterci completamente in gioco, senza riserve, ma che è anche il modello di Cristo stesso che per obbedire al Padre si consegna in totalità, dando tutto se stesso per la nostra salvezza.
C’è un percorso, un crescendo negli scontri che Gesù ha e che sollecitano anche in noi una riflessione profonda e una risposta forte.
Luca 20, 20-26 “ Postisi in osservazione, mandarono informatori, che si fingessero persone oneste, per coglierlo in fallo nelle sue parole e poi consegnarlo all'autorità e al potere del governatore. 21Costoro lo interrogarono: "Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non guardi in faccia a nessuno, ma insegni secondo verità la via di Dio. 22È lecito che noi paghiamo il tributo a Cesare?". 23Conoscendo la loro malizia, disse: 24"Mostratemi un denaro: di chi è l'immagine e l'iscrizione?". Risposero: "Di Cesare". 25Ed egli disse: "Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio". 26Così non poterono coglierlo in fallo davanti al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero”.
Gli scribi e i sommi sacerdoti non vanno personalmente da Gesù perché hanno paura del popolo che ha intuito la sua capacità di condurre gli animi a un livello profondo di verità, ma mandano dei sicari con l’intendimento di coglierlo in fallo nelle sue parole e poi consegnarlo all'autorità e al potere del governatore.
Si evidenzia l’ambiguo rapporto tra il potere sacerdotale e quello romano. Di fatto l’uno avrebbe la possibilità di rivendicare una radice d’indipendenza di Israele costretta a subire anche l’imposizione di un culto, di una tradizione così lontana come quella romana; tuttavia, quando sarà necessario per uccidere Gesù, i sacerdoti non esiteranno ad allearsi col governatore.
La domanda sulla liceità del pagamento del tributo a Cesare è ingannevole. Pagare le tasse a Cesare significava rassegnarsi all’occupazione di Israele da parte di Roma. Sappiamo da fonti storiche che sotto il regno di Quirino, governatore della Siria, di cui si parla all’inizio del Vangelo di Luca (Luca 2, 1-5) a proposito del censimento che costrinse Maria e Giuseppe a mettersi in cammino verso Betlemme le tasse contro il popolo di Israele erano state particolarmente inasprite, tuttavia l’esazione fiscale era considerata una sorta di compromesso con l’autorità romana, non pagarle avrebbe significato contrapporsi ad un potere che era molto forte rispetto alle forze limitate di Israele.
La domanda è un tranello perché ciò che interessa agli scribi e ai farisei è solo trovare il punto debole nella risposta di Gesù. Lo avrebbero fatto passare per un profeta da interpretarsi politicamente, semplicemente uno che incitava il popolo alla ribellione contro i romani, se avesse risposto di non pagare il tributo, o viceversa, per il profeta connivente con l’autorità se avesse approvato il pagamento, di fatto avallando quella sorta d’idolatria che era l’utilizzo delle monete romane sulle quali era impressa l’effigie di Cesare divinizzata, che rivelavano la profonda commistione tra culto e politica tipica dell’impero romano.
Il Signore Gesù evita di rispondere direttamente a questa domanda perentoria.
Luca 20, 24-25 24"Mostratemi un denaro: di chi è l'immagine e l'iscrizione?". Risposero: "Di Cesare". 25Ed egli disse: "Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio".
La risposta indiretta di Gesù è di grande finezza. Essa crea due circuiti ben distinti, non sovrapponibili, né interscambiabili. Il primo è quello in cui si manifesta l’utilizzo idolatrico del denaro: le monete vanno restituite all’imperatore che si crede Dio; il secondo è quello di un Regno che si pone trasversalmente tra la storia delle nazioni, delle oppressioni e la storia ulteriore, nella quale vige l’economia di Dio che non è possibile materializzare sulle monete, né in strutture o contingenze politiche
Gesù crea una distinzione importantissima che avrà una grande fortuna nella cultura cristiana. Queste persone chiedono e sollecitano l’identità di Gesù attraverso una moneta. Gesù risponde che, di fatto, noi siamo impegnati a riconoscerlo e a riconoscerci attraverso altro dal denaro.
Gesù parla di immagine e di iscrizione. L’immagine è ciò che caratterizza ciascuno di noi, il volto di ciascuno di noi, e noi sappiamo, dal libro della Genesi, che la nostra immagine, cioè la nostra appartenenza non è certamente modellata sul volto di Cesare, su un oggetto, su una cosa, ma è modellata su Dio stesso. Gesù invita chi tenta di portare alla luce la sua identità attraverso un idolo, una cosa, una sembianza a riscoprire una più vera e più profonda appartenenza.
Noi, a Cesare, cioè a una persona che si idolatra, al massimo possiamo rendere un oggetto, una cosa, un’utilità, ma ciò che è proprio dell’uomo, la sua immagine irriducibile a una moneta, a un’effigie, a una pubblicità, noi non possiamo che restituirla a Dio stesso: noi non apparteniamo che a Lui e l’uomo, la sua libertà, la sua identità non può in alcun modo essere oggetto di scambio economico commerciale, e nemmeno la libertà più profonda di un popolo può essere fatta oggetto di scambio economico, commerciale e politico.
Questa risposta è davvero un grande manifesto della libertà dell’uomo, della sua dignità, della sua irriducibilità a qualsiasi tipo di logica esclusivamente commerciale o politica.
Il rapportarsi al Signore investe gli uomini di una dignità tale per cui essi divengono doppiamente cittadini: sia di quest’ambito contingente e terreno, commerciale, della politica, del fare le cose, ma anche a pieno titolo cittadini di un’altra dimensione, quella dove è assolutamente intangibile l’appartenenza a Dio.
Chiariti questi due ambiti, l’uomo ha la possibilità di muoversi liberamente e dignitosamente senza confondere i piani. Può essere doverosamente un onesto cittadino, un buon politico; egli agisce senza compromessi, senza pensare di piegare ai suoi interessi o annullare l’ambito divino perché sa di muoversi in uno spazio vitale in cui è sottoposto all’unica signoria di Dio che è l’ultima parola, quella che garantisce pienezza e libertà.
Da questo punto di vista il versetto è ricchissimo di conseguenze.
Solo nel cristianesimo e nella cultura che ne è derivata, abbiamo questa netta distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, tra ambito squisitamente umano e divino.
Essa ha dato origine alla categoria della laicità propria del mondo occidentale.
Non è una categoria extra cristiana, non è derivata dall’illuminismo, ma è stato il cristianesimo ad affermare che le cose di questo mondo vivono di una loro autonomia, in un loro ambito che l’uomo può regolare, certamente non disgiunto da quello di Dio, Signore di tutte le cose. Viceversa esiste un altro spazio, quello di Dio, che non può essere utilizzato per sacralizzare, come vorrebbero gli scribi, le relazioni tra un uomo e gli altri uomini.
Si avverte una non semplice ma profondissima densità che doverosamente richiede riflessione.
Non sempre questo tipo di prospettiva ha avuto facile fortuna nella storia del cristianesimo: tante volte, nonostante la chiara indicazione di Gesù secondo la quale non si possono confondere i piani, anche poteri cristiani hanno ceduto alla tentazione di sacralizzarsi per estendere il loro dominio fino alla coscienza e alla libertà dell’uomo che è esattamente ciò che questo versetto vuole garantire.
Gesù sarà stato certamente interessato alla libertà politica del suo popolo, ma il Vangelo non è il trattato di una sua visione politica, come tale avrebbe avuto una validità contingente, ma è un manuale di vita, di piena vita, valido per ogni storia dell’uomo. Per questo il Signore non dà una risposta politica ma risponde su un piano che è decisivo per la consapevolezza che l’uomo deve avere in ordine alle cose di questo mondo e in ordine a quelle di Dio. Entrano in gioco sia la coscienza della sua libertà, della sua dignità irrinunciabile e intangibile, della sua appartenenza a Dio, essendo fatto a sua immagine, sia il suo doveroso, inevitabile e provvidenziale coinvolgimento sul piano della sua storia personale, delle relazioni sociali, politiche, culturali da cui l’uomo evangelico non potrà mai più essere mortificato. Questo avviene nei regimi totalitari, dove il potere sempre confonde l’ambito civile e politico con la dimensione del sacro manifestandosi al popolo con liturgie, con le monete coniate con effigi per sottolineare che lo scambio vitale e commerciale deriva da una sorta di sacralità della figura che vi è impressa, prospettiva che rende l’uomo pedina di un meccanismo.
La parola di Gesù, di profonda libertà, ci ricorda che l’uomo appartiene a un’economia il cui unico Signore è Dio, in cui l’unica moneta di scambio è la dimensione dell’amore, della fede, ne è esempio paradossale ed estremo il gesto della vedova che getta nel tempio, nel cuore di Dio, tutta se stessa, mettendo in discussione tutta la propria esistenza; è questa la vera risposta politica che il vangelo ci suggerisce di dare come hanno fatto schiere di martiri che hanno reso il loro essere inermi l’arma più potente per sovvertire, anche politicamente, un potere.
In questo senso il mondo europeo ha avuto una direttrice; non a caso il Papa assistito da una sua riflessione teologica, ha sempre rivendicato a sé la potestà sulle cose dello spirito. Pur avendo avuto in passato un discutibile potere politico, di fatto, c’è sempre stata la consapevolezza che l’entità dello Stato della Chiesa servisse solo per garantire, un tempo paradossalmente anche militarmente, la sua libertà riguardo alla difesa dell’interiorità della persona e della sua intima appartenenza all’unico Signore.
La contrapposizione tra l’imperatore e la Chiesa che ha segnato la storia europea nasceva dal fatto che l’imperatore tendeva ad appropriarsi dei panni sacrali del Papa pretendendo di nominare i Vescovi, lotta che si è rivelata aspra e decisiva proprio per spogliare la percezione occidentale del potere da qualsiasi presunzione di sacralità e di arbitrio anche nelle cose di Dio.
Questa è la laicità: ridurre il potere politico a mero esercizio di autorità sulle cose di questo mondo, garantire che questa circolarità per cui ciò che è di Cesare torna a Cesare non sconfini appropriandosi di dinamiche che sono soltanto dell’interiorità, dell’appartenenza, nella libertà, dell’uomo a Dio.
Quando questo principio s’indebolisce significa che la Chiesa può rinunciare alla sua libertà e l’autorità politica si assume una signoria sul cuore delle persone su cui non ha nessun diritto. Culturalmente l’Islam ha questo dramma non esistendo nessuna distinzione tra le due sfere del potere politico e spirituale, da questo deriva l’enorme difficoltà di alcuni Stati arabi nei quali la stessa autorità legifera su questioni religiose e spirituali e governa politicamente.
Per un certo periodo anche nello Stato della Chiesa c’e stata questa commistione, quando accanto al Vescovo, autorità episcopale, che governava sulle cose spirituali, c’era un Legato pontificio in rappresentanza del Papa, quasi in veste di prefetto, che governava su questioni temporali.
Garantire la netta distinzione tra i due poteri è un contributo importantissimo che il cristianesimo può dare a livello sociale globale laddove spesso la tentazione è confondere gli ambiti perché quando il potere umano si sente debole la tentazione a sacralizzarsi gli conferisce fascinazione, però lede la libertà perché gli idoli mortificano la libertà dell’uomo.
Il Dio biblico è così grande perché, per sua natura, sempre rinuncia all’idolatria. Il vitello d’oro, costruito da Aronne in assenza di Mosè, servì a tranquillizzare il popolo rappresentando materialmente un Dio che invece vuole il mistero, il silenzio, preferisce essere rappresentato solo dalla Croce di Cristo pur di fare della nostra fede una scelta di radicalità come fa la vedova che mette in gioco tutta se stessa.
Il Crocifisso del Signore Gesù è un’immagine in cui è negata qualsiasi interpretazione idolatrica di Dio, se dovessimo credere a un Dio sotto le vesti di potenza, per come l’uomo se la rappresenta, non potremmo mai credere in un volto disfatto dalle ferite, dalla morte; il Crocifisso è la rappresentazione della potenza dell’amore che Dio ha per noi.
Luca 20, 27-40
“27Gli si avvicinarono poi alcuni sadducei, i quali negano che vi sia la risurrezione, e gli posero questa domanda: 28"Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se a qualcuno muore un fratello che ha moglie, ma senza figli, suo fratello si prenda la vedova e dia una discendenza al proprio fratello. 29C'erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. 30Allora la prese il secondo 31e poi il terzo e così tutti e sette; e morirono tutti senza lasciare figli. 32Da ultimo anche la donna morì. 33Questa donna dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l'hanno avuta in moglie". 34Gesù rispose: "I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni dell'altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; 36e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio.
37Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui". 39Dissero allora alcuni scribi: "Maestro, hai parlato bene". 40E non osavano più fargli alcuna domanda”.
I sadducei appartenevano a una corrente che, interpretando la Bibbia alla lettera, non credeva nella resurrezione. Il loro tranello consiste nel chiedere a Gesù com’è possibile immaginare nella pienezza di un'ulteriorità di vita situazioni tanto contingenti e paradossali come quelle del caso esposto dove, in obbedienza alla legge mosaica, sette fratelli si sposano, uno dopo l’altro, con la stessa donna.
La risposta di Gesù fa fare un salto di ambito: Egli dice di non interpretare le cose inimmaginabili che ci attendono con categorie che sono di questo mondo, pare mettere in relatività il matrimonio stesso, ma non vuol dire che le nostre relazioni affettive saranno cancellate, ci fa capire che prevarrà una relazione nuova: vivere in pienezza la figliolanza divina. Questa è la parentela più importante, divenuti figli della Risurrezione, in quest’amore più grande confluiranno tutte le altre nostre relazioni.
Luca 20, 37“ 37Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”.
Il Signore Gesù indica Abramo, Isacco e Giacobbe come patriarchi ancora vivi accanto al Signore.
Luca 20, 38-40 “38Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui". 39Dissero allora alcuni scribi: "Maestro, hai parlato bene". 40E non osavano più fargli alcuna domanda”.
Avremo con Dio una dimensione esistenziale tanto forte da essere il tratto qualificante della vita eterna; le nostre relazioni affettive terrene che profondamente hanno segnato la nostra esistenza, pur riconosciute, rivisitate, non potranno sovrastare la più importante relazione di figliolanza divina. Ancora una volta il Signore ci sta educando a distinguere i piani.
Alla luce di tutti questi versetti si comprende perché il Signore ci abbia proposto l’immagine della vedova povera che, compiendo un gesto di estrema libertà, getta le monetine nel tempio; esse rappresentano la vita che gettata nel tempio ritorna a Colui alla quale appartiene. E’ la donna più libera, forte e serena del mondo, è la prospettiva che la fede vorrebbe suggerirci sotto la lente paradossale della Croce di Cristo: stoltezza per i pagani ma per noi chiave interpretativa della nostra vita. Quanto più annulleremo ciò che ci appartiene nell’amore di Cristo, tanto più diverremo forti e capaci di attraversare l’esistenza.
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