Enne pigia un tasto, l’olocomputer si disattiva. L’ennesima fase occupativa giornaliera è conclusa; non lo percorre il minimo segno di stanchezza, né prova desiderio di andarsene. Rimira le pareti buie dell’ufficio, nella totale assenza di odori e suoni; fugacemente, il suo sguardo scivola sul piano della scrivania grigiastra, desolatamente vuota.
Su una parete di fondo, da tempi remoti, è presente una specchiera; Enne le passa accanto senza cercare la propria figura riflessa; perché dovrebbe? In fondo nulla lo distingue da ogni altro abitante della città: calvo, il volto emaciato, gli occhi spropositati e vacui, magro all’inverosimile, curvo in avanti, la pelle di un colore grigiastro puntellata di macchie, le mani lunghe e sottili sprovviste di peluria e unghie.
Come d’abitudine sale sul disco ascensore, la cui circonferenza s’illumina dopo aver identificato il suo passeggero; meno di un istante e il cilindro magnetico si materializza, fino ad inglobarlo.
Le mani di Enne, sulle quali è impresso un pin rilevabile esclusivamente dal computer, gesticolano nell’aria, impartendo un ordine silenzioso e la macchina si mette in moto. Le pareti della stanza si dilatano. Quasi a voler repellere un corpo estraneo, disegnano un varco sufficiente al passaggio dell’oggetto. Privo del benché minimo interesse per quanto lo circonda, Enne sorvola la città, composta da ruvidi cilindri color carbone, d’identica e smisurata altezza, disposti secondo un preciso schema: più ci si allontana dal centro, più i cilindri si fanno prossimi l’uno all’altro, finché paiono toccarsi, eterne e ineludibili sentinelle pronte a precludere qualunque via di fuga. L’aria è pesante e la monotonia dell’impenetrabile cielo color piombo è rotta, a tratti, dal serpeggiare di velenose saette verdognole a cui però non fa seguito il rombo dei tuoni; lame d’acido sferzano il cilindro magnetico senza minimamente scalfirlo. Ma cielo e terra sono troppo distanti perché Enne possa anche soltanto intravederli.
Milioni di altri individui gli sciamano tutt’intorno, a differenti altezze, anch’essi sui loro dischi ascensori; Enne non fa loro caso, né loro si curano di lui. Ognuno si muove solitario in una direzione differente, per raggiungere l’alloggio assegnato.
Ben presto un nuovo varco si apre e Enne si ritrova fra altre pareti nere, rischiarate da una luce fievole e opprimente.
Anche il coniuge è tornato dal lavoro; sta in piedi di fronte a un congegno che emette suoni striduli, mentre la prole, dall’aspetto una quindicenne, sta seduta su un divano grigio, d’un materiale simile alla plastica, opportunamente concepito per ottundere i sensi.
«Cappa, hai provveduto alla pulizia della stanza assegnata?» domanda Enne alla prole.
«Ho smarrito la password…» risponde lei, con voce spenta e metallica, distratta dalle fulminee immagini dei molteplici video presenti in rete, che scorrono nella sua mente per mezzo di un congegno infinitamente più piccolo di un granello di polvere, impiantatole nel cervello appena dopo la nascita.
«Quando il grado di sviluppo tecnologico era nettamente inferiore, era usanza della nostra specie utilizzare le mani e uno strofinaccio» le dice Enne, senza convincimento.
«Paleolitico...» gli risponde la ragazza, sullo stesso tono.
Il coniuge chiede a Enne com’è andata e lui come sempre risponde: «Bene».
A questo scarno scambio di battute, probabile residuo di ricordi atavici, fa seguito il più assoluto silenzio. Gli sguardi non si sono mai incrociati né mai lo faranno.
La scena è così innaturale e posticcia che ci si attenderebbero da un momento all’altro le risate e lo scroscio di applausi registrati tipici delle sit-com americane.
Enne non sa cosa faccia Elle, il coniuge, durante il giorno ed entrambi non sanno quel che fa la figlia, se non un vago “lavora” o “studia”: ma sarà la verità? Non si tratterà invece di dati impiantati geneticamente per costituire un freno al nascere di una conversazione e offrire al contempo una parvenza di normalità?
Elle abbandona il macchinario a cui prestava tutta la sua attenzione e compie pochi gesti meccanici: la pianta di Oao, prodotto di avanzati studi di biogenetica, dalle cui foglie appuntite cola un liquido resinoso e maleodorante, schiude i suoi frutti violacei percorsi da striature rossastre.
I tre raccolgono un frutto ciascuno e si ritirano nelle rispettive stanze, quasi che condividere il momento del pasto possa instillare e far crescere in loro il germe della famiglia. Si tratta di un rischio remoto, tuttavia perché alimentarlo?
Enne consuma il suo frutto, nutriente ma pallido e senza gusto, scorrendo le immagini di un notiziario che, attraverso i proclami di un’interminabile schiera di denti bianchi, ripete fino allo spasimo le stesse cose sulla giustezza delle scelte operate, nonostante gli scenari apocalittici prospettati da taluni uccelli del malaugurio, e della evidente superiorità della nazione globale che ha portato al controllo e al trionfo completo del genere umano sulle forze della natura. Enne rammenta, come in un sogno e per una frazione di secondo, di aver rivolto parola alla prole assegnata subito dopo essere rientrato; scuote la testa e scaccia tale pensiero dandone la colpa a un sintomo di stanchezza, la stessa che talvolta lo porta a chiedersi da dove sia nata l’assurda consuetudine di far estrarre dal computer centrale i nominativi di altri umani, geneticamente compatibili, con cui si è costretti alla coabitazione. Si spoglia e si sdraia sul letto, gli occhi rivolti al soffitto e le braccia incrociate sul petto. Sì, domani e domani e domani tornerà al suo lavoro. Non sa cosa sono tutti quei dati che scorrono sull’oloschermo, ma sono senz’altro necessari a non pensare, e a vivere.
L’insetto, una via di mezzo fra una lumaca e uno scarafaggio, scivolando sulla propria bava, pigia un tasto e quelle curiose e grottesche figure scompaiono. Chissà se ha premuto l’interruttore disgustato dal senso di vuoto che permeava la scena o, più verosimilmente, lo ha fatto per caso, mentre scorrazzava in cerca di cibo fra le macerie polverose di quelle bare nere, testimoni di un tempo in cui i dominatori del pianeta appartenevano a un’altra specie.
Ma forse il termine è inappropriato, perché queste minuscole creature non hanno idea di cosa voglia dire «dominare», né nell’accezione negativa, né in quella positiva del termine. Forse non lo sapevano più neppure quei fantasmi, se mai sono esistiti. All’insetto d’altronde non importa di sapere se quella era realtà o finzione, per lui e altri miliardi di suoi simili che gli brulicano tutt’intorno, incuranti di quanto li circonda, conta soltanto trovare un po’ di cibo per sopravvivere e tirare avanti.
Accanto alla specchiera, celato dall’oscurità, un quadro con un vela bianca, in un verde mare cristallino sul quale il sole imprime un reticolo di luce, diretta verso l’orizzonte…
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