domenica 8 febbraio 2015

La mia scuola: un sogno realizzabile

di Vincenzo D'Alessio

Ho frequentato le scuole elementari a metà degli anni Sessanta del secolo appena trascorso in un antico edificio adibito a complesso scolastico con aule dal cielo alto, i banchi di legno a due posti con al centro infisso il calamaio, molto fredde d’inverno. Avevamo il grembiule nero che recava sul petto i ricami rossi secondo la classe che frequentavi, il colletto bianco e il nastro tricolore che chiudeva il colletto. La campanella suonava alle otto e trenta , il maestro sedeva dietro una cattedra con quattro cassetti sul lato destro pieni di documenti; appoggiata sulla cattedra c’era un’asticella di legno per tenere a bada i discoli tra di noi; la lavagna era grande e nera con un cassino di feltro grigio; alle pareti c’era una cartina dell’Italia politica; la luce nell’ampia stanza pendeva dal soffitto era centrale e poco luminosa: d’inverno e durante i temporali c’era quasi buio.

La bidella si chiamava Giovannina, da sola puliva tutti gli stanzoni e i bagni in modo decoroso, l’odore della creolina arrivava dai bagni nell’ampio spazio del portico che immetteva nelle aule: era anziana vestiva quasi sempre di nero ma sorrideva serena ai nostri occhi fanciulli. Come insegnante ho avuto un campione dei quiz, che era anche sindaco della cittadina: Antonio D’Urso (conosciuto con lo pseudonimo di “ Rischiatutto”). I cinque anni volarono presto con qualche litigio tra coetanei e qualche ferita alla testa dovuta alle sassaiole delle “guerre” tra rioni.

I tre anni successivi in quella che allora venne definita Scuola Media Unificata, furono più difficili e meno collegati alle esperienze precedenti vissute intensamente con i coetanei e i ripetenti delle elementari. I professori erano quasi sempre del parere che avevamo appreso poco nei cinque anni passati e dovevamo maturare a furia di compiti a casa. Inutile dire che oggi sarebbe proprio il caso di realizzare un unico percorso didattico di sette/otto anni che permetta agli scolari/studenti di perfezionare al meglio le loro capacità per poi scegliere di proseguire negli studi superiori oppure perfezionarsi in un mestiere qualificato alle loro propensioni.

Alla fine del percorso nella scuola media mi iscrissi all’Istituto Magistrale “Regina Margherita” di Salerno con la volontà di insegnare nelle scuole dell’obbligo dopo avere completato gli studi al vicino Magistero. Purtroppo le cose andarono diversamente: erano gli anni della contestazione studentesca alla quale presi parte con tutte le conseguenze che portava questa ribellione verso il vecchio sistema scolastico. Mi diplomai con il minimo dei voti e dopo una breve esperienza come operaio nelle fabbriche trovai posto come impiegato nella pubblica amministrazione.

Intanto cresceva in me il desiderio di riallacciarmi al sogno di tornare tra i banchi della scuola statale dell’obbligo per dialogare con le nuove generazioni sugli orizzonti scientifici che avevo raggiunto nel corso della giovinezza: l’archeologia del territorio dove vivevamo. Intervenne dolorosamente il sisma del 23 novembre 1980 a sconvolgere la nostra quotidianità portando ancora una volta lutti e distruzioni. Compresi allora che avrei dovuto fare in modo che gli studenti conoscessero i beni esistenti sul territorio e salvaguardare quanto il terremoto dell’80 aveva lasciato. Così nei pomeriggi disponibili iniziai nel 1983 quello che definii: “Metodologia di ricerca e salvaguardia del territorio: esperienza nelle scuole medie della provincia di Avellino”: oggi visibile in due volumetti pubblicati in proprio nel 1986 e nel 1988 con le mie scarse finanze. Iniziai quindi i corsi con l’autorizzazione del Provveditorato Agli Studi di Avellino e del Preside della locale Scuola Media Statale “Francesco Guarini”.


La foto mostra i giovani studenti della scuola media statale “F. Guarini” di Solofra in visita alla località le fornaci nell’anno scolastico 1983/84, sito dislocato fuori dall’attuale centro abitato, dove era fiorente tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo la realizzazione del cotto, specialmente i “suoli per i forni” a legna: si distinguono ancora oggi sui resti dei materiali di risulta i bolli della Famiglia RUSSO attiva fino agli anni Sessanta del secolo appena trascorso.

Con passione i giovani studenti seguivano le lezioni preparatorie in classe dove, con l’ausilio di un videoproiettore, mostravo i luoghi delle nostre ricerche sul territorio e l’importanza avuta da questi nel corso del tempo: la memoria diveniva per loro una scoperta incontenibile condivisa con amore e passione per la loro conservazione. L’anno scolastico si chiudeva con l’incontro con il pubblico e con i genitori ai quali venivano mostrati dagli stessi scolari protagonisti le diapositive dei luoghi visitati e in qualche modo preservati dalla completa distruzione operata dall’abbandono.

Un grande contributo al lavoro che svolgevo giunse dal maestro Mario LODI di Piadena( CR) del quale scoprivo leggendo i suoi libri il grande impegno innovativo in favore dei metodi scolastici. Fu proprio LODI a suggerirmi di far tenere ai ragazzi un diario nel quale inserire osservazioni e riflessioni sul lavoro che stavamo realizzando. Seguii i suoi consigli e nel secondo libretto, pubblicato nel 1988, furono inseriti degli stralci del diario tenuto dagli studenti. Malgrado la buona volontà, l’economia non mi consentiva di realizzare altre pubblicazioni. Quindi i lavori proseguirono, come pure gli incontri, senza più la possibilità di divulgazione.



Una nuova occasione per divulgare il lavoro che andavo svolgendo nelle scuole si presentò agli inizi degli anni Novanta quando dall’incontro con il docente universitario professore Francesco BARRA fu pubblicato nella rivista «Rassegna Storica Irpina» un articolo nel quale spiegavo le finalità didattiche del lavoro, la salvaguardia dei beni presenti sul territorio e l’impegno dei giovani studenti per questo tipo esperienza. Il lavoro è contenuto nel numero 5-6 della rivista a pagina 69.

Continuai a collaborare con le scuole medie statali presenti nelle vicine cittadine di Montoro e Serino, avendo come collaboratori prediletti i miei tre figli Giuseppe, Nicolino e Antonio, limitando però la ricerca tra i banchi della scuola senza più nessuna ricognizione sul territorio. La certezza che potesse nascere una didattica diversa per insegnare la Storia a diretto contatto con il territorio è stato un sogno realizzato negli occhi e nella mente dei tanti studenti e scolari che hanno animato le mie giornate di “maestro honoris causa”: titolo conferitomi dall’allora direttore didattico professore Paolino Marotta il 20 dicembre 2002.


2 commenti:

Alessandro Ramberti ha detto...

paolino marotta ha scritto:



Caro Enzo
mi hai fatto dono di un testo molto bello, una testimonianza davvero emozionante per chi come me ha vissuto con la medesima passione quelle vicende e porta ancora forte il ricordo dei banchi di scuola.

E’ importante, anche a futura memoria, che tu abbia scritto dei tuoi ricordi di scuola ma credo ancora più importante che tu abbia raccontato del tuo straordinario impegno per la valorizzazione dei beni culturali del tuo territorio solofrano e delle indimenticabili e indimenticate esperienze di laboratorio di ricerca storica ed archeologica, che tu per tanti anni hai proposto agli alunni delle scuole medie prima e delle scuole elementari di Fratta e Casapapa dopo.
A distanza di anni mi piace sottolineare la validità scientifica e pedagogica delle tue lezioni ai piccoli studenti delle elementari, ai quali non facevi mancare i sopralluoghi sul campo e la manipolazione di reperti.
Quel titolo di “maestro onorario”, che ti consegnammo a Casapapa con la semplicità che si deve ad un amico e che tu hai conservato con la gioia e la gratitudine di chi ritiene di essere stato riconosciuto in tutto il suo valore, rimane per me il simbolo di una amicizia e di una riconoscenza che non si è interrotta mai, anche a distanza di più di otto anni da quando ho lasciato Solofra.

Con l’affetto e la stima di sempre

tuo Paolino Marotta

Alessandro Ramberti ha detto...

Mario Mignone ha scritto:




Caro Vincenzo,
ho letto con molto interesse questo tuo contributo alla conoscenza stimolante per i tuoi studenti.
La tua prima esperienza tra i banchi ricorda la mia, con una variante: avendo io incominciato a frequentare le scuole immediatamente dopo la guerra, i comuni dovettero rimediare aule in modi estremi: l'aula per la prima e seconda elementare fu creata in una camera di una casa che non aveva niente oltre ai banchi. Per andare a gabinetto dovevamo andare dietro la siepe dell'orto della casa. Molti di noi portavamo i pantaloncini anche d'inverno e puoi immaginare come ci sentivamo con le gambe esposte al freddo, molto spesso sotto zero.
Condivido anche l'esperienza del lavoro in fabbrica (quando sono venuto in America). Ma non mi lagno. In America c'e' un detto: il migliore acciaio viene dal fuoco piu' rovente. Ho affronato il resto della mia vita come "acciaio temperato".
Di nuovo, hai stuzzicato la memoria e abbiamo scoperto delle cose in comune.
Un caro saluto.
Mario