giovedì 21 aprile 2022

Quando lei andò via

di Sandro Serreri




Lui aveva quindici anni e un corpo ancora acerbo, lei aveva superato i trentacinque anni ed era fatalmente attraente, seducente. Il suo trucco era appena accennato, quasi invisibile, la gonna superava sempre le ginocchia e la camicetta, mai attillata, faceva comunque intuire i suoi seni medi e sodi. Teneva i suoi capelli, castano-chiari, raccolti a coda di cavallo. Lui era un adolescente della media borghesia, sicuro di sé, non troppo espansivo, a caccia di emozioni, alla scoperta del sesso. Afferrava tutto con serietà, non giocava con i sentimenti che iniziava ad assaggiare a piccole, caute dosi. Non si faceva mai notare, né in classe né nei campi sportivi. Osservava le sue coetanee da lontano o di sbieco e le trovava tutte non interessanti. Interessante, e molto, trovava invece una sua zia, sorella minore della mamma, divorziata e risposata, che una volta, non si sa se per gioco o per altro, lo aveva baciato sulle labbra salate la scorsa estate. Forse, aveva pensato dopo questo bacio, non lo attraevano le ragazze, ma le donne mature. Non poteva saperlo, perché prima dell’ingresso nella sua aula dell’insegnante di francese, non aveva mai sentito un’attrazione così forte, sconvolgente. 


Sapeva di piacere a una compagna, quella con la pancia quasi sempre scoperta, che una volta, durante la ricreazione, aveva tentato delle avances sino ad appoggiare la sua mano destra sulla patta dei suoi blue jeans facendolo arrossire e indietreggiare. E sapeva anche di essere bello pur non essendo né muscoloso né selvaggio. Questi, stavano all’altra parte del cortile interno, avvinghiati a studentesse uno o due anni più piccole d’età. Il compagno di banco, amico dalle Medie, gli aveva confidato che quasi tutte le notti si masturbava immaginando di fare sesso con la bionda della II B. Lui lo faceva raramente e solitamente quand’era teso, specialmente dopo un litigio con la madre a causa della sua solita richiesta: poter frequentare il corso di francese del venerdì pomeriggio. 


Finalmente, questo permesso gli fu accordato dopo le sue insistenze e l’intervento non richiesto della sua zia preferita, quella del quasi bacio: “Il ragazzo vuole parlare il francese. Che cosa c’è di strano?”. Iniziò a frequentare il corso mentendo ai genitori, distratti o assenti: le due ore di lezione, una di teoria e una di pratica, non terminavano alle 19:00, ma alle 18:00. Lo scopo, lo conoscevano lui e l’amico. Alla prima lezione, lei si presentò vestita con un elegante tailleur che metteva in evidenza le sue forme: i fianchi, i seni, il posteriore. Nel corso della lezione, alla presenza di una decina di studenti, si muoveva tra i banchi dando occhiate, invitando a ripetere la perfetta pronuncia di una parola, di un verso, sorridendo come risposta a qualche buffa domanda. Lui la squadrava da capo a piedi, voltandosi se era necessario, guardandola sfrontatamente negli occhi. Aveva occhi di un marrone chiaro, incorniciati da lunghe ciglia, mentre i suoi erano molto più belli, di un azzurro tendente al blu. Al termine della prima lezione, che era consistita in una sintesi del programma, il suo migliore amico gli aveva detto: “Hai visto come ti guardava?”. “Ma a chi, a me?”. “A te, sì! Eccome!”. Durante la cena a casa fu taciturno e distratto. La sorella, ogni tanto, gli lanciava qualche piccola mollica, ma lui non reagiva, fu quasi assente. 


Alla seconda lezione, stette più attento e così poté notare che, in effetti, lei lo guardava più del dovuto. Era uno sguardo con il quale gli chiedeva di ascoltarla, ma anche di guardarla. E lui la guardava, eccome! Fissava i suoi occhi sull’apertura della giacca o della camicetta, sul suo didietro quando gli dava le spalle, muovendosi da un banco all’altro. Mentre, ogni tanto, l’amico gli dava uno sguardo d’intesa o una leggera gomitata. “Secondo me, tu gli piaci!”, gli disse sottovoce uscendo insieme dall’aula. “Sì, è molto probabile!”, gli rispose compiaciuto e spavaldo. Questa volta, prima del suono della campanella, aveva assegnato un compito per casa: studiare a memoria la poesia À une passante di Charles Baudelaire. Infatti, durante le successive lezioni si sarebbero lette, ascoltate, esaminate, come esempio utile per bene imparare pronuncia e accenti corretti della lingua francese, oltre che poesie di Baudelaire, anche di Arthur Rimbaud e Paul Verlaine. La scelta cadeva su questi, perché a detta di lei da questi tre poeti la lingua francese aveva preso un sentiero che l’aveva condotta sino ai loro giorni. 


Dunque, amava la poesia, i poeti maledetti, uomini dal grande disordine e inquietudine sentimentale e affettiva. Lui rimase molto incuriosito da questa scelta di campo, dalla richiesta di imparare a memoria proprio la poesia À une passante, dove un verso recita: Moi, je buvais, crispé comme un extravagant. Lei, quel tardo pomeriggio, li seguì a distanza, fermandosi a sbirciare le vetrine ogni qualvolta i due amici si fermavano per futili motivi. Voleva sapere dove abitava quel suo studente dai bellissimi occhi azzurro-blu. Dopo due vie e una piazza, l’amico entrò in un androne e scomparve, mentre lui percorse ancora un’altra via per poi entrare nel portico di una villetta in stile liberty. Lei, all’altra parte della strada, dietro un cartellone pubblicitario, stette a guardarlo sino a quando il portone si chiuse dietro di lui. La sua casa, in un bel condominio anni ’60, si trovava due vie oltre la successiva piazza, quindi non lontano dal suo studente. 


Il lunedì dopo la seconda lezione, incontrandoli nei corridoi, durante i cambi di lezione, chiese a ogni alunno del suo corso il numero di cellulare motivando la richiesta con la scusa che era bene poterli contattare nel caso ci fosse qualche comunicazione urgente riguardo un possibile cambio d’orario o l’assegnazione di un compito. Ebbe così anche il suo numero dove nel profilo whatsapp compariva una piccola parte di un quadro che lui sapeva essere Les Grandes  Baigneuses di Paul Cézanne. Strana scelta per un adolescente di quindici anni. Ma non incuriosiva nessuno, anche perché un po’ tutti sapevano della sua passione per tutto quello che era francese. 


Alla quarta lezione, dopo un mese di sguardi, ammiccamenti, parole sussurrate, ecco un suo sms: Dopo la lezione, davanti al fioraio. Con una bugia liquidò l’amico che proseguì la solita strada in compagnia di una studentessa, secchiona ma anche molto carina. La trovò che lo stava aspettando con una piccola pianta di gerani rossi tra le mani un po’ tremanti. “Che ne dici, vuoi venire a casa mia? Ti spiego meglio come recitare Le Bateau ivre di Arthur Rimbaud”. Lui, non se lo fece ripetere. Sorrise e la seguì. L’appartamento, al secondo piano, era arredato con gusto, alle pareti quadri, stampe, librerie. La cucina si affacciava sulla piazza, al centro una fontana con la pretesa di imitarne una seicentesca. Gli offrì una Coca-Cola, ma lui non la volle, perché avrebbe fermentato troppo dentro il suo stomaco segretamente già molto sconvolto. Seduti su un comodo divano, lei iniziò a leggere Le Bateau ivre. Al quarto verso di ogni strofa, si avvicinava a lui. E al verso: Et ravie, un noyé pensif parfois descend, lei gli fu così accanto, che le spalle e le ginocchia si poterono toccare, vibrando. Quindi, al termine della settima strofa, lasciò volutamente cadere la raccolta di poesie sul tappeto, e dopo avergli preso tra le mani il bel volto, lo baciò con passione. 


Lui, inesperto, restò immobile. Perciò, lo prese per mano – lui rosso nelle guance e negli orecchi – e lo portò nella camera da letto dove, dopo averlo spinto e gettato sul letto, con calma lo spogliò. Denudato, lo ammirò e s’accorse di quanto fosse acerbo e per questo molto sensuale. Allora, anche lei in fretta si spogliò e si coricò al suo fianco iniziando a baciarlo a partire dal petto ansimante. Lui era molto eccitato. Lei gli insegnò tutto. Fecero l’amore con dolcezza e quando a un certo punto dell’amplesso lui si diede troppo da fare, lei gli sussurrò: “Piano, piano! Calma, calma!”. Tornò a casa ancora visibilmente paonazzo, confuso, piacevolmente incredulo per quel sesso inatteso, anche se tanto desiderato e cercato. 


Le lezioni private, a domicilio, si ripeterono al ritmo di due tre alla settimana con annesso sesso a letto o sul divano del soggiorno. Alla terza lezione, prima di far sesso, lei stabilì un patto: sesso in cambio di poesia. Prima di fare l’amore, lui doveva recitare a memoria una poesia di Baudelaire o Rimbaud o Verlaine. Lui divenne così bravo, che lei non tardò a fargliene recitare anche due di seguito. Così le poesie e il sesso andarono avanti per oltre due mesi. L’esperienza, poi, lo rese capace di preliminari che lei gradiva sempre di più. In casa, a scuola, nessuno sospettò nulla. L’amico da più di un mese faceva coppia fissa e sesso con la bionda di II B, e questa relazione intima lo distraeva a tal punto da non accorgersi di quel che lui stava vivendo quasi sotto il suo naso. Solo la sorella, ogni tanto, con intuito femminile, gli lanciava qualche frecciatina, del tipo: “Sei innamorato! Sei innamorato!”. Mentre i genitori avevano ben altro cui pensare. 


A scuola, si misero d’accordo, furono molto bravi a non dare dell’occhio. “Potrei venire a vivere da te!”, le disse all’inizio dell’estate, sotto la doccia, dopo aver fatto l’amore. Lei scoppiò in un riso contagioso e lo strinse a se teneramente, come una mamma: “Ma cosa dice il mio bambino, il mio bambino!”. Un tardo pomeriggio, l’ultimo sabato di luglio, assai assolato e con l’aria stagnante, suonò e risuonò, ma il cancello non si aprì. La chiamò, ma la segreteria telefonica comunicava che il numero era inesistente. Provò, allora, a inviarle un sms, ma niente. Desolato, prese la via del ritorno. Per quella lezione-sesso aveva imparato a memoria Ma Bohème di Rimbaud, che ripeté sottovoce alcune volte con profonda tristezza. A tarda sera, sotto una luna sudata, tornò a suonare e a richiamare. Silenzio. Niente. “La professoressa è partita!”, gli disse un anziano signore aprendo il cancello del condominio per potare a spasso un bellissimo cocker spaniel. “Partita? Partita?”, si domandò agitato. “Come partita!”. Allora, gli venne una forte fitta allo stomaco e poi per pochi secondi tutto il mondo gli girò attorno, velocemente e rumorosamente. Sedette su una panchina della piazza frastornato, nauseato. Sì, lei era partita, lo aveva lasciato. Iniziò a piangere, come un bambino, e gli venne alla mente afflitta la penultima strofa di Le Bateau ivre:


Si je désire une eau d’Europe, c’est la flache 

Noire et froide où vers le crépuscole embaumé

Un enfant accroupi plein de tristesses, lâche

Un bateau frêle comme un papillon de mai.

Nessun commento: