lunedì 27 ottobre 2025

LA MANTIDE

di Vincenzo Capodiferro





Storia immaginaria di una vendicativa ninfomane vendicata: «Qui gladio ferit gladio perit». 


Nella Milano degli Scapigliati, alcuni locali erano gettonati: l’Osteria della Polpetta, il Caffè Manzoni, la Cascina de’ Pomm. E lì vedevi circolare tanti artisti, letterati, intellettuali: Emilio Praga, Arrigo Boito, il fratello Camillo, Igino Ugo Tarchetti, Vittorio Imbriani, Giuseppe Grandi e tanti altri. Ma nessuno sa la vera storia della morte di Tranquillo Cremona, avvenuta il 10 giugno 1878. La causa della morte è saturnismo, perché l’artista usando nella pittura spesso le dita, ha ingerito una quantità di piombo tale da portarlo al decesso. Nello stesso anno, il 18 novembre, muore l’artista Enrico Junck, tra le braccia del fratello, il musicista Benedetto Junck, che si era fatto fare una statuetta di Beethoven fanciullo dallo scultore Giuseppe Grandi, di Ganna. Anche il genio Flaminio Bertoni, che assomigliava tanto a Beethoven, si era dipinto egli stesso quale il glorioso musicista, come se fosse un autoritratto. Per ironia della sorte pare che anche Beethoven, che amava portare i capelli scapigliati, sia morto per ingestione da piombo. Usava, infatti, mescere nel vino un additivo piombato. Suicidio? E chi lo può sapere? Dopo la sordità il genio era caduto in una profonda depressione, per cui si gettava a capo fitto nell’arte. 

Che strano! Muoiono a distanza di poco, entrami giovani, entrambi in circostanze sospette. Nessuno oramai sa più la verità, tranne forse il maresciallo Ugone Stracchini, della stazione dei Carabinieri di Milano, nei pressi del Duomo. Aveva avviato un’indagine per capire le reali cause della morte di alcuni artisti che avevano avuto a che fare con la Cascina de’ Pomm, l’albergo ufficiale degli Scapigliati. Circolavano delle voi bieche, infatti: una certa inserviente che si chiamava Aminta Desideria, aveva a che vedere indirettamente con la morte di alcuni artisti Scapigliati. La chiamavano la “mantide”, con allusione evidentemente all’insetto, la “mantide religiosa”, che divora i suoi amanti e li uccide nell’atto d’amore. La mantide era una donna bellissima, avvenente, alta, coi capelli rossi. Non aveva figli per una malformazione all’utero. Non era sposata. Chi portava i capelli rossi era considerato già di per sé maledetto. Il proverbio diceva: «Peli rossi e cani pezzati, vogliono essere uccisi appena nati!». Al di là di questa superstizione, c’erano state delle circostanze strane in alcuni decessi di noti e non noti “circolisti” della Scapigliatura milanese. Ugone, poi, era un simpaticone, benevolo, aiutava tutti e quando poteva fare a meno di effettuare una multa, una condanna, era sempre a disposizione. Perciò lo invitavano tutti a pranzo, o a cena, e spesso usciva ubriaco. Anche egli, qualche sera, si recava ai circoli degli Scapigliati per divertirsi e per controllare, naturalmente, gettando un occhio, come fa un buon padre di famiglia. Poi andava a caccia nel parco delle Groane. Allora si poteva. Una mattina un suo amico, in piazza Duomo, chiamato Zazà, gli diceva: «Chi va a caccia o è ricco o è pazzo». Ed egli con fare da bontempone: 

– Adesso te o do io se sono pazzo!

E puntava il fucile verso quel simpaticone. 

Ugone voleva vederci chiaro. In effetti la mantide aggiungeva del piombo ai bicchieri di vino degli artisti. Era gelosa del giovane Enrico. Ma perché? Si era accorta che tra Enrico e Tranquillo Cremona c’era più che un rapporto amicale. Non è raro tra artisti che si instauri un erotismo sottile, al limite dell’omosessualità. Ugone era convinto che la mantide aveva fatto fuori Tranquillo e che si apprestava a far fuori anche il giovane Enrico, ma non riusciva mai a coglierla con le mani in fallo. Era troppo astuta! E così doveva assistere impotente ai funerali di questi due giovani, amati artisti, nel giro di pochi mesi, entrambi morti per saturnismo, ma diremmo per gelosia erotica, per sadismo patologico. Non si sa che tipo di rapporto hanno avuto con la mantide, sicuramente sessuale. 

La mantide non scherzava, se ti prendeva di mira ti saltava addosso, o tanto si adoperava che ti faceva cadere. E poi gli uomini sono deboli su quel punto, come diceva che il proverbio: «Tira più un pel di figa che una fune attaccata ad un paio di buoi!». A proposito di buoi, un giorno quando Ugone si recava a fare un’indagine in campagna sulla sparizione di un aratro in val Padana, c’era un contadino, di nome Serafino, e Ugone se la prendeva: 

– Serafì! Mi devi dare del “Voi”, non del “tu”. Esigo rispetto.

Serafino rispondeva tomo: 

– Marescià, se ti do i buoi, io poi come faccio? 

– Ah ah ah!

Ugone, con una sonora risata, abbracciava quel povero contadino. 

Laddove l’accorto gendarme non arriva a cogliere in fallo la vedova nera, ci riesce il fratello, il musicista Benedetto Junck: doveva in qualche modo vendicare il povero Enrico. E si mette in collutta con la mantide, ma quando gli dava il bicchier di vino, lo rifiutava, sapeva che era avvelenato. Si fingeva astemio ed in tutti i modi evitava i tranelli della donna, perspicace come un serpente. Ed alla fine, per fregarla, le regala una collana di preziosi: era molto bella e valeva molto! Ma la mantide non sapeva che quella collana, che sotto aveva delle sottilissime spire, era stata ben imbevuta di acido fluoridrico. La sera se la mette al collo e la mattina la trovano stecchita, alla Cascina de’ Pomm. Vendetta era stata fatta. Ugone sapeva tutto, ma non si sognava di aprire alcuna indagine ulteriore. Quella donna aveva procurato la morte di due giovani artisti. Perché la mantide ce l’aveva con gli artisti? Beh! In fondo un motivo c’era. Il padre, Desiderio, era un bravo pittore, ma era stato fatto fuori da un grande nobile lombardo, che in qualche modo aveva a che fare con, circolo degli Scapigliati, il conte Carlo Berlangieri, per motivi personali. Allora era previsto anche il duello per motivi d’amore e Carlo, che aveva un’amante in comune, aveva ammazzato il padre. Desideria, allora, aveva appena sei anni! Promette di vendicarsi. Era come Carlo Magno che aveva fatto fuori Desiderio. E la figlia Desideria, come l’Ermengarda manzoniana, si trova:


Sparsa le trecce morbide

sull’affannoso petto,

lenta le palme e rorida

di morte il bieco aspetto,

giace la pia col tremolo

sguardo cercando il ciel.

lunedì 13 ottobre 2025

L’Agenda del cuore

Gent.mi,

come ogni anno torniamo da voi con l’appuntamento del cuore, chiedendo di rinnovare l’adesione alla nostra iniziativa attraverso la pubblicazione gratuita della locandina dell’Agenda del Cuore 2026 sulle vostre testate, nel formato che vorrete richiederci, cartaceo e/o digitale, di cui alleghiamo una bozza. Sarà nostra cura provvedere a inviarvi, qualora fosse necessario, il formato che vorrete richiederci considerando un anticipo di 24h.
 
Questa 30esima edizione dell’Agenda di ALT sarà la compagna di un nuovo anno all’insegna della salute, con approfondimenti, curiosità e consigli per il cuore, il cervello, le vene e le arterie.
Dal formato settimanale, aiuterà mensilmente a riconoscere sintomi e ridurre i fattori di rischio della Trombosi, meglio conosciuta con il nome di: Infarto, Ictus, Embolia polmonare, Trombosi delle vene e delle arterie.
Un’amica al nostro fianco pronta a valutare il nostro stile di vita e ad invitarci a intraprendere scelte sane e intelligenti.
 
I fondi raccolti aiuteranno ALT a sostenere progetti di Ricerca multidisciplinare nel campo della Trombosi.
La campagna partirà dal 1° novembre 2025 e durerà fino al 28 febbraio 2026.
In attesa di riscontro, grazie di cuore fin da ora per l’attenzione e lo spazio che dedicherete ad ALT per il bene di molti.
 
Cordiali saluti.

 




Richiedi la tua copia dell’Agenda del Cuore 2026 per te e per le persone che ti stanno a cuore

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Associazione per la Lotta alla Trombosi e alle malattie cardiovascolari – Ente Filantropico

Via Lanzone, 27 - 20123 Milano Tel. +39 02 58 32 50 28

Uffici aperti dal lunedì al giovedì, dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 18.00.

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giovedì 9 ottobre 2025

La porta socchiusa

Il potere della porta socchiusa


di Sandro Serreri



Sempre e comunque, è bene lasciare la porta socchiusa. Né aperta, né chiusa. Socchiusa, per comunicare un solo messaggio: Se vuoi, vieni! Nessuna chiave occorre, e non serve bussare. Se… basta solo un lieve movimento e la porta si apre e si può entrare varcando la soglia. Una porta chiusa e chiusa a chiave respinge, non offre speranza, lascia fuori. 

Una porta socchiusa induce al pur poco coraggio a spingerla, al dubbio di aprirla, alla disperazione di trovare luce e calore. Sono le troppe porte chiuse a doppia mandata a rendere gli uomini diffidenti e lontani. Sono le porte socchiuse a far si che gli uomini trovino pace.

Una porta socchiusa può mutare un cuore notturno in un volto sorridente, una paura in un rifugio accogliente e sicuro. Quando si è corso è bussato e ribussato a quella porta e a quell’altra porta e nessuno ha aperto, una porta socchiusa ridona fiducia nel valore della fraternità che sa aprire e ospitare con generosità. Una porta socchiusa è uno spiraglio, una fenditura, un taglio di luce, un segno che dice: VIENI! Quando la notte devasta tutti gli umani sentimenti e la morte stritola il cuore, una porta socchiusa può diventare una rinascita, una risurrezione. A ogni uomo è data la possibilità di avere porte chiuse o porte socchiuse. La scelta può cambiare il corso di una intera vita. 

MODE DEI TEMPI ANDATI: LE SARTORIE DELLA NONNA STELLA

di Vincenzo Capodiferro


Vogliamo ricordare la nonna Stella, detta di “Cicerino”. Era una bella donna e tutti la chiamavano per le cerimonie, soprattutto i matrimoni. Il matrimonio era anche l’occasione per lo sfoggio dei migliori abiti. Parliamo di un paesello appollaiato sugli Appennini, versante lucano: Castelsaraceno.  

Castelsaraceno è un paesello allegro, come un bambino cullato da due monti della Lucania: l’Alpi ed il Raparo. È come una pietra preziosa incastonata nella corona delle cime dell’Appennino. Il primo ad occidente e il secondo a settentrione proteggono il paese in modo che l’orizzonte si allarga solo ad oriente, verso un’amena vallata. Tanto è vero che l’erudito di Latronico Gaetano Arcieri, nel descrivere il borgo usava questi termini: «Di angusto orizzonte, di orrendevole aspetto». Diceva un proverbio antico: «Nu pinnineddu e nu pitticeddu, tirituppiti inta Casteddu» (Una salitella e una discesa ed eccoti a Castello!).

Allora i vestiti venivano preparati tutti a mano, non c’erano negozi di abbigliamento. I genitori si mettevano d’accordo: la donna portava la dote e soprattutto il corredo. Il corredo era tutto il patrimonio, fatto di lenzuola, coperte, cuscini, preparato dalle brave donne del paese. Tutte le ragazze sapevano cucire e ricamare, oltre a fare tutto. Nella tradizione era famoso il puntino ad ago di Latronico. Poi il pranzo nuziale era organizzato dai parenti: ammazzavano le pecore, cucinavano e fittavano una sala, o mangiavano nelle case dei palazzi nobiliari. C’era una storia antica che raccontava dello ius primae noctis. Castello si vide conteso e oltraggiato da tre padroni, i quali per diritto tutti ne pretendevano la giurisdizione e soprattutto vessavano il popolo di tasse. Sia il duca Ugone che l’abate Antonio Sanseverino, nonché il Principe di Stigliano, che avanzava pretese nel feudo, imposero un potere intollerabile. Il Principe di Stigliano, con la forza, pretendeva in eguale misura «tutto quanto sopra ed, oltre a ciò, estese i diritti feudali a cose di onore di estrema delicatezza». In pratica esercitava lo ius primae noctis. Probabilmente furono questi soprusi che sollecitarono molti cittadini ad allontanarsi da Castelsaraceno e trasferirsi alle falde del Pollino, dando origine al paese di San Severino Lucano. La leggenda vuole che un marito travestito da moglie picchiasse il signore feudale.

Padre Giuseppe da Campora, cappuccino, si lamentava di questa situazione, traducendo un distico latino, nostalgico del governo dei monaci di Sant’Angelo al Raparo: 


Quanti padroni mi diè barbara sorte, tutti mi diede ad oltraggi, ad infamia, a morte; addio prisca moral, bei giorni aviti quando mi ebbi a signori i cenobiti. 


Stella di Cicerino aveva sposato un allevatore abbiente, Giovanni di Cacoscia. I padrini e le madrine dei matrimoni godevano di uno status sociale importante: il compare di san Giovanni, o la comare di san Giovanni, venivano chiamati. Come vediamo in queste foto la nonna Stella era ambita in più matrimoni e di solito compare a latere agli sposi o appena dietro: 


  


Questa foto risale al matrimonio di Comare Maria di “Repole”. Anche in questa altra: 


al matrimonio di compare Cesare. E poi mangiavano e bevevano nelle case. 



I soprannomi erano tutto: si riconoscevano le persone solo da quelli. Parliamo di moda: pur in un paesello abitato soprattutto da contadini e pastori, però c’era tutto un fermento intorno alla lavorazione dei tessuti. La lana era tutto, perché c’erano tanti allevatori. C’erano i cardatori, coloro che lavoravano questo prezioso tessuto, facevano materassi, cuscini. Le donne, le anziane soprattutto, con i ferri facevano calze, maglie, mutande, mutandoni, sottane. Tra le penelopi, tessitrici che avevano il telaio, c’erano Elena di Falamita, Sabella di Sabelluccia, Angiolina di Ciruzzo, Egidia di Milano, Carmela la Bisiera. Oltre alla lana si usava molto il cotone, importato, tessuto dei poveri. Poi il terital, che veniva chiamato “tiritallo”. Tessuto più pregiato era il castorino, il velluto, usato dai nobili, il lino ed anche la seta. C’erano degli allevamenti serici, come è attestato dalla tradizione e della coltivazione dei gelsi. Comare Gelsomina allevava i bachi da seta. Producevano una seta grezza che poi rivendevano, ma riuscivano anche a realizzare capi delicati. Abbiamo una serie di pregiate casule nel museo della Chiesa, fatte dalle operose mani delle nonne sarte. Poi c’erano dei telati, con cui lavoravano sia il cotone che la lana, la canapa e soprattutto un tessuto resistentissimo che veniva tratto dalla ginestra. La procedura per ricavare il filo di ginestra era lunghissima. Si mettevano a macerare per tanti giorni e poi si sfilacciavano. Con la ginestra si producevano sia capi grossolani, come sacchi, stoffe per materassi, ma anche lenzuola che sfidano i secoli. I materassi dei più poveri erano riempiti con foglie secche di mais, o altro. Ancora abbiamo delle lenzuola di ginestra con le iniziali di nonna Stella Candia - SC. I materassi dei più ricchi erano di lana e tessuti doc come il Sassonia. I cardatori delle lane emigravano e portavano quest’arte fin oltreoceano, in Argentina, ad esempio, la seconda Italia. La canapa era coltivata fin dai tempi antichi, ma dagli anni Settanta in poi, ne venivano usata le foglie per scopi diversi e quindi molte piantagioni furono estirpate. Anche per le calzature facevano tutto i calzolai che ce n’erano tanti. I più poveri andavano a piedi o usavano degli zoccoli con pianta di legname e un pezzo di cuoio. Possedevano solo un paio di scarpe più decenti che indossavano per le occasioni. La nonna ci raccontava che gli stessi vestiti se li passavano tra fratelli o tra parenti e duravano anni e anni. C’erano nel paese tanti laboratori sartoriali, trai più noti c’era la sartoria Lampo, che si trovava in Via Leopardi, in cui lavoravano Ferrante, Minuccio di Calabria, mio zio, Antonio e Felice di Tredici. Poi c’era un’altra sartoria di Attilio in piazza Sant’Antonio. Trai sarti più precisi c’era Generoso il Collegatore. Le stoffe li portavano i moliternesi. Moliterno era un paese di abili mercanti: andavano dappertutto. 

Trai negozi del paese c’era quello di Luigi Natale: 



Poi con il boom economico degli anni Cinquanta cominciarono a sorgere i negozi di abbigliamento. Abbiamo una testimonianza della sorella della nonna Stella, Angelina, che era emig
rata a Milano insieme a zio Minuccio di Calabria, che era diplomato da sarto e poi lavorava presso la Garzanti. Mio zio mi voleva tanto bene e da bambino mi ha inondato di libri. Debbo a lui tanto amore per la cultura e per la letteratura e lo ricordo sempre con affetto. Ad un Natale, la sorella della nonna invia un completino da Milano, affinché lo indossasse, come è riportato in questo stralcio di lettera: 



E così arriva il tempo delle mamme e della generazione nostra, degli anni Settanta. Allora la moda aveva fatto pass
i da gigante. Ma ricordiamo sempre con affetto la moda dei nonni. Le nonne erano avvolte da sottane e recavano lunghi scialli neri, che li portavano a vita, soprattutto dopo i lutti. 

Qui abbiamo degli esempi, anche con un costume di Pisticci: 



Nelle case non c’erano i bagni e ci lavavano così: 



Ma era bello. C’era tanta allegria, anche se non c’era niente. E noi piccolini eravamo felici con niente! 


  

martedì 7 ottobre 2025

Raccontare la scienza

pillola di Enrica Musio 


Nel libro scritto da Nino Di Paolo La stoffa dell’universo edito da Fara, troviamo una narrazione in cui si parla di scienza, di teorie scientifiche, di evoluzione, di genetica, di intelligenza artificiale.

Un libro complesso e  molto interessante per chi ha curiosità scientifiche.

lunedì 6 ottobre 2025

Con gli occhi di un bambino. Malattia e cura, cura e malattia.

di Nino Di Paolo (intervento alla kermesse di Fonte Avellana a tema Cura)



Cura di una nuova malattia, quelle malattie che ciclicamente si presentano nella storia di ogni specie, di quelle animali soprattutto, di quelle di specie “giovani” ancor di più, giovani come la nostra.
E la storia della nostra ha vissuto due ere: prima e dopo la visibilità della causa, cioè prima e dopo l’invenzione e l’utilizzo del microscopio.
E, di seguito, la storia di altre due ere: il prima e il dopo l’intuizione, la sperimentazione e l’utilizzo dei vaccini.
E poi ancora di altre due: prima e dopo la cura contro i batteri patogeni attraverso i farmaci antibiotici.
Le “nuove ere” datano un tempo infimo rispetto al manifestarsi della vita sulla Terra ma anche alla comparsa della nostra specie, con l’ultima, l’era “antibiotica”, addirittura da meno di ottant’anni.
Le scoperte che hanno aperto le nuove ere hanno anche aperto gli occhi a tutti verso la necessità della cura dell’igiene personale e ambientale, tutti fattori che hanno poi contribuito all’esplosione demografica dei sapiens propria degli ultimi settant’anni.
Un divenire, però, sotto gli occhi, tutt’altro che aperti ma, piuttosto, sempre e comunque accuratamente bendati, del caso.

Giancarlo andava a dir Messa
all’Ospizio di via dei Cinquecento
focolaio del primo sfalcio
e, sotto un casco che tentava l’impossibile,
ci lasciò
il primo giorno di primavera.

Tina ed Umberto
il loro tempo
dopo il confinamento
erano tornati ad occuparlo
nell’amore verso i nipoti
avanti e indietro da scuola.
Una settimana prima di ricevere il vaccino
passò, per loro, il secondo sfalcio
e se ne andarono
a tre giorni l’una dall’altro.

**** 

aveva iniziato
a pubblicare libri a sessant’anni
dopo una vita di lavoro, da emigrante,
per raccontarla, quella vita.
Il terzo sfalcio lo trovò nel campo
di chi il vaccino aveva evitato.

Le mie patologie
sono una lista della spesa.
Quelle giuste per lo sfalcio.
Ma il tagliaerba non rasò
quella fascia di prato.
Scegli se sentirti fortunato, saggio, furbo o in colpa.
Scegli pure che risposta pescare.
Il caso andrà avanti a far del suo.


Questa è la premessa, il campo dentro cui si gioca.
Poi ci sono i giocatori, noi.
Con le certezze e le angosce, le fatiche e i sollievi, e il vissuto, soprattutto.
Si può giocare a questo gioco con sano spirito di conoscenza, con pregiudizio, con empatia, con coraggio o con paura, per interesse o perfino con violenza.
Tutti questi aspetti possiamo ritrovarli manifesti nella più recente pandemia della storia umana, dove abbiamo visto enormi sviluppi della ricerca così come rifiuti aprioristici verso gli aiuti che la ricerca stessa ci ha fornito, grande aiuto sia professionale che volontaristico verso le persone colpite ma anche decisioni dettate da utilità economiche o elettoralistiche, come quelle del non “chiudere” in val Seriana, idranti da una parte ma anche minacce e parole d’odio verso i sanitari dall’altra.
Infine, sostanziale amnistia verso gli atti (e le omissioni) delle Regioni ma Commissioni parlamentari d’inchiesta verso il Governo in carica nel momento delle scelte più difficili.
Segnalo, a questo proposito, uno dei pochi libri-indagine prodotti, e uscito già nell’autunno 2020, riguardo a quanto avvenuto nella Regione Lombardia, epicentro del sisma insieme a Wuhan, New York, Londra e Madrid, e prima di New York, Londra e Madrid: “Senza Respiro – Un’inchiesta indipendente sulla pandemia Coronavirus in Lombardia, Italia, Europa. Come ripensare a un modello di sanità pubblica” di Vittorio Agnoletto, con prefazione di Luiz Inàcio Lula da Silva, attuale Presidente del Brasile che si trovava, al momento dell’uscita del libro, in libertà provvisoria per accuse che verranno poi ritenute false nell’ultimo grado di giudizio.
Il lavoro di Agnoletto parte dalle testimonianze, da parte di persone comuni e di operatori sanitari, di cosa è accaduto e di come si è o non si è affrontata la tempesta Coronavirus in Lombardia che, al 31 agosto 2020, contava il dato di 167 decessi ogni 100.000 abitanti, il più alto del mondo.
Se si disponesse del dato relativo alla sola Provincia di Bergamo il rapporto morti/abitanti sarebbe ancor più elevato.
Si trova poi la descrizione dettagliata degli atti e delle omissioni da parte di Governo Centrale e Amministrazione Regionale, dalla non chiusura dell’Ospedale di Alzano Lombardo alla non istituzione della zona rossa in val Seriana anche in seguito alle pressioni che provennero, in tal senso, dal padronato delle Aziende del settore produttivo della zona, fino alla madre di tutte le stragi: la delibera regionale n.9 dell’8 marzo 2020, che predisponeva e incoraggiava il trasferimento dei pazienti post acuti dagli Ospedali alle RSA, per ridurre la pressione sugli Ospedali stessi (“un cerino in un pagliaio” la definisce Agnoletto riportando l’espressione usata da Luca Degani dell’Unione Nazionale Istituzioni e Iniziative di Assistenza Sociale).
È dal tempo della peste di Atene (430 a.C.) che, nonostante per secoli non fosse conosciuto l’agente causale del morbo, la prima precauzione per evitare contagi sia sempre stata quella di tenere le persone ammalate ben distanziate dalle altre.
Giovanni Boccaccio ambienta il primo capolavoro in prosa della lingua italiana in un luogo isolato dove alcuni giovinetti non ammalati di peste (quella del 1348 d.c.) si ritirano, abbandonando la città, per non esserne contagiati.
Tornando ai giorni della nostra pandemia, il 22 aprile 2020 il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, in relazione alla gestione dell’emergenza, dichiara al Corriere: “Rifarei tutto”.
La maggioranza degli elettori lombardi concordano con Fontana rieleggendolo, nel febbraio 2023, con il 54% dei voti validi.
Tutto sepolto. Tutti sepolti.
Il lavoro di ricerca di Agnoletto prosegue nel confronto tra l’approccio alla tempesta che tenne la Regione Lombardia con quello delle altre Regioni italiane e di altri Paesi Europei ed Extraeuropei.
La parte conclusiva focalizza l’attenzione alla deriva che una gestione esclusivamente economicistica della sanità sta portando e, nonostante tale deriva paia inarrestabile, cosa che ognuno può direttamente percepire, non manca di proporre soluzioni per invertire la rotta sottraendo la sanità, sia culturalmente che giuridicamente, dalla realtà di merce nella quale si sta ordinariamente inscrivendo per tornare a quella di diritto universale che, nonostante sia sancito dal testo costituzionale, è nei fatti in buona parte già svanito.
In conclusione di questa breve riflessione che ho proposto vorrei però soprattutto mettere l’accento sulla cura dal punto di vista del “curato” e di un particolare tipo di “curato”, quello del noi-bambino, ammalato o, comunque, in relazione con il nostro corpo, con la nostra salute.
Con gli occhi di un bambino, quindi.
Anche qui, almeno in Occidente e sicuramente in Italia, possiamo individuare due ere: prima e dopo il Sessantotto (e quello che la cultura ribelle del Sessantotto ha prodotto nel campo dei diritti individuali della persona).

Mente locale
sui miei quattro anni
sono due stanze e la stufa
che una ne scaldava,
l’altra aveva fiori
di ghiaccio di qua del vetro.
E’ una fila di bambini
seduti sugli sgabellini davanti a un lungo lavandino,
acqua dai rubinetti e sangue vivo negli scarichi,
quello delle nostre tonsille recise.


****

La porta a vetro si chiudeva alle cinque
quando arrivavano le mamme
a trovare i bambini incarcerati
nell’Ospedale delle Malattie Infettive,
a Dergano, addosso alla Bovisa.
Imponeva ancora l’isolamento
la scarlattina
nella primavera del sessantasette.
Di ventuno giorni.
Ventitrè ore senza mamma e papà
e un’ora appiccicati
al vetro di quella porta
per provare a toccarli
per scambiarsi una carezza impossibile.
Unica consolazione una radiolina a transistor
per ascoltare “tutto il calcio” la domenica pomeriggio
e la rubrica jazz di Adriano Mazzoletti la sera,
la mia ninna nanna.


****

Il digiuno diurno
a undici anni
senza averne ancora il dovere
per sentirsi grande
poi correre a bere dal rubinetto
non appena il telefonino
fa partire la litania
della preghiera della sera.

Quando le flebo
non erano ancora in uso
e il mio risveglio dall’anestesia
avvenne in una notte di assonnati infermieri
il bambino si alzò
arso dalla sete
curvo sul dolore della ferita
e guadagnò anche lui
un agognato rubinetto.


****

Colonie estive
per i figli dei dipendenti
erano anticipo di naja per i bambini
e anche per le bambine
che non avrebbero imbracciato fucili.
La grande Ditta tedesca
di armi ed elettrodomestici
le organizzava
tra il Cusio e il Verbano.
Quando le apparvero le pustole
lo disse a sua sorella
ma lei se lo lasciò sfuggire
e Giovanna, con la sua varicella,
finì rinchiusa sulla torre.
Mandava cartoline ai genitori
obbligata
a scrivere “qui tutto bene”,
lassù, dalla cella.
Raperonzolo non era solo
fiaba di un oscuro medioevo,
era ancora realtà
alla fine degli anni ’60.
Dovette arrivare il sessantotto
per spazzar via quell’oscurità.
Siamo sulla strada che la ripristinerà.

I miei ventuno giorni
nel carcere di Dergano
non erano solo
distacco corporale dai genitori
erano due penicilline al giorno
attese come la goccia dalla stalattite
erano infermiere senza dolcezza
pastasciutte con rancido ragù
un ragazzo che lo mostrava gonfiarsi
lasciandoci spaventati.
E anche lì, ma dopo, arrivò il sessantotto.


La cultura ribelle del Sessantotto con le battaglie civili e sindacali che ne seguirono figliarono, in Italia, riconoscimento di diritti nei luoghi di lavoro (Statuto dei Lavoratori nel maggio 1970), del diritto a non rimanere sposati con chi non ci si vuole più rimanere (Legge sul divorzio del dicembre 1970), dei diritti delle donne (Diritto di famiglia del maggio 1975), la riforma carceraria (luglio 1975), la chiusura dei manicomi-carcere (maggio 1978), il diritto universale alla salute e alla cura (sempre 1978, in dicembre), la riforma del processo penale (ottobre 1989).
Per una legge contro la tortura si è dovuto purtroppo attendere il 2017.
Molte di queste conquiste sono state e sono continuamente messe in discussione dal pensiero e dalle forze reazionarie, a seguito dell’egemonia culturale che tali forze detengono, in Italia, fin dagli anni ’80, in seguito alla sconfitta operaia alla Fiat dell’autunno 1980.
Noi, in quella stagione bambini, adolescenti e poi giovani, in quella cultura continuiamo a specchiarci, anche per le scelte del nostro presente.
In alcuni versi abusivamente estrapolati da una poesia di Giuseppe Carlo Airaghi tratta dalla raccolta Ora che tutto mi appare più chiaro ritrovo il senso di questo guardare ogni momento del presente.

“A quel bambino (che sono stato) mi rivolgo…
… A lui mi confesso quando scrivo
al bimbo innocente che sono stato.
Lui il mio giudice,
il mio interlocutore.
Il mio accusatore.”


Il tutto, sempre e quindi, con gli occhi di un bambino, la nostra coscienza.
Come ci ricordava Giovanni, fanciullino di San Mauro.


Nota: i brani poetici inseriti in questo testo sono presenti nella raccolta Specchi asimmetrici, pubblicata nell’agosto 2024 da ChiareVoci Edizioni.

venerdì 12 settembre 2025

W chi ascolta! Voci Vincenti a Santarcangelo 17 ottobre 2025



W chi ascolta!
Voci Vincenti


Santarcangelo venerdì 17 ottobre 2025
polifonia fariana dalle 15:00 alle 19:00

stacchi musicali di Fabio Cecchi












15:00 saluti della responsabile Simona Lombardini e di Alessandro Ramberti

15:15 Arianna Biscotto vincitrice al Narrapoetando con Appartengo a te 

15:30 Stefano Calemme I al Faraexcelsior con Atlante delle ferite

15:45 Leonardo Colletta vincitore al Faraexcelsior con La poesia non serve a nulla

16:00 Marco Bottoni/Roby Cottoman vincitore al Narrapoetando con Diario e Noir

16:15 Alessia Boldrini I al Narrapoetando con Piccolo bestiario

16:30 William Protti vincitore al Narrapoetando con Tre racconti inquieti

16:45 anna delle crete (Anna Maria Tamburini) con non arresi

17:00 Matteo Pasqualone vincitore al Faraexcelsor con La voce del sangue

17:15 Cristiana Veneri votata al Narrapoetando con Uomo di Mondo

17:30 Gianni Marcantoni votato al Faraexcelsior con Cuoia


17:45 Interventi flash di max 3 minuti: Giuseppe Vanni, Natascia Ancarani, Alessio Zaffini, Ezio Settembri, Stefano Bianchi, Giorgio Iacomucci, Filippo Amadei, Fabio Cecchi, Franca Fabbri, Ardea Montebelli, David Aguzzi… e gran dibattito finale 


Ingresso libero fino a esaurimento dei posti

info: 0541 356299 
baldinisantarcangelo.it

biblioteca@comune.santarcangelo.rn.it

info@faraeditore.it - faraeditore.it