martedì 14 agosto 2007

A Ezra Pound (Gian Ruggero Manzoni)


Una messa a nudo, una confessione, una provocante e bellicosa prosa ritmica (misticamente martellante) che può fungere da specchio per tutti coloro che si occupano di lettere: ringrazio Gian Ruggero Manzoni per questo intensissimo scritto.



Tu non sei pazzo come la gente crede. Dimentichi le cose belle per rabbia e non per altro. Noi abbiamo sacrificato le illusioni per continuare a stare assieme, ma i concetti sono ali di passero nella tua mente. Questa morte, lenta e gradevole, è massima rivelazione, e ogni discorso ora acquista infinite volte un significato. Ascolta - troppo orgoglioso fosti come uomo, che per primo sfidasti quel muro e la condanna - che le nubi e le stelle ancora fomentano. Distante la terra al tuo sguardo - e su fragile nave consegnasti la vita, ai respiri mutevoli dell’aria. Troppo audace - troppo temerario. Carezzata dai roghi la tua testa - testa di poeta, che dal giorno della nascita guardò il mondo nella fiamma - quale riparo, per il tempo che seguì la maturità e la chiamata. Quale rifugio per una coscienza votata all’esilio. E che lunga salita - che ansimare - che scala di braccia e di guerrieri votati all’estremo. Sul filo della vita e della morte - pugnale troppo sottile - osasti solcare la volta celeste affidandoti a piccole tavole, ad assolute convinzioni, a esempi - desiderati, ma mai sperimentati da cuore religioso e casto. Sei quindi da ammirare - sei da invidiare, per come il lato oscuro ti abbia sedotto, poi ti abbia elevato, senza gelarti, senza privarti dell’anima e di quella fornace che porta al chiarore e ai campi di Leveràno, dove i suoni, e i capricci della carne, sono virtù e domanda.

Prima di te, l’uomo non conosceva gli astri, e con lo zodiaco nessuno si orientava. Ti cimentasti, e tutti si fecero da parte, si chinarono e con le palme o le dita si chiusero gli occhi - come tu non potessi tornare - come tu, nel viaggio, potessi perdere volontà di esistere o di creare, e quindi, riapparso, non ti potessero più chiamare col tuo nome, col fremito del sangue, o con l’increspatura di mani bagnate. Prima di te - issato dal chiaroscuro umano - già sacra divinità priva di colore e di geografia abituale - prima di te, beato e glabro, a nessuno riusciva di dominare i valichi desolati, d’imprigionare i tramonti di Belofonte – l’antidoto del Cigno - le proprietà dell’Idra e gli zoccoli di Pègaso indomato. A nessuno fu di capire la bianca realtà e la buia realtà di un confine. Non si appellavano i santi. Non avevano stirpe i maghi e gli astronomi. Non esisteva una tana, un fuoco, un comodo giaciglio di lana e paglia. I re sacerdoti aspettavano un comando - ASÀNTIS! Si urlava oltre i cancelli - ALÀIM GHÈR AXÈNI! E il sesso dirompeva fra le schiere…
Oh mio signore - grande verità e grande meraviglia era nel balzo - ma noi osammo. Ordinasti di issare e stendere le vele - alle forze di dettare nuove leggi - alle armi chiedesti una grazia e noi… osammo - che il nome che porti fu parola d’ordine e seno di madre. Noi fummo con te - noi, al tuo fianco, eroi di pace, eroi di lenti ozii e di festività oceaniche - e tu stavi, in quei giorni, nel ventre del raggio - ora a pensieri spiegati, ora attento a captare, ora prudente ai rumori dello scafo, ora nel sonno, con le mascelle illuminate da bagliori di corallo, ora dolce, con la nostra smania, e con la crudeltà di una terra che fugge i doni e il coraggio - di un mondo che sopravvive nel ruotare di lucerne, o in mappe di molto sfumate - di un sogno, di un sentiero dopo l’altro - e in quello ti scortammo, verso l’empìreo e le sue leggende - e sempre attorno, sempre al tuo fianco e al tuo comando - sempre schierati, ci armammo di scudi e di asce, per deviare le folgori e la minaccia - alzammo barriere e steccati, davanti all’insensibile e alla grandine - parammo la neve e la pioggia di sabbia, evocando gli angeli - gridammo e sciogliemmo le onde e gl’inganni, con il solo movimento delle palpebre, e tu, mai subisti offesa alcuna - mai, ben diritto sul tuo piedistallo, a braccia aperte, fosti spruzzato dalle acque o insultato da elementi estranei. Mai ti dovesti piegare o dovesti chiedere, convincere o supplicare - c’era per te chi bussava di porta in porta, ordinando agli uomini di concentrarsi e di fissare la luna d’arancio, immobili, al chiarore delle fiaccole, pronti a combattere o a recitare salmi, in quelle armoniose adunate - e così, il nostro pianto mosse l’arca - le tue gote, segnate da lacrime, divennero quadre di lino e seta, gonfie di scirocco e di speranza - gonfie di sud e di aliti caldi e profumati - poi tutti c’imbarcammo, anche il docile assassino e il ladro di piazza - anche il verde strozzino e il ruffiano del mercato, e tutti si prestarono, tutti si convinsero e strinsero patti, che il maroso, con il disprezzo, venne domato, e ai codici si giurò fedeltà e lunga estate.

Fra noi, non ci fu bisogno di ripetere o di spiegare - neppure si confidò nella potente Argo, la celebre nave che la dea cucì canapo per canapo, e che ancora è spinta dai trenta remi dei sovrani. Non s’indugiò a impartire benedizioni o premi favorevoli per la traversata. Noi si era già… olio, offerta e lume per le divinità. Le donne e i bambini si unirono alla ciurma, così che le famiglie e le amanti non furono rinnegate, o salutate invano. Non si perse tempo, anche se il tempo dava tempo e il tempo era uomo - individuo fra gli altri sul ponte ordinati. Si partì per non tornare. La tenera barca - di canto le pareti e di risolutezza la chiglia aurea - tagliava il ghiaccio profondo e inviolato; lo spazio siderale; quello spazio che era uomo fra gli uomini schierati - e così la nave andava, commovendosi e sfiorando a una a una la fronte dei predestinati e… “vi bacerei sotto le ascelle e fra le mani”, tu dicesti, sporgendoti dal cassero, ma senza muovere la bocca e… senza muovere la lingua la muta dedizione e la voglia di carezzare ci invasero i polmoni, ci penetrarono l’animo e vi costruirono una solida casa. Tu eri la culla e la sicurezza del camminare. Tu ci penetrasti come la voglia di mangiare o di rifiutare le vivande - di ancorarci a terra o di nuotare - di vivere o di lasciarci calpestare - di gridare o di contemplare, senza spingere nel fiato, di già fra le piume dell’aquila imperiale.

E così tutti noi parlammo, ma nessun alito varcò le morbide labbra e quella stanza, che in volo tagliava il giardino di galassie. Tutti noi parlammo, ma senza sospensioni e senza pause e… tutti noi, senza parlare. Tutti noi, secco il palato, ci battezzammo popolo - POPOLO DAGLI OCCHI COME SCALE. Cadde ogni limite. In luoghi sconosciuti sorsero città e fortezze. Le vie del cielo si spalancarono e cambiò aspetto ogni contrada e ogni paesaggio. Le diagonali e le mutazioni vennero contemplate, come il marito guarda la sposa, il mattino stesso delle nozze, e non più la riconosce credendola altra, oppure, come il padre guarda la figlia all’atto della separazione, ma, geloso, la vorrebbe ancora bambina, correre per le sue campagne. Alla stregua, si dissetò il Tigri nel freddo Oleàno. Bevvero i somali al Dnepr e al Volga. Arrivò da Biscaglia, sul grigio cocchio della tramontana, il giorno in cui l’acqua si aprì e una roccia spuntò rossa, vellutata come il membro dei tori di Dalmazia. Nuovi mondi furono scoperti, e non fu eletto un solo popolo, un unico pianeta e un unico universo con cui misurarsi; in cui ruotare e seminare precetti e grano. Le catene si sciolsero - svelati i passaggi e le proporzioni. L’estensione sparì dalle norme, e il respiro divenne la sola forma e il solo valore di ogni spiegazione. Colui che è - Colui che è - Colui che è dall’umanità fu considerato sintesi e astrazione, di più ardori e di più fonti. Buio e fantasmi, ombre sacre e inviolate, lo avevano descritto dal nulla e più volte, nei bivacchi, prima della battaglia, lo avevano annunciato. Lo avevano evocato con silenzio, lo avevano sussurrato dal niente più neutro e dalla pietra che confonde le tracce - lo avevano poi innalzato, consacrato, scagliato verso la meta - verso il nulla celeste, che nulla teme, infatti nulla può descriverlo come desto o completo.

Invero, furia d’incendio, di rabbioso vento e timore di dardo, che trafigge la gola, non sono temibili come la fede che arranca ma non trova centro; che non ha sfogo e non si condensa, in una visione sola e certa. La frenesia è castrata - la smania ripiega su di sé e l’impazienza, l’ansia e l’anelito sono motivi di grande macerazione, rancore, sfinimento e violenza, terrosa e suprema. Tanto varrebbe, a questo punto, restare e curarsi sempre meno. Tanto varrebbe dimenarsi e morire di febbre o di delirio cieco. Tanto varrebbe, più che cercare uno sbocco al proprio credo - ma così si presta l’emozione; così l’istinto di gioia più segreto - così l’indole della specie, che non può esimersi, non può cedere - gonfia le vene, stringe il torace, e i denti fa luccicare, quindi l’occhio, come il fiume, lambisce il mistero e il divieto; poi mettersi in cammino, prendere il volo, sfidare e uccidere - alla ricerca di un tempo e di uno stile che per passione ferisca, risolva o respinga e, privo di abitudine, d’indifferenza e di monotonia, sgozzi la mediocre stirpe, l’insipida lettura, l’insipida cena, l’insipida malattia e… a tali condizioni, tanto varrebbe appena nato nella cuna morire, oppure, in battaglia svanire. Così, come burrasca sulla prateria, come anatra che lo stormo nella tempesta guida, come il gentile Arno che d’inverno minaccia e si avventa travolgendo ponti e rive - come l’Elba che il mare nel ventre colpisce - come il Reno, che a primavera, quando il calore aumenta, raccoglie dei ghiacciai i mille rivi, e nel piano li scompiglia - come lo sfogo della bora, nelle paludi e nelle pinete adriatiche - come l’eccitazione che la femmina alimenta, e che briglie non sopporta poi fine non teme, e sin contro le daghe e le picche incita a gettarsi, ché l’esistenza, solo in queste prove, può dirsi coerente e degna - può dirsi amica e sorella del nostro patimento… così! E solo così la ricerca è nobile e il restare e il non darsi morte può appellarsi come unico senso e unico potere e - quindi - cogliere l’incitamento - riempirsi d’ovazione, pulirsi, trionfare, saziarsi d’amore e di affetti e, sicuro e appagato, continuare a vivere - sicuro, rivolgerti all’altro e, dell’altro, il petto benedire, come di colui che provvede alla tenebra e alla luce, e in esse, egli vive il supremo inizio, oltre l’opera conosciuta, e oltre ogni rappresentazione di quiete e di principio. Oltre ogni turbamento, oltre l’adattarsi, oltre la nebbia e le selve, nella suggestione eterna, ma priva di riferimento certo e di un fine perpetuo.

Perciò, non esiste risposta, non esiste concessione, ma partire verso il cielo, procedere, andare sempre oltre, è suo e nostro compito - questione di sgomento e di valore. Partire, anche se il già considerato, nel mare assoluto, ci attende; finalmente in quell’ombra amica, in quell’ombra che ci consola, da quando la luce, via via, si è andata a esaurire - divenendo piccolo frammento e rincorsa di giudizio; e in quell’ombra - il torpore del suo ventre - fu madre e golfo di comete. Ci accompagnò, ci rivestì, ci lavò, e fu muro per l’esterno - per quei contorcimenti e per le inutili vendette consumate in tutti questi secoli. Quell’ombra fu … comoda vagina e umido seno. Quell’ombra fu il primo cielo che il nostro timone conquistò e scolpì quale basamento. Fu il primo deserto che le nostre trombe e i nostri corni dispersero e, come la natura ... come l’universo capovolto e indiscreto, fu ombra infinita che contenne altra e altra e altra ombra, narrandola quale assente e ... come prima morte divenne quel cielo, che il mistero fu dal mistero scoperto.

Infine la strada terminò, ma nelle carte non venne segnata, e l’impulso ancora la cancella o la nega - perché d’impulso sono i nomi che fondarono quella nobile famiglia, atta agli incontri e al deliquio. Nel frattempo, ai maestri appartati, inviammo giovani messaggeri, e nelle taverne e sulle montagne furono avvicinati e messi al corrente di quell’evento e della scelta di smarrirci, come una costellazione, nel firmamento. Ai maestri nascosti inviammo ali e pertiche e all’altezza di cento frecce con loro c’incontrammo e ci scambiammo gl’incarichi e la vita intera. All’altezza di mille frecce alzammo la testa e per i fianchi ci tenemmo insieme, poi - all’altezza che l’altezza converte in nulla di pensiero - ognuno si disse come altro, e ognuno di sé stesso divenne guida suprema. All’altezza del ventre e del cuore, la nave così divenne - come diventò dal niente quell’uomo fra le schiere, e quindi: la vita fu della morte complice allo strumento e all’intesa. Di nuovo da capo - di nuovo una circonferenza, anello di parvenza, con al centro la lunga salita e il nostro merito… Oh mio condottiero, che riposi nella mente - io sarò custode e interprete di tale idea, fissa e mai definita come la neve. Non abbandonarmi, non rendermi lo spirito. Fammi lottare e ancora ispirarmi - così da crescere e l’ombra partorire. L’ombra… sì, l’ombra della nave - che è il nostro, e il mio profilo.

(v. anche qui)

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