domenica 19 gennaio 2025

LA CASA DI LINO



All’amico Lino

La casa di Lino aveva qualcosa di sinistro, da palazzotto nobiliare un po’ decaduto. Da una via interna pedonale, in rapida discesa, si arriva a una piazzetta sbilenca, dal perimetro irregolare, lastricata da ciottoli levigati male assortiti. Gli edifici che vi si affacciano, apparivano tutti posti lì quasi a far la spia. Alcuni semiabbandonati, altri abitati ma con le vecchie persiane in legno sempre chiuse o accostate. In questi, la posta giungeva assai raramente. Quando pioveva, abbondantemente, l’acqua defluiva di corsa, a cascata nei gradoni sottostanti. D’estate non c’era vento in grado di rinfrescarla almeno un pochino e, perciò, attraversarla a piedi nudi era impossibile, sempre che non si volesse rischiare di ustionarsi.
Ebbene, dopo questa strana piazzetta, una piccola scala con gradini macchiati portava al pianerottolo della porta d’ingresso. Ora questa, di vecchio legno più che stagionato, recava, uno nell’anta di destra e l’altro in quella di sinistra, due grossi pomi in ottone così ben lucidati che ci si poteva specchiare. Non passava giorno, di qualsiasi stagione, che non fossero strofinati e ristrofinati. Se fosse accaduto un crimine e si cercassero delle orme digitali, sarebbe stato inutile, perché cancellate dallo strofinaccio di turno.
Sulla destra della porta, appesa alla bell’e meglio, una cassetta postale mezzo arrugginita recante uno stemma reale non identificabile. Varcata la porta, subito una ripida scala portava al piano superiore. I gradini, in marmo di Carrara, erano consumati dal tanto andirivieni, un tempo, su e giù e giù e su. La pedata era corta e l’alzata eccessiva, ma lo spazio era quello e, dunque, non si era potuto far di meglio. Però, un corrimano di ferro attorcigliato aiutava nell’impresa della scalata. Oltre un secolo fa i vecchi la facevano più volte in un giorno, senza mai e dopo mai lamentarsi. Erano più forti? Probabilmente sì! Dopo l’arrampicata, che poteva risultare più o meno salutare, a detta di qualcuno, si accedeva a un grande soggiorno a forma di elle. E qui, meraviglia! Sembrava d’essere entrati, come per magia, in una sorta di un museo misto tra una pinacoteca e una raccolta di porcellane e argenti. Le alte pareti erano quasi completamente tappezzate di quadri a olio e di stampe. Tutti i soggetti erano magnificamente incorniciati. Abili artigiani avevano ideato e scolpito pensando felicemente al quadro o alla stampa. La maggior parte dei quadri, di diverse dimensioni, erano veramente stupendi, e altrettanto poteva dirsi di alcune stampe. S’intuiva che non erano stati acquistati per caso e lì appesi senza una logica e un senso estetico raffinatissimo. Si potevano leggere firme importanti, di autori che avevano fatto scuola, per lo piò impressionisti insieme a qualcuno delle avanguardie di fine ‘800 e inizi ‘900. Molte stampe erano antiche, veri pezzi da museo.
Poi, sulle e dentro le credenze ottocentesche, dai pannelli finemente intagliati e istoriati, ogni ben di Dio in fatto di ceramiche, porcellane e argenti. A un primo e superficiale colpo d’occhio, appariva una raccolta tale da poter suscitare invidia al direttore del Victoria and Albert Museum di Londra. Facevano bella mostra di se: statuine, vasi, piatti, tazzine e teiere, insieme a: tabacchiere e portapillole d’argento, e sempre in argento: piattini, piccole caraffe, posate, porta candele, candelabri. C’era, dunque, da farsi e rifarsi gli occhi non dieci ma cento volte. Ovviamente, si poteva ben supporre che ogni oggetto aveva una sua storia personale. Tra l’altro, alcune erano molto interessanti e altre persino misteriose, legate com’erano a personaggi della storia locale e nazionale.
Nella casa di Lino non c’era oggetto, piccolo o grande, che non avesse la sua voce e, dunque, non parlasse, non avesse qualcosa da dire. Tutti erano parlanti, tutti erano da ascoltare.
Dalle finestre di questo soggiorno-museo, il Poeta avrebbe detto: “E quinci il mar da lungi”. Sì, spettacolo assicurato! E per questo: “Lingua mortal non dice / Quel ch’io sentiva in seno”. Perciò, dentro la calda penombra della stanza, senza troppo affacciarsi, non era necessario, ecco il mare blu e azzurro e spumeggiante o specchio d’argento mite e incantato. E da un verone, bello nella sua ringhiera in stile liberty, a perdita d’occhio, quel che questo mare cullava, portava. Così, non lontano, appena al di là di qualche tetto rosso dalle vecchie tegole, riarse e consumate dal sole e dalla salsedine, che si tenevano abbracciate l’un l’altra, il porto con le sue barchette e motopescherecci da quadro naif.
Quel porto che, in un bel mattino d’inizio d’ottobre, aveva visto ammirato e accolto alla fonda, tra una santa e un santo, ben diciotto superbi velieri inglesi. Quel porto che tanti uomini e donne aveva visto salpare e mai più far ritorno, perché così accade quando si cerca fortuna oltre le colonne e l’Atlantico. Quel porto che custodiva, segretamente e gelosamente, ultimi baci, abbracci e lacrime, tante lacrime.
Dalle finestre di Lino, ah quanta e quanta umanità! Piccole storie che andavano sfumando e smarrendosi incontrando e inseguendo l’orizzonte, la sua intoccabile linea.
Se, poi, da questa importante stanza, aprendo una porta, vecchia e cigolante nei suoi cardini antiquati, si entra nella cucina che fu sempre usata, allora l’odore non era salmastro o di rose o di olio per mobili, ma quello delle spezie della bisnonna, del buon fritto di pesce, dell’aglio e del prezzemolo, del sugo di pomodoro, del caffè. È qui che tanta vita quotidiana è stata vissuta intensamente, perché, come si sa! la cucina è la stanza sacra della casa. Infatti, non vi è ambiente più fecondo, parlante, generativo, evocativo, poetico, della cucina, anche perché in una cucina si può cantare, suonare, scrivere, dipingere, sognare.
Qui, dove nascono tutti i pasti, è custodito il primo, fondamentale, valore della vita familiare: la convivialità. È nella cucina che prende forma e sapore la pasta, le torte, i dolci e le prelibatezze delle feste che scandiscono l’umano scorre del tempo che sempre fugge e non si sa mai dove.
In questa cucina, così gravida di materie e corpi, appeso alla parte di fronte, il rame regna, sovrano consumato e lucidato. Narra di ciambelle e budini, di crostate e creme da far leccare più e più volte le dita. Sembra, allora, di vedere bambine e bambini intenti nel gioco d’impastare con l’aiuto della nonna o della zia, e la mamma, di lontano, rammendando, sorridente e contenta. Una finestrella di vetri veneziani colorati, socchiusa, il più delle volte, fa si che vapori e odori vadano a confondersi là, fuori, con la libera aria della via sottostante e della non lontana piazza.
In una cucina come questa, si potrebbe restare anche per un’intera vita.
Lasciando la sacra cucina, però non prima d’aver intinto un boccone di pane dentro la pentola del sugo in lenta cottura, con un ulteriore sforzo, ma ne vale la pena! ci si arrampica per una scala meno ripida della precedente lasciandosi aiutare, ben volentieri, da un corrimano in legno consumato da vecchi e bambini. Giunti al piano, si viene inondati dal buonissimo profumo del lino alla lavanda che avvolge i letti del sonno e del riposo notturno. Alle pareti non più quadri, non più stampe, ma tante, tante foto. Ricordi, tanti ricordi. Così tanti che si accavallano e si confondono, si offuscano, si allontanano. Ed ecco la mamma quand’era bambina, il nonno col panciotto, la bisnonna vestita da sposa, il cugino alla marinara e lo zio balilla, un parente soldato disperso in Russia e un altro ucciso in Abissinia e non da un colpo di fucile ma da una primitiva freccia. Quanta storia appesa e incorniciata alle pareti del lungo corridoio e delle camere da letto.
In fondo, il bagno col lavabo di marmo ingiallito, la vasca con qualche macchia di ruggine, lo specchio con i bordi d’argento. L’odore è quello dei saponi, della schiuma da barba, dei balsami, delle creme. Da una monofora la luce entra per giocare con qualche ombra, mentre nel soffitto un lucernario ruba un quadrato di cielo mutevole quanto lo sono le nuvole nel loro volteggiare come rondini in primavera.
Da una camera da letto, superata la stanza dei libri e della carte varie, della scrivania e della macchina da scrivere Olivetti, camera che ha visto nascite e morti, tramite una scala a chiocciola, si conquista il terrazzo della casa dal quale si può ammirare un infinito paesaggio tutt’intorno, ruotando su se stessi. I tetti, in parte rifatti, tutti a due spioventi, nascondono tante famiglie, e fanno brillare di rosso lo sguardo che si posa per poi andare oltre e oltre ancora. Da questo punto di vedetta, è possibile scrutare il paesaggio di là dalle case e del porto e così mettere l’occhio nel mare che da secoli si sposa con chiunque voglia metter su casa tra le case che s’abbracciano proteggendosi l’un l’altra, d’estate come d’inverno.
Dal punto più alto della casa di Lino, vien voglia di spiccare il volo, mossi dal desiderio di lasciare ogni oggetto al suo posto, ma far navigare per il libero cielo le essenze, gli affetti e i sentimenti. Liberare i profumi e i colori, da spalmare insieme là dove l’alba e triste e il tramonto muore, senza più ferire.
Ma, poi, da questo spazio, tra cielo e terra, si torna nelle stanze, nei corridoi, nelle scale, ed eccoci in ben che si dica nella piazzetta dove, ad aspettarci, troviamo il gatto del vicino al quale regalare un pesciolino, il turista che si è smarrito nei vicoli e nella lingua dei vichinghi chiede indicazioni, il postino stagionale che non trova il numero civico, la rosa in vaso che implora un po’ d’acqua.
E così salendo, si lascia la casa con dentro nella tasca destra un tovagliolino da tea e alcune foglioline di lavanda, per non dimenticare.


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